A Pechino Blinken ha incontrato prima Qin Gang, il ministro degli Esteri, poi Wang Yi, il capo della diplomazia del Partito, e infine, non scontato, Xi Jinping, che si è augurato che le relazioni sino-americane migliorino, siano sane e stabili, ispirate a pragmatismo e razionalità. Resta spinosa la questione Taiwan
Più i rapporti si fanno tesi e più il dialogo diventa importante. Stati Uniti e Cina hanno mostrato di saperlo, nell’importante visita di Antony Blinken a Pechino. Due giorni che non hanno prodotto accordi o intese particolari, non avrebbero potuto farlo e nessuna delle due parti se lo aspettava. L’obiettivo massimo era quello di rilanciare le comunicazioni bilaterali e provare a intensificare gli scambi per evitare che il confronto si trasformi in conflitto. Un obiettivo raggiunto, con alcune zone d’ombra. Non bisogna pensare che il viaggio del segretario di Stato americano possa produrre il “rapido disgelo” che aveva previsto Joe Biden a margine del G7 di Hiroshima lo scorso mese, ma neppure che la grande distanza che permane su diversi fronti sia stata acuita dalle posizioni contrapposte ed espresse in modo anche assertivo.
È utile seguire la cronologia di quanto avvenuto a Pechino. In molti hanno notato che per Blinken non è stato riservato nessun tappeto rosso e che in aeroporto non c’erano alti diplomatici ad accoglierlo. Si tratta in realtà di una dinamica in piena linea con le visite passate di pari grado. Il paragone con Emmanuel Macron ovviamente non regge, essendo quest’ultimo un capo di Stato a differenza di Blinken. Il primo a riceverlo è stato poi Qin Gang, il ministro degli Esteri e fresco ex ambasciatore cinese a Washington. Questo è stato il confronto più lungo e approfondito, visto che i due sono omologhi. Qin ha adottato una linea più rassicurante rispetto alle sue recenti uscite, tra le “due sessioni” dello scorso marzo e da ultimo la telefonata della scorsa settimana con lo stesso Blinken. Qin ha sottolineato che i rapporti bilaterali sono “al punto più basso di sempre”, ma ha anche garantito che la Cina vuole costruire relazioni “stabili, costruttive e prevedibili”. Nei rispettivi comunicati sui colloqui, durati 5 ore e mezza prima di una cena di lavoro di ulteriori 2 ore e mezza, viene ripetuta diverse volte la parola “cooperazione”.
Lunedì è toccato invece ai due incontri formalmente più rilevanti. Dapprima quello con Wang Yi, il capo della diplomazia del Partito comunista cinese. Nel sistema politico di Pechino, si tratta di una figura al di sopra del ministro degli Esteri perché incarna dall’interno la politica estera del Partito. Qui i toni si sono fatti più assertivi. Wang ha ribadito che su Taiwan, definito come il nodo più “rischioso” dei rapporti bilaterali, “non c’è alcun margine di compromesso o concessioni. Gli Stati Uniti devono aderire veramente al principio dell’Unica Cina confermato nei tre comunicati congiunti Usa-Cina, rispettare la sovranità e l’integrità territoriale della Cina e opporsi chiaramente all’indipendenza di Taiwan”.
Nella sua risposta in conferenza stampa, Blinken ha dato una garanzia: “Gli Stati Uniti ribadiscono di non sostenere l’indipendenza di Taiwan e di non volere una nuova Guerra Fredda con la Cina”. Una passaggio tradizionale, ma che era stato omesso di recente sia da Lloyd Austin allo Shangri-La Dialogue di Singapore, sia da Joe Biden al G7 di Hiroshima. Ma allo stesso tempo, Blinken ha citato le “azioni provocatorie” di Pechino sullo Stretto e ha rivendicato il diritto/dovere di “accertarsi che Taiwan sia in grado di difendersi”, in ottemperanza al Taiwan Relations Act e le Sei Assicurazioni di Ronald Reagan, che la Cina vede come atti unilaterali e in contrasto coi tre comunicati congiunti che avviarono le relazioni diplomatiche ufficiali tra i due paesi.
