Sabato 27 marzo in Myanmar si è toccato il punto più tragico dall'inizio del golpe. L'esercito ha iniziato a prendere di mira anche le minoranze etniche
Una protesta contro il colpo di Stato militare a Yangon, Myanmar, 28 marzo 2021. REUTERS/Stringer
Lorenzo Lamperti Direttore editoriale di China Files e coordinatore editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate tra cui Affaritaliani (di cui ha gestito la sezione esteri), Eastwest, il Manifesto e ISPI.
Sabato 27 marzo in Myanmar si è toccato il punto più tragico dall’inizio del golpe. L’esercito ha iniziato a prendere di mira anche le minoranze etniche
Una protesta contro il colpo di Stato militare a Yangon, Myanmar, 28 marzo 2021. REUTERS/Stringer
L’esercito lo ha celebrato per la ricorrenza del “giorno delle forze armate”. Ma sabato 27 marzo 2021, in Myanmar, passerà alla storia come “il giorno della vergogna“. Oltre 90 morti nel giro di 24 ore, tra cui anche molti minorenni. Si tratta del bilancio più drammatico dall’inizio delle proteste contro il golpe militare dello scorso 1° febbraio. Tragico record che periodicamente aumenta, visto che la repressione sempre più violenta del Tatmadaw non sta riuscendo a fermare le manifestazioni.
Secondo le cifre dell’Associazione di assistenza per i prigionieri politici, a martedì 30 marzo il numero totale delle vittime in meno di due mesi è superiore a 500. L’esercito non nasconde quasi più la realtà che è chiara a tutti: i soldati hanno ricevuto l’ordine di sparare per uccidere. In diversi video che circolano sui social si vedono militari che sparano in direzione dei manifestanti anche senza aver subito provocazioni o persino in luoghi nei quali non ci sono proteste. Sempre nella giornata di sabato 27 marzo, le forze armate avrebbero appiccato il fuoco nella municipalità di Pyi Gyi Dagun, nella città di Mandalay, causando un rogo che ha coinvolto circa 60 abitazioni. Chi arrivava per provare a dare una mano a spegnere l’incendio è diventato bersaglio dei proiettili. Un uomo è stato lanciato su una barricata di gomme in fiamme ed è arso vivo. L’ambasciata degli Stati Uniti ha reso noto che ci sono stati degli spari contro l’American Center di Yangon, senza conseguenze.
Tra le vittime del fine settimana, secondo The Irrawaddy, ci sono anche 12 bambini. Sospesa qualsiasi pietà, sospeso qualsiasi diritto. Sulle circa 2600 persone arrestate dall’inizio delle proteste, solo 37 risultano al momento ufficialmente incriminate. Le altre sono trattenute in attesa di conoscere il loro destino. Nel mirino anche la stampa. Due giornalisti sono stati colpiti da proiettili di gomma e poi arrestati durante una manifestazione nella provincia di Kachin.
L’esercito contro le minoranze
L’esercito ha iniziato a prendere di mira anche le minoranze etniche. Sono stati effettuati degli attacchi aerei contro degli insediamenti della minoranza Karen nello Stato di Kayin. Circa tremila persone sono scappate oltre il confine con la Thailandia, altre migliaia stanno cercando riparo nelle foreste presenti nell’area. La mossa arriva dopo che il gruppo Karen National Union ha deciso di supportare il Governo ombra istituito dagli esponenti rimasti liberi della Lega nazionale per la democrazia, il partito di Aung San Suu Kyi.
Il Myanmar, come già raccontato da eastwest, ha al suo interno numerose minoranze etniche organizzate in milizie armate. Alcune di esse ora dicono di essere pronte a scendere in campo per combattere l’esercito. Tra queste l’Arakan Army, che opera nello Stato di Kachin. Un suo portavoce ha dichiarato che l’intenzione è quella di unire le forze tra le milizie etniche della regione di unirsi per “proteggere le vite e le proprietà degli oppressi birmani”. I combattimenti tra Arakan Army ed esercito si sono intensificati tra il novembre 2018 e il novembre 2020, causando centinaia di morti e circa duecentomila sfollati. Dopo una tregua il regime aveva deciso di rimuovere la milizia dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Sembrava un primo passo verso la distensione, ora invece torna la possibilità di uno scontro.
