Da mesi in India si protesta contro la riforma agraria voluta dal Governo e il pugno duro di Modi rischia di creare problemi anche a livello internazionale
Non si può certo dire che l’India stia attraversando un momento tranquillo. E non solo per il crollo di un ghiacciaio dell’Himalaya che ha causato decine di morti e dispersi. Il Paese è infatti scosso dalle proteste di massa dei contadini che contestano la riforma agraria del Governo. Le manifestazioni vanno avanti da tempo, ma la loro vastità e intensità sono aumentate di recente, dopo che è fallito il tentativo di mediazione della Corte suprema. Narendra Modi continua a ripetere che l’India “è la madre della democrazia“, ma nello stesso tempo cerca di spegnere i riflettori internazionali che si stanno piano piano accendendo sulla vicenda, per esempio bloccando Internet. In realtà, il Primo Ministro porta avanti da tempo una politica nazionalista e autoritaria. Cosa che rischia di creare qualche frizione con Joe Biden, anche se gli Stati Uniti puntano forte sul ruolo di Nuova Delhi per contrastare l’ascesa della Cina, come conferma la strategia sull’Indo-Pacifico desecretata da Mike Pompeo prima di lasciare il suo posto e dalla telefonata tra il neo Presidente americano e il Primo Ministro indiano di lunedì 8 febbraio.
La riforma
Le proteste sono partite dalle tre regioni settentrionali, Punjab, Haryana e Uttar Pradesh, la cintura agricola del Paese. Nel mirino, tre leggi che regolano stoccaggio, commercializzazione e vendita dei prodotti agricoli. La prima riduce i poteri dei comitati statali, la seconda impone un quadro normativo più preciso e vincolante, la terza limita l’intervento centrale su offerta e individuazione di materie prime essenziali. Tutte insieme mirano a una modernizzazione dell’agricoltura indiana e a un aumento dei profitti.
Il Governo Modi ritiene che le misure daranno nuovo slancio al settore, ma i contadini sono convinti che la riforma preveda un’eccessiva liberalizzazione che favorirà i grandi conglomerati industriali a scapito dei piccoli e medi produttori. Criticata anche la modalità con cui si è arrivati alla riforma, col mancato coinvolgimento dei sindacati e scarsa una concertazione parlamentare. A questo si aggiunge una diminuzione delle risorse messe a disposizione dell’agricoltura, che scendono dal 5,1 al 4,3% del totale. Situazione cavalcata dal Congresso nazionale, principale forza di opposizione, che ha boicottato l’apertura dei lavori della sessione invernale del Parlamento indiano e critica in maniera aspra il bilancio previsto dalla maggioranza del Bharatiya Janata Party per il 2021-2022. Senza dimenticare il forte impatto sanitario ed economico della pandemia da coronavirus, visto che l’India è al secondo posto al mondo per numero di contagi dopo gli Stati Uniti.
Le proteste
Quando si parla di proteste, non ci si riferisce a manifestazioni sporadiche. Centinaia di migliaia di agricoltori sono accampati alle porte di Nuova Delhi dalla fine di novembre. Oltre due mesi di tensioni con le forze di polizia, spesso sfociati nel caos, dopo che i contadini si sono mossi, soprattutto da Punjab e Uttar Pradesh, verso la capitale. L’8 dicembre c’è stato uno sciopero generale, seguito da uno sciopero della fame che, secondo le ong locali, avrebbe causato circa 150 morti a causa del freddo.
I rappresentanti sindacali si sono incontrati con quelli governativi in diverse occasioni, ma non si è mai arrivati a un accordo. La sospensione delle nuove norme operata dalla Corte suprema, che ha istituito un comitato ad hoc per esaminare le leggi, non è bastata a calmare la situazione. Dopo l’ultimo tentativo di negoziato fallito, lo scorso 22 gennaio, la situazione è precipitata. La marcia dei trattori del 26 gennaio si è trasformata in un assalto al Forte Rosso, uno dei simboli della capitale indiana. In quell’occasione sono state arrestate 120 persone e un manifestante è morto, ufficialmente vittima di un incidente col suo trattore, ma secondo alcuni manifestanti per gli spari delle forze dell’ordine. La polizia sostiene che nell’occasione circa 400 agenti siano rimasti feriti. Violenze criticate anche dai leader della protesta.
