In un Paese dove non si producono più leader all’altezza delle sfide, il Presidente di Confindustria sembra avere - caso unico in Italia - una visione di lungo periodo per un’Italia moderna e competitiva. Ma anche qualche idea per la prossima finanziaria...
In un Paese dove non si producono più leader all’altezza delle sfide, il Presidente di Confindustria sembra avere – caso unico in Italia – una visione di lungo periodo per un’Italia moderna e competitiva. Ma anche qualche idea per la prossima finanziaria…
Quando un Presidente di Confindustria parla di “progetto Paese”, mezza Italia storce il naso, ossessionati come siamo dal timore dei poteri forti e da un residuo di classismo (di destra e di sinistra) che ancora pervade la società italiana. Con questa intervista esclusiva, noi puntiamo a trasmettere la conoscenza di un personaggio che non può essere etichettato sbrigativamente come rappresentante dei poteri forti, nè per storia familiare e personale, nè per retorica e per l’interpretazione del ruolo che ha dato fin dal primo giorno del suo quadriennio. Cioè di interlocutore politico del Governo, che sente sulle sue spalle tutta la responsabilità di essere classe dirigente del suo paese.
Partiamo dall’Europa, dopo le elezioni: abbiamo una maggioranza europeista, ma non possiamo certo vivacchiare altri cinque anni. Quali sono le direttrici per una spinta decisiva del processo di integrazione, che influisca in modo determinante e positivo nella vita di tutti noi?
Intanto, abbiamo capito esattamente qual è la sfida che abbiamo di fronte? Pensiamo ai prossimi 30 anni: i dati previsionali ci dicono che tra il 2035 e il 2050 nessun Paese dell’Europa, Germania compresa, farà parte del G7. Saranno i Paesi economicamente forti a scrivere le regole: come Europa saremmo tra i primi, come Paesi d’Europa non saremo più nel G7. Se affrontiamo le sfide del futuro con grandi player come Cina e Usa come singoli Paesi, sono già perse. Dunque, cosa occorre fare? Primo, una stagione riformista in Europa. Uscire dall’Europa delle tattiche, è il messaggio che abbiamo rivolto a febbraio 2018 ai partiti italiani che si candidavano a governare il paese, tornare alle mission, cioè ai fondamentali d’Europa, che sono pace, protezione, prosperità, grandi obiettivi. E’ possibile un’Europa luogo ideale per i giovani, l’occupazione, le imprese, le infrastrutture? Una grande dotazione infrastrutturale transnazionale europea che generi cantieri, occupazione, sviluppo e connessione tra i paesi d’Europa? L’Europa è primo esportatore e primo importatore del mondo, terza popolazione più ricca e mercato più ricco del mondo. Abbiamo questa consapevolezza noi europei? Le rotte della Seta arrivano in Europa e dovrebbero essere usate con logica bidirezionale… Ma riuscire a farlo, dipende dagli europei, in particolare dalla Germania e dall’Italia, la prima e la seconda manifattura d’Europa. Quindi, partire dalle mission e parlare alle opinioni pubbliche con grandi obiettivi: costruire un nuovo sogno d’Europa. Mi ha colpito molto una frase del Presidente Mattarella nel discorso di fine anno: “Termini come sogno e speranza non devono essere confinati alle stagioni dell’infanzia”. L’Europa ha bisogno di una nuova primavera, di un nuovo sogno, non più quello di garantire la pace, come nel Dopoguerra. Richiamando la Costituzione italiana, potremmo sognare un’Europa fondata sul lavoro, sull’occupazione dei giovani, ma per questo è essenziale capire che la sfida non è tra paesi d’Europa ma tra l’Europa e il mondo esterno. E dovrebbe cambiare il paradigma di pensiero: trasformare il patto di stabilità e crescita in patto di crescita e stabilità. Non possiamo più fare politiche di saldi di bilancio che prescindano dagli effetti sull’economia reale. Questo significa individuare strumenti, proponimenti e risorse una volta definiti i fini comuni d’Europa, non l’inverso. E parlare alla gente. Se parliamo di governance europea prescindendo dai fini, le persone non capiscono. Il nuovo racconto − che stiamo cercando di realizzare con tutte le Confindustrie europee − aiuterebbe i singoli Paesi a non usare l’Europa come alibi. Una delle abitudini di mezza Europa è che, con l’alibi della questione europea, non vengono affrontati i problemi nazionali. Così l’Europa ha tutte le colpe del mondo. La verità è invece che nell’Europa si trova la soluzione, pur in una logica riformista.