Non si tratta di un passaggio banale. Le minoranze etniche in Myanmar costituiscono circa un terzo della popolazione e se i vari gruppi riuscissero a mettere da parte le divergenze per schierarsi contro il golpe gli equilibri potrebbero cambiare. Soprattutto se ci fosse una convergenza con lo United Wa State Army e il Kachin Independence Army, due milizie attive in zone lungo il confine con la Cina. Entrambe sono in possesso di armi sofisticate di produzione cinese, incluso anche (nel primo caso) di un sistema di difesa aerea.
La risposta internazionale
L’influenza di Pechino su questi gruppi è da sempre considerata rilevante, tanto da aver causato in passato più di qualche frizione tra l’esercito birmano e il Governo cinese. Un paio di settimane fa, come spiegato da eastwest, dalla Cina era arrivato l’invito a “ristabilire l’ordine” dopo che i manifestanti avevano preso di mira numerose aziende del Dragone presenti in Myanmar. Ordine che non sembra poter garantire il Tatmadaw, soprattutto nel caso di uno scontro su larga scala con le milizie etniche. Osservare i movimenti dello United Wa State Army e del Kachin Independence Army potrebbe dare indizi importanti sulle reali volontà di Pechino. Il portavoce del Ministero degli Esteri Zhao Lijian ha ribadito la sua “preoccupazione” per l’evoluzione degli eventi in Myanmar e ha auspicato che “tutte le parti tengano presente gli interessi fondamentali del popolo birmano, continuino a impegnarsi per allentare le tensioni attraverso il dialogo e le consultazioni” e proseguendo “a portare avanti il processo di transizione democratica nel Paese”. A prima vista può sembrare una dichiarazione in perfetta linea con il dogma cinese di “non interferenza” negli affari interni altrui, ma il riferimento alla “transizione democratica” apre a potenziali interpretazioni.
Intanto, gli Stati Uniti hanno sospeso l’accordo commerciale firmato nel 2013 e mercoledì il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite voterà per tagliare l’accesso della giunta militare ai fondi e alle armi, col possibile deferimento alla Corte penale internazionale. I capi delle forze armate di dodici Paesi, tra cui anche l’Italia, hanno condannato apertamente le violenze.
C’è anche chi sembra invece intenzionato a “intensificare” i rapporti con il Myanmar, a dispetto del golpe e delle violenze. Si tratta della Russia. Sabato scorso, otto Paesi hanno mandato die rappresentanti a Naypyidaw in occasione della giornata delle forze armate: Cina, India, Pakistan, Bangladesh, Vietnam, Laos e Thailandia. Più, appunto la Russia. Con una differenza. Nel caso degli altri Paesi, tutti asiatici, si trattava di funzionari militari. Per Mosca era invece presente il vice Ministro della Difesa Aleksandr Fomin. Non si tratta di un caso. Negli ultimi anni l’esercito birmano ha insistito sulla cooperazione in materia militare con la Russia, anche per ridurre la dipendenza in tal senso dalla Cina. Tra le numerose visite reciproche ad alto livello, sono stati firmati diversi accordi per la fornitura di armi. Lo scorso gennaio, poco prima del golpe, i due Paesi hanno sottoscritto un accordo per la fornitura dei missili terra aria Pantsir-S1, dei droni Orlan-10E e di radar. Il mantenimento delle relazioni “non significa assolutamente che approviamo gli eventi tragici registrati nel Paese”, ha dichiarato Dmitry Peskov, portavoce di Vladimir Putin. Ma nel puzzle birmano non vanno ascoltate tanto le parole, quanto guardati i movimenti dei diversi tasselli.
Sabato 27 marzo in Myanmar si è toccato il punto più tragico dall’inizio del golpe. L’esercito ha iniziato a prendere di mira anche le minoranze etniche
Una protesta contro il colpo di Stato militare a Yangon, Myanmar, 28 marzo 2021. REUTERS/Stringer
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