Sabato 6 febbraio migliaia di trattori hanno operato blocchi stradali lungo le principali arterie del Paese, paralizzando per alcune ore il traffico autostradale. E intanto, si moltiplicano gli episodi di violenza, come a fine gennaio quando un folto gruppo di nazionalisti indù ha fatto irruzione in uno degli accampamenti di contadini lanciando pietre e intimandogli di andarsene. Ma gli agricoltori continuano a ribadire che la protesta andrà avanti fino a quando le tre leggi non verranno abrogate.
L’autoritarismo di Narendra Modi
Lunedì 8 febbraio Modi è intervenuto al Consiglio degli Stati, cercando di rassicurare i contadini. Ha difeso il contenuto della riforma, ma ha offerto dialogo e ha garantito che il prezzo minimo di vendita non sarà eliminato. Il Primo Ministro ha anche espresso parole di apprezzamento per i sikh, comunità maggioritaria nel Punjab e all’interno della quale ci sono da tempo spinte indipendentiste. Dopo aver definito l’India “la madre della democrazia” ha chiesto agli agricoltori di smettere di protestare e se l’è presa con “i parassiti e agitatori di professione”.
In realtà, con Modi l’India sembra essere protagonista di una svolta autoritaria. I principi di laicità e multiculturalità, pilastri della repubblica, vacillano a favore del nazionalismo indù. Basti pensare all’edificazione del “grande tempio di Ram” sulle rovine di una moschea demolita nel 1992 oppure all’improvvisa revoca dello statuto speciale allo stato del Jammu e Kashmir. Come la Cina opera da tempo una sinizzazione delle minoranze e dei suoi nodi interni più critici, così Modi sta portando avanti una indianizzazione, nella quale tra l’altro diversi attivisti e giornalisti sono finiti in carcere o peggio. Una promessa di preservazione della tradizione indiana e del suo rispetto sulla scena internazionale che potrebbe garantire solo il Bjp.
Nelle ultime settimane, intanto, è stato disposto il divieto di espatrio per una ventina di leader sindacali e Internet è stato a più riprese sospeso in diverse aree.
Le ripercussioni internazionali
La retorica del Governo è quella dell’attacco esterno alla stabilità indiana. Nel mirino sono finite le prese di posizione di celebrità internazionali come Greta Thunberg e la popstar Rihanna, che si sono schierate a favore dei contadini. Sostenitori del Fronte Unito Indù hanno bruciato delle foto delle due, mentre il Governo ha chiesto a Twitter di bloccare oltre un migliaio di account collegati all’hashtag #farmergenocide (genocidio dei contadini).
L’attenzione globale su quanto accade in India è in aumento. E c’è chi ritiene che possa sorgere qualche problema con l’amministrazione Biden, più attenta sui diritti umani rispetto a quella Trump. La scorsa settimana un portavoce del Dipartimento di Stato Usa ha definito le proteste pacifiche e l’accesso incondizionato al web come prerequisiti “fondamentali per la libertà di espressione e segno distintivo di ogni democrazia”. Il Governo di Nuova Delhi ha risposto paragonando l’assalto al Forte Rosso del 26 gennaio all’assedio di Capitol Hill. Non è un mistero, allo stesso tempo, che gli Stati Uniti puntino sull’India per contenere l’ascesa cinese nell’Indo-Pacifico. Linea adottata da Trump e Pompeo, ma ribadita anche da Biden. Il neo Presidente americano ha avuto un colloquio telefonico con Modi durante il quale si è parlato di rafforzare l’architettura regionale “attraverso il Quad“, la piattaforma di dialogo e cooperazione militare che coinvolge, oltre a Washington e Nuova Delhi, anche Giappone e Australia.
Da mesi in India si protesta contro la riforma agraria voluta dal Governo e il pugno duro di Modi rischia di creare problemi anche a livello internazionale