A proposito di soluzioni nazionali: un paese come il nostro, che fa leggi finanziarie da 12, 15, 18 miliardi, come può pensare davvero di incidere significativamente sulla vita dei cittadini, senza il supporto di politiche europee?
In un confronto tra noi e Confindustria francese qualche settimana fa, è emersa l’importanza di un’alleanza franco-italiano-tedesca. Venendo meno l’Inghilterra, l’Italia può giocare un ruolo da protagonista insieme a questi due Paesi. Ma non deve isolarsi né essere isolata. Ricordiamo che abbiamo Draghi alla BCE per un accordo franco-italiano; adesso Draghi scade e sarebbe opportuno che i governi si parlassero per arrivare a scelte utili sui futuri Commissari europei. Bisogna distinguere le piattaforme di partito dai ruoli di governo e della diplomazia economica: è interesse italiano avere un dialogo forte con la Francia, che è il secondo Paese del mondo in cui esportiamo, il primo è la Germania, il terzo gli Usa: su 550 miliardi di export complessivo italiano, il 12% lo quotiamo in Germania, il 10% in Francia e il 9% negli Usa. Se parliamo di concorrenza europea, il Commissario deve difendere la concorrenza tra Stati o contribuire a costruire giganti europei per rendere l’Europa competitiva con Cina e Usa? Occorre una revisione della legge sulla concorrenza, finalizzata a costruire giganti europei, evoluzione delle tre grandi manifatture d’Europa: Italia, Germania, Francia, e poi Polonia e Spagna. L’Italia può giocare un grande ruolo. L’abbiamo visto all’interno delle nostre associazioni: l’Italia, appoggiando Francia o Germania, determina quale dei due paesi ha una primazia nella politica e un equilibrio nella Governance europea: quando l’Italia appoggia la Francia, prevale l’accordo franco-italiano, quindi Draghi alla BCE, così come potrebbe prevalere un francese nella prossima BCE, senza per questo isolare la Germania. Nella filiera dell’Automotive, l’industria italiana è molto legata alla Germania: quando l’industria dell’Automotive tedesca rallenta, l’industria italiana rallenta. In un’automobile tedesca, c’è fino al 70% di Italia, e quando il Presidente Trump dice che vorrebbe vedere meno auto tedesche negli Usa, protegge la propria industria non solo contro l’industria tedesca ma contro tutta la filiera europea. Quando invece si parla di lusso, moda e agro-alimentare entrano in gioco Italia e Francia. L’Italia ha una posizione centrale nella dimensione industriale oltre che in quella politica e geografica. Deve prendere consapevolezza di questo: come abbiamo detto nel commento al DEF, anche con il Commissario francese, è arrivato il momento per l’Europa di non essere solo un gigante economico ma anche politico. Il mondo dell’economia e dell’industria d’Europa chiede ai governi di raccogliere questa sfida. La politica senza visione, senza sogno, è senza speranza. L’Europa siamo noi. Siamo noi quelli che cambieranno l’Europa in meglio, con le scelte di oggi. E l’Italia ha necessità di essere in Europa anche perché, di quei 550 miliardi che esportiamo, 250 sono indirizzati al mercato domestico europeo.
