Brexit, ultimo atto
Disfare legami di decenni preannuncia costi enormi. Il Regno Unito si avvia verso una dimensione di Stato vassallo di un’Unione rafforzata
Disfare legami di decenni preannuncia costi enormi. Il Regno Unito si avvia verso una dimensione di Stato vassallo di un’Unione rafforzata
A quasi tre anni dal referendum del 2016 sulla Brexit Londra è ancora parte dell’Ue, e non si sa come ne uscirà, mentre il Paese è sempre più diviso e confuso. Il calvario britannico ha già avuto importanti effetti sui Paesi europei, che aumenteranno a seconda delle prossime scelte di Londra.
La saga della Brexit ha mostrato agli altri Stati membri che uscire dall’Ue è un’impresa dannatamente complicata e costosa. Se un grande Paese con solide istituzioni come il Regno Unito non è riuscito, in quasi tre anni, a decidere come uscire, è perché l’uscita di per sé crea una massa di problemi, danni e costi molto difficili da affrontare. La politica britannica è stata assorbita completamente dal tema, e nel frattempo la sterlina si è svalutata, l’economia ha rallentato, miliardi di sterline sono stati bruciati per prepararsi all’eventualità di un’uscita senza accordo – lo scenario del no deal – e, soprattutto, migliaia di imprese, banche e operatori economici hanno iniziato a lasciare la Gran Bretagna per uno Stato che rimanga nel più grande mercato unico Ue.
La vicenda Brexit ha anche cambiato i rapporti di forza tra Gran Bretagna e Ue a favore di quest’ultima. Nel 2016 Londra puntava a chiudere subito i conti pendenti con l’Ue a proprio favore, negoziare rapidamente un vantaggioso accordo di libero scambio, e rilanciare le proprie aspirazioni nazionali su scala globale. Ci si aspettava che i Paesi Ue si dividessero alla ricerca di un accomodamento bilaterale con la Gran Bretagna, e che scavalcassero la Commissione Europea nei negoziati. Nulla di tutto ciò è avvenuto. I 27 Paesi Ue sono rimasti compatti, la Commissione ha mantenuto la leadership nelle trattative e Bruxelles ha imposto tabella di marcia, modalità e contenuti dei negoziati. Mentre i rapporti futuri sono ancora tutti da definire, l’accordo del 2017 sui termini dell’uscita è sicuramente favorevole all’Ue, e ciò ha dimostrato agli Stati membri che uniti nel quadro europeo possono ottenere più che da soli.
Allo stesso tempo, il Regno Unito è uscito a pezzi dai 30 mesi post referendum. In Irlanda del Nord nel 2019 è scoppiata la prima autobomba da quando gli accordi di pace del 1998 ponevano fine a decenni di guerra civile a bassa intensità. Autobomba legata alle tensioni sul ritorno di un confine tra il pezzo di Irlanda parte del Regno Unito e il resto dell’isola, inevitabile nello scenario del no deal, motivo per cui da due anni non si riesce a formare il Governo regionale a Belfast. Nel frattempo, il Parlamento scozzese ha diffidato quello di Westminster dal decidere sulla Brexit senza il proprio consenso. L’esecutivo di Theresa May, già governo di minoranza dopo il calo dei conservatori alle elezioni del 2017, non ha più una maggioranza in Parlamento da quando lo scorso 15 gennaio Westminster ha bocciato con 230 voti di scarto l’accordo sull’uscita dell’Ue faticosamente negoziato dalla Premier. Un esempio lampante di débacle politico-istituzionale che dovrebbe far riflettere anche chi in Europa considera l’ipotesi di uscire dall’Unione senza mettere in conto il vaso di Pandora che si aprirebbe in termini di coesione nazionale e sociale, dalla Catalogna al Trentino Alto Adige, dalla fuga dei cervelli a quella dei capitali.
Il calvario della Brexit ha inoltre cambiato i rapporti di forza all’interno dell’Unione. Venuta infatti meno la potenza britannica, atlantista e contraria ad un’integrazione politica dell’Ue, di fronte a un’Italia maggiormente euro-scettica, si è ulteriormente rafforzato l’asse franco-tedesco, motore centrale dell’integrazione europea. Paesi atlantisti come l’Olanda, privati della sponda britannica, si sono avvicinati alle posizioni franco-tedesche. È quindi probabile che Berlino, Parigi e i Paesi nordici loro alleati siano maggiormente rappresentati nei prossimi vertici Ue.
Gli effetti del percorso verso la Brexit verrebbero moltiplicati dal suo esito, in misura diversa a seconda dello scenario cui si approderà il 29 marzo, data di scadenza dei negoziati. Nell’ipotesi no deal, la Gran Bretagna vivrà un vero e proprio shock socio-economico, dovuto all’improvviso ritorno dei controlli doganali per le merci in entrata e in uscita che, rallentando i flussi, porterà verosimilmente a scarsità di beni di consumo per i cittadini. Un parlamentare pro-Brexit, nel minimizzare questo scenario, ha affermato che «certo mancheranno alcuni generi alimentari come i pomodori, ma non è che non potremo preparare il pranzo», mentre il Ministero della Difesa ha messo in stand-by 3.500 unità in caso serva distribuire nel Paese beni di prima necessità. Che la popolazione di una nazione occidentale ricca e industrializzata, nel 2019, debba preoccuparsi di fare scorta di cibo e medicinali a causa della Brexit è un esempio plastico che dovrebbe far riflettere anche le forze più euro-scettiche. Al contempo il ritorno del confine tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda porterebbe verosimilmente a manifestazioni, anche violente, e possibili atti di terrorismo, contro i quali il Ministero degli Interni sta già procedendo all’addestramento specifico di ulteriori 1.000 poliziotti inglesi da inviare in loco. Si aprirebbe uno scontro istituzionale con la Scozia e una crisi politica a Londra, entrambi con esiti imprevedibili, che facilmente contribuirebbero ad una caduta sia della Borsa che della sterlina. Tutti sviluppi che dