Il buon Governo di Widodo è stato premiato con la sua rielezione. Ora l’obiettivo per il Paese è diventare la quinta economia al mondo entro il 2045
Cinque anni fa era il volto nuovo della politica indonesiana, il primo Presidente venuto dal basso e non dall’élite o dalle forze armate. Oggi, dopo la solida vittoria alle elezioni dello scorso aprile, Joko “Jokowi” Widodo si avvia a lasciare un suo segno in quello che diventerà un intero decennio al Governo della quarta nazione più popolosa al mondo. Un Paese demograficamente giovane con un’economia dal grande potenziale di sviluppo. Ma anche, come hanno dimostrato le violenze all’annuncio della riconferma in carica del Presidente, una società in cui i conservatori islamici non riconoscono la legittimità del Presidente, con possibili conseguenze sul delicato mosaico di etnie e religioni nell’arcipelago di 17mila isole.
Widodo ha conquistato oltre il 55% dei voti nella sfida a due con Prabowo Subianto, da lui sconfitto con un margine minore già nel 2014. Le operazioni di voto in una gigantesca tornata elettorale che comprendeva anche elezioni locali − oltre 250mila candidati per 20mila seggi − si sono tenute senza incidenti di rilievo, il che già di per sé costituisce un successo in un Paese così esteso con soli ventuno anni di passato democratico. Ma nonostante tutti gli osservatori internazionali abbiano dichiarato il voto regolare, Subianto ha gridato da subito ai brogli. L’aveva fatto già cinque anni fa, convincendo i suoi sostenitori che le istituzioni fossero schierate con Widodo.
I frutti di tale retorica vittimista si sono visti il 22 maggio, poco dopo la pubblicazione dei risultati ufficiali del voto. Nonostante i 17 milioni di preferenze a separare i due sfidanti, i fan di Subianto sono scesi in piazza a Jakarta per protestare contro quella che a loro vedere era una vittoria rubata. Ne sono seguiti i due giorni con le più estese proteste di strada dai tempi del rovesciamento di Suharto nel 1998: nella capitale, gli scontri tra la polizia e una folla tutta maschile di sostenitori di Subianto hanno causato sette morti e oltre 700 feriti. La polizia ha arrestato oltre 250 persone, e per alcune ore le autorità hanno bloccato i social media a Jakarta per evitare la diffusione di foto e video che potessero scaldare ancora di più gli animi.
L’emergenza è presto rientrata, ma i semi di una futura instabilità rimangono. Subianto, un ex generale che si è macchiato di innumerevoli abusi dei diritti umani ed ex cognato del dittatore Suharto, si è proposto come una specie di Trump indonesiano con la sua strategia all’attacco sempre e comunque, anche adattandone la retorica con lo slogan “Make Indonesia Great Again”. Pur senza aver esibito prove di brogli, continua a ripetere il suo messaggio e ha deciso di portare la sua battaglia fino alla Corte costituzionale, che si crede respingerà il suo ricorso. Nonostante una madre cristiana, una vita da musulmano non praticante e una certa predilezione per il buon vino, è riuscito a riunire nazionalismo e conservatorismo religioso in un blocco con toni eversivi. A maggio, la polizia ha sventato un piano per assassinare quattro alti ufficiali delle forze di sicurezza.
Jokowi è stato preso ripetutamente di mira dalla propaganda di Subianto, spesso fatta di vere e proprie fake news e con toni che ricordano la campagna che i conservatori negli Usa avevano organizzato contro Barack Obama. Se contro l’allora Presidente statunitense si insinuava che non fosse nato negli Usa e che seguisse la fede musulmana, con Widodo le accuse sono state ribaltate: è cristiano e comunista, dicevano i complottisti pro-Subianto. Nel fiume di fango c’erano forti echi della campagna denigratoria contro Basuki Tjahaja Purnama, l’ex governatore (cristiano della minoranza cinese) di Jakarta finito in carcere per due anni per blasfemia dopo essere stato preso di mira nel 2016 dai conservatori musulmani. I gruppi organizzatori di quella mobilitazione, che portò centinaia di migliaia di persone in piazza nella capitale, sono confluiti nel campo di Subianto, con le stesse tattiche da troll sui social media e paranoie di complotto contro l’Islam.