Spostiamo l’attenzione sul pianeta Cina. Xi Jin Ping è stato in Italia e si sta sviluppando un dibattito attorno a una possibile alleanza con la Cina sul grande progetto di sviluppo “Via della Seta”. Il Presidente americano, dal canto suo, sta sviluppando una infuocata competizione commerciale con la Cina, senza esclusione di colpi, e sembra chiedere all’Europa di scegliere: o con la Cina o con gli Usa. Siamo davvero costretti a scegliere? A me sembrano due piani diversi, sui quali possiamo giocare ruoli diversi…
La scelta è tra vivere e morire. In un mondo multilaterale, non possiamo permetterci il lusso di scegliere, soprattutto se le motivazioni sono squisitamente politiche. Jean Monnet diceva: “I miei obiettivi sono politici, le mie ragioni sono economiche”. Certamente, sarebbe stato meglio che la partecipazione al progetto Silk Road fosse avvenuto in chiave europea, per gestire meglio aspettative ed equilibri. Ad esempio, il memorandum Italia/Cina apre interessantissimi orizzonti, ma non interviene su assi strategici quali infrastrutture e tecnologie, che vanno comunque tutelati, mantenendoli tra gli asset patrimoniali del Paese. D’altra parte, è evidente che dobbiamo essere aperti al mondo, i cinesi crescono e ricercano mercati di nicchia, dove l’Italia può giocare una partita. Il passaggio da economia a politica è breve: noi abbiamo una naturale vocazione multilaterale, così come è innegabile che siamo una grande democrazia ed abbiamo rapporti storici con gli Usa, senza per questo essere esclusivi. Noi di Confindustria siamo stati critici sugli investimenti cinesi nei porti italiani, ma non perché siamo contro la Cina, bensì perché riteniamo che il rapporto vada gestito con l’attivazione di rotte bidirezionali. Siamo però d’accordo sulla linea, che è anche quella del tuo giornale, di una visione aperta, verso un Paese e un’industria talmente potente che ha bisogno del mondo. E comunque non possiamo certo avallare le politiche dei dazi…
Una domanda di politica economica sull’Italia: come abbiamo detto, le nostre finanziarie hanno risorse limitate, si ha la sensazione che possano incidere ben poco. Se tu dovessi scegliere tre priorità di politica economica, quali centreresti?
Infrastrutture, credito e crescita. Per le infrastrutture, ci sono risorse già stanziate che non fanno ricorso a deficit, non incrementano il debito pubblico e, se le usassimo aprendo immediatamente i cantieri, si tradurrebbero in occupazione, comunicando anche l’idea di una società inclusiva, perché queste opere collegherebbero territori e centro. Il credito: pagamenti della pubblica amministrazione, flussi dei titoli, non solo quelli quotati ma (con collaterali di garanzia immobiliare) anche per Pmi; incrementare la dote del fondo di garanzia. Si tratta di misure, alcune a costo zero e altre a risorse non rilevanti, che hanno un impatto sull’economia reale. Terzo, un’attenzione alla crescita e agli investimenti, a partire dall’uso dei fondi di coesione strutturale per il Mezzogiorno. Tale focus rappresenta anche la logica premiante dell’industria 4.0, una parte della quale è stata salvaguardata da questo Governo ma che potrebbe essere accelerata. Mi spiego: prevedere iper-ammortamenti e super-ammortamenti significa ridurre l’imponibile per chi investe nel Paese. Aggiungo: bisogna ridurre il divario digitale delle imprese italiane, perché l’uso del digitale è una finestra sul mondo dell’industria italiana piccola, media e grande. Sono cose che non impattano in maniera rilevante sul deficit ma sono rilevanti per l’economia reale. Se dovessimo immaginare una politica economica, la faremmo su questi tre assi.
Ilrapporto con la Francia. Abbiamo vissuto una profonda crisi, che anche Confindustria ha contribuito a superare: è solo stata una crisi politico-diplomatica, superabile con la mediazione e il buon senso, oppure c’è una strutturale competizione di due grandi industrie manifatturiere, che fanno fatica a dialogare e a trovare elementi di complementarietà?
Ci sono tanti punti di convergenza, anche potenziale. È evidente che in alcuni segmenti e settori siamo concorrenti e ognuno gioca la sua partita. La visita del Ministro Di Maio ai gilet gialli ha inasprito la tensione tra i due paesi, ora superata. In occasione del nostro meeting bilaterale, il Ministro Tria è venuto in Francia e, prima di andare a Parigi, ho avuto modo di parlare con Di Maio, che mi ha autorizzato a passare un messaggio ai nostri colleghi francesi: normalizziamo i rapporti. Prima il Presidente Mattarella, poi anche noi, abbiamo contribuito a normalizzare i rapporti tra i due paesi. Nell’interesse dell’Italia e della Francia. Quali politiche hanno Italia e Francia su industria e agricoltura? E quali saranno le partite per la prossima presenza nella BCE o per i Commissari chiave? Sono cose che prescindono da piattaforme di partito e obbligano a responsabilità. Su alcune cose siamo certamente concorrenti ma su altre siamo di filiera: è vero che i francesi hanno comprato molte aziende italiane ma è anche vero che quelle filiere sono rimaste.
