Lai Ching-te, vicepresidente del Partito progressista democratico, ha vinto le elezioni con il 40% dei voti. Il nuovo Presidente non avrà una maggioranza parlamentare, infatti il partito di Lai, alle stesse elezioni, ha ottenuto solo 51 seggi su 113.
“Un lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan”. Così si era definito in passato Lai Ching-te, il vincitore delle elezioni presidenziali taiwanesi di sabato 13 gennaio. Una frase rimasta scolpita nelle menti della Cina continentale, che lo reputa un “secessionista radicale”. Nonostante da allora Lai abbia molto smussato le sue posizioni, ponendosi in perfetta linea con la più moderata presidente uscente Tsai Ing-wen, Lai viene ritenuto come più “imprevedibile” da Pechino, così come forse anche da Washington e da alcuni taiwanesi, convinti comunque dalle sue ripetute garanzie che manterrà lo status quo.
Dunque niente “unificazione” (o “riunificazione” come la chiama Pechino), ma nemmeno una dichiarazione di indipendenza formale che porterebbe Taiwan a superare la cornice della Repubblica di Cina entro la quale è indipendente de facto, pur se riconosciuta da soli 12 Paesi in tutto il mondo dopo la rottura dei rapporti operata da Nauru lunedì 15 gennaio. Appena due giorni dopo la vittoria di Lai, in quella che sembra come una prima reazione cinese alla vittoria del leader del Partito progressista democratico (DPP), che al contrario dell’opposizione dialogante del Kuomintang (KMT) non riconosce il “consenso del 1992”, un controverso accordo tra le due sponde che riconosce l’esistenza di una “unica Cina” pur senza stabilire immediatamente quale.
La base da cui può partire qualsiasi forma di dialogo, secondo Pechino, che pare dunque destinata a non ascoltare le richieste di Lai che si è ripetuto (come già fatto da Tsai) disponibile a un dialogo purché questo sia basato sui principi di “parità” e “dignità”. In sostanza, il DPP richiede che il Partito comunista riconosca che Pechino e Taipei sono al momento due entità separate e non interdipendenti l’una dall’altra. Richiesta irricevibile a cui il PCC replica con il prerequisito del “consenso del 1992” e dunque dell’implicito riconoscimento che Taiwan fa parte della Cina, seppure il KMT specifichi “Cina con diverse interpretazioni”, sottolineando che non accetta il modello “un Paese, due sistemi” di Hong Kong che Xi Jinping vorrebbe imporre anche a Taiwan dopo la “riunificazione”.
Ma chi è esattamente Lai?
65 anni compiuti lo scorso ottobre, proviene da un ambiente molto più modesto rispetto agli ultimi due presidenti, Tsai e Ma Ying-jeou, entrambi appartenenti a famiglie benestanti. Nato nell’attuale Nuova Taipei, Lai è stato allevato dalla madre insieme a cinque fratelli dopo la morte del padre in una miniera di carbone, avvenuta quando lui aveva solo due anni. Lai è cresciuto insieme a cinque fratelli in una casa minuscola.
La sua ascesa è stata però inarrestabile. Prima di quella politica, quella professionale visto che è diventato medico e ha studiato ad Harvard. Una volta che è stata dichiarata la fine della legge marziale, nel 1987, Lai ha abbandonato la professione medica per dedicarsi alla politica. La sua lunga carriera è iniziata come deputato, poi è stato sindaco di Tainan, l’antica capitale prima dell’occupazione giapponese. Poi è stato premier durante il primo mandato di Tsai, ma a fine 2018 succede qualcosa.
Il DPP perde in modo sonoro le elezioni locali e il KMT sembra destinato a vincere le presidenziali in programma a inizio 2020. Lai, alla guida della corrente più radicale del DPP, è protagonista di un duro scontro con l’establishment del partito, tanto che qualcuno reputa non impossibile una scissione. Lo frattura poi si ricompone con il miglioramento della situazione per il DPP, favorito dalla repressione delle proteste di Hong Kong della primavera del 2019 che consentono di spostare la campagna elettorale sul tema identitario e delle relazioni intrastretto, facendo passare il KMT come “filocinese”. Tsai promette a Lai la vicepresidenza, tradizionalmente anticamera della candidatura presidenziale quattro anni dopo.
Così è stato. Lai ha trascorso tutta la campagna elettorale nel provare a convincere gli elettori di essere in piena linea con Tsai sulle relazioni intrastretto, garantendo che manterrà lo status quo. Pechino non si fida ma potrebbe comunque pazientare, in attesa di ascoltare il suo discorso di insediamento il prossimo 20 maggio e di vedere le prime politiche che metterà in atto da presidente in carica. Soprattutto, la Cina può far leva sulla sconfitta del DPP alle elezioni legislative.
Il partito di Lai, infatti, non solo ha perso oltre due milioni e mezzo di voti alle presidenziali rispetto al 2020, ma ha anche perso la maggioranza in parlamento dopo otto anni. Il KMT è il primo partito con 52 seggi, uno in più del DPP ma comunque non abbastanza per avere la maggioranza assoluta. Sarà dunque decisivo il ruolo del terzo incomodo, il Partito popolare di Taiwan (TPP) di Ko Wen-je, ex sindaco di Taipei che si è presentato con una piattaforma che lui definisce “pragmatica e anti ideologica” e basata su temi più concreti, tanto da riscontrare il favore di buona parte dell’elettorato più giovane.
Il sì o il no alle riforme o al budget di difesa potrebbe passare da lui. Pechino potrebbe cercare di far leva sulle frammentazioni interne per guadagnare dei punti politici in vista del cruciale 2027, anno in cui è in programma il XXI Congresso del Partito comunista cinese in cui Xi potrebbe cercare un quarto mandato, proprio nel momento in cui ci sarà la campagna elettorale per le presidenziali taiwanesi del 2028. Una contingenza temporale che potrebbe risultare davvero decisiva, più di quella di questa metà di gennaio.
“Un lavoratore pragmatico per l’indipendenza di Taiwan”. Così si era definito in passato Lai Ching-te, il vincitore delle elezioni presidenziali taiwanesi di sabato 13 gennaio. Una frase rimasta scolpita nelle menti della Cina continentale, che lo reputa un “secessionista radicale”. Nonostante da allora Lai abbia molto smussato le sue posizioni, ponendosi in perfetta linea con la più moderata presidente uscente Tsai Ing-wen, Lai viene ritenuto come più “imprevedibile” da Pechino, così come forse anche da Washington e da alcuni taiwanesi, convinti comunque dalle sue ripetute garanzie che manterrà lo status quo.
Dunque niente “unificazione” (o “riunificazione” come la chiama Pechino), ma nemmeno una dichiarazione di indipendenza formale che porterebbe Taiwan a superare la cornice della Repubblica di Cina entro la quale è indipendente de facto, pur se riconosciuta da soli 12 Paesi in tutto il mondo dopo la rottura dei rapporti operata da Nauru lunedì 15 gennaio. Appena due giorni dopo la vittoria di Lai, in quella che sembra come una prima reazione cinese alla vittoria del leader del Partito progressista democratico (DPP), che al contrario dell’opposizione dialogante del Kuomintang (KMT) non riconosce il “consenso del 1992”, un controverso accordo tra le due sponde che riconosce l’esistenza di una “unica Cina” pur senza stabilire immediatamente quale.