Le distanze su Taiwan restano dunque incolmabili, come prevedibile. Più convinta la rassicurazione sul fronte economico, con Blinken che ha assicurato che gli Stati Uniti non vogliono il decoupling, bensì il de-risking, riconoscendo anche la maternità della formula alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. “Un completo disaccoppiamento sarebbe un disastro”, ha detto Blinken, il quale ha sottolineato che l’ascesa economica cinese porta benefici anche agli Usa. Parole e prospettive che aprono alle imminenti visite in Cina di Janet Yellen e Gina Raimondo, a capo rispettivamente di Tesoro e Commercio.
Ma il momento clou della visita di Blinken è stato senz’altro l’incontro con Xi Jinping. Non era scontato che questo avvenisse, visto che nel 2018, durante l’ultimo viaggio di un segretario di stato americano in Cina, il leader cinese non aveva aperto le porte della Grande Sala del Popolo. A creare suspence è stato anche il mancato annuncio da parte di Pechino, che si è voluta cautelare dopo quanto accaduto lo scorso febbraio, quando la visita di Blinken fu cancellata all’ultimo momento dopo la vicenda del presunto pallone-spia. E soprattutto dopo che era stato già annunciato nei giorni precedenti l’incontro con Xi. Lo stesso ricevimento di Bill Gates aveva fatto temere che Xi potesse non incontrare Blinken, amplificando la prospettiva cinese secondo cui i rapporti tra “popoli” sono positivi e che i problemi vengono creati dalla postura “errata” della politica americana, intenta a “sopprimere” l’ascesa cinese. Nell’incontro con Blinken, Xi ha assunto una posizione centrale, con il segretario di Stato americano e Wang Yi seduti ai suoi lati. E ha ammonito gli Usa: “Nessuna delle due parti può modellare l’altra secondo i propri desideri, tanto meno privare l’altra del suo legittimo diritto allo sviluppo”. La Cina, ha aggiunto, “spera sempre che le relazioni Cina-Usa siano sane e stabili e che i due Paesi possano superare tutte le difficoltà e trovare il modo giusto per per andare d’accordo tra loro, caratterizzato da rispetto reciproco, coesistenza pacifica e cooperazione vantaggiosa per tutti. Si spera che gli Stati Uniti adottino un atteggiamento razionale e pragmatico”, ha concluso il presidente cinese, “vengano incontro alla Cina e mettano in atto azioni per stabilizzare le relazioni e migliorare la situazione dei rapporti sino-americani”.
Non è stato dichiarato ufficialmente, ma è certo che le due parti abbiano anche parlato del probabile bilaterale tra Xi e Biden a margine del summit Apec di San Francisco, il prossimo novembre. Visita e incontro avrebbero un significato molto rilevante, vista la presenza di una grande diaspora cinese nella città californiana. Prima di allora, Qin andrà a Washington per un altro incontro con Blinken e, a questo punto, con ogni probabilità anche Biden. Senza nuovi palloni o collisioni sfiorate, novembre potrebbe segnare uno snodo fondamentale per stabilizzare i rapporti. Che non significa andare d’accordo, o annullare una contesa che andrà avanti per lungo tempo.
È utile seguire la cronologia di quanto avvenuto a Pechino. In molti hanno notato che per Blinken non è stato riservato nessun tappeto rosso e che in aeroporto non c’erano alti diplomatici ad accoglierlo. Si tratta in realtà di una dinamica in piena linea con le visite passate di pari grado. Il paragone con Emmanuel Macron ovviamente non regge, essendo quest’ultimo un capo di Stato a differenza di Blinken. Il primo a riceverlo è stato poi Qin Gang, il ministro degli Esteri e fresco ex ambasciatore cinese a Washington. Questo è stato il confronto più lungo e approfondito, visto che i due sono omologhi. Qin ha adottato una linea più rassicurante rispetto alle sue recenti uscite, tra le “due sessioni” dello scorso marzo e da ultimo la telefonata della scorsa settimana con lo stesso Blinken. Qin ha sottolineato che i rapporti bilaterali sono “al punto più basso di sempre”, ma ha anche garantito che la Cina vuole costruire relazioni “stabili, costruttive e prevedibili”. Nei rispettivi comunicati sui colloqui, durati 5 ore e mezza prima di una cena di lavoro di ulteriori 2 ore e mezza, viene ripetuta diverse volte la parola “cooperazione”.