Un ultimo punto: Friday for future, che ha visto una generazione giovanissima scendere in piazza in modo globale nel mondo occidentale. Come qualcuno ha sottolineato, è la prima volta, dopo il ’68, che un movimento giovanile ha raccolto così tante adesioni, oltre le barriere ideologiche, ponendo un tema, quello dei cambiamenti climatici, che è un tipico tema globale, impossibile da affrontare a livello nazionale. Confindustria e gli industriali italiani, che dialogano con le Confindustrie di tutto il mondo, si sentono protagonisti di questa sfida? La raccolgono, la rilanciano?
Intanto, grande rispetto per questi giovani. La risposta è sì. Chi è più avanti culturalmente è già molto avanti sulla sostenibilità. Questi giovani chiedono rispetto del futuro e, essendo i consumatori del futuro, obbligheranno le imprese ad adeguarsi in condizioni di mercato, perché sono consumatori attenti ai prodotti e alla loro sostenibilità. Quindi avremo due strade: una è quella culturale, per imboccare la quale, le associazioni industriali avranno una grande responsabilità per costruire una dimensione pedagogica formativa e informativa del nuovo mondo. Una grande attenzione al contesto, alla società. Dietro il pensiero economico di Confindustria c’è un’idea di società del futuro, sia in termini di disagi, di equilibri, di sviluppo, sia di centralità della persona, di rispetto e di sostenibilità economica dell’ambiente. Chi poi non ci arrivasse per cultura, dovrà per mercato: questi giovani sono i clienti, i consumatori del futuro, hanno un’attenzione primaria all’ambiente e danno un messaggio forte di rispetto della sostenibilità. Noi aggiungiamo che la sostenibilità è anche economica: fare spesa allegra per aumentare il debito pubblico è sostenibilità o è un danno alle generazioni future? E’ evidente che l’industria europea e italiana devono giocare questa sfida, molte imprese sono già dentro questo sistema, sono eccellenze in ogni senso, altre si stanno orientando e altre, più lente, saranno costrette dal mercato.
Confindustria si ritaglia dunque un ruolo da analista di scenari, provando a dettare l’agenda dei prossimi venti anni. Il superamento delle ideologie consente un’interlocuzione forse più serena della politica con le istanze produttive, alla ricerca dei drive decisivi di crescita, sviluppo e occupazione. Passando per innovazione, acceleratori di mobilità e incentivi alla solidarietà, innestando un processo che è innanzitutto culturale, e passa dunque attraverso riforme profonde che rinnovino le nostre Accademie e la formazione dei nostri giovani.
Grazie Presidente Boccia, di questa che consideriamo la sua eredità politica, a meno di un anno dalla fine del suo mandato.
Quando un Presidente di Confindustria parla di “progetto Paese”, mezza Italia storce il naso, ossessionati come siamo dal timore dei poteri forti e da un residuo di classismo (di destra e di sinistra) che ancora pervade la società italiana. Con questa intervista esclusiva, noi puntiamo a trasmettere la conoscenza di un personaggio che non può essere etichettato sbrigativamente come rappresentante dei poteri forti, nè per storia familiare e personale, nè per retorica e per l’interpretazione del ruolo che ha dato fin dal primo giorno del suo quadriennio. Cioè di interlocutore politico del Governo, che sente sulle sue spalle tutta la responsabilità di essere classe dirigente del suo paese.
Partiamo dall’Europa, dopo le elezioni: abbiamo una maggioranza europeista, ma non possiamo certo vivacchiare altri cinque anni. Quali sono le direttrici per una spinta decisiva del processo di integrazione, che influisca in modo determinante e positivo nella vita di tutti noi?
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