Tali attacchi hanno compattato i sostenitori di Subianto, ma non sembrano essere costati voti a Jokowi. Il Presidente ha governato per cinque anni con la fama di pragmatico che si era costruito negli anni da sindaco di Surakarta e poi da governatore di Jakarta. È noto per visitare luoghi pubblici, parlare con la gente e poi prendere misure per risolvere i problemi. Nel suo primo mandato ha investito 340 miliardi di dollari in un grande programma di infrastrutture, in particolare per i trasporti. Ha inoltre destinato fondi allo sviluppo delle comunità locali, espandendo il sistema di welfare e la pubblica istruzione.
Il secondo mandato di Widodo, che sarà inaugurato ufficialmente in ottobre, sarà l’ultimo per il Presidente perché la Costituzione ne impedisce un terzo. Libero da preoccupazioni per una futura rielezione, lui ha già detto di voler governare ancora di più per il bene del Paese a lungo termine. Sono già stati annunciati altri 400 miliardi di dollari per grandi opere come aeroporti e centrali elettriche, ed è sull’agenda politica anche lo spostamento della capitale da Jakarta a una nuova sede da definire, probabilmente sull’isola del Borneo: un vecchio progetto che Widodo ha rilanciato, date le preoccupazioni per il sovrappopolamento della capitale e il rischio che finisca sott’acqua entro pochi decenni per la combinazione di graduale sprofondamento e innalzamento del livello del mare.
Il piano di Widodo comprende anche lo snellimento delle procedure della pubblica amministrazione specie per i permessi alle aziende, allo scopo di attirare investimenti stranieri. L’obiettivo è di diventare la quinta economia al mondo entro il 2045, il centesimo anniversario dell’indipendenza. Un piano ambizioso, ma sotto Widodo il Pil è cresciuto del 5% l’anno, i conti pubblici sono a posto e il Paese rimarrà per decenni uno dei principali esportatori di materie prime posizionato strategicamente in una Asia che ha ancora ampi margini di crescita. Un rallentamento cinese a breve termine potrebbe intaccare i piani di Widodo, ma sul lungo periodo il potenziale rimane intatto.
È da vedere come evolverà il fronte interno. Nel suo primo mandato, Widodo ha scontentato i suoi sostenitori più progressisti, che lo vedevano come un Obama indonesiano, sacrificando alla ragion di stato battaglie di giustizia sociale e di rispetto dei diritti umani. Widodo è molto attento a non scoprire le sue carte e in pochi conoscono le sue vere convinzioni: forse la sua progressiva deriva conservatrice è una scelta pragmatica per non offrire il fianco agli attacchi dei veri conservatori, come lo è stata la scelta di portare alla vicepresidenza Ma’ruf Amin, un ulema di 75 anni con un passato di posizioni ostili alla comunità Lgbt e alle minoranze.
Il problema è che, per placare i musulmani più conservatori, Widodo dovrà probabilmente cedere ulteriormente ad alcune delle loro richieste. Gli analisti si attendono un’ulteriore diffusione dei principi islamici nella società, dalla finanza islamica alle restrizioni alla vendita di alcolici. E in un Paese pluralista con un mosaico etnico, dove il 14% degli abitanti appartengono ad altre minoranze religiose, ciò rischia di alimentare nuove tensioni.
@aleursic
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Il buon Governo di Widodo è stato premiato con la sua rielezione. Ora l’obiettivo per il Paese è diventare la quinta economia al mondo entro il 2045
Cinque anni fa era il volto nuovo della politica indonesiana, il primo Presidente venuto dal basso e non dall’élite o dalle forze armate. Oggi, dopo la solida vittoria alle elezioni dello scorso aprile, Joko “Jokowi” Widodo si avvia a lasciare un suo segno in quello che diventerà un intero decennio al Governo della quarta nazione più popolosa al mondo. Un Paese demograficamente giovane con un’economia dal grande potenziale di sviluppo. Ma anche, come hanno dimostrato le violenze all’annuncio della riconferma in carica del Presidente, una società in cui i conservatori islamici non riconoscono la legittimità del Presidente, con possibili conseguenze sul delicato mosaico di etnie e religioni nell’arcipelago di 17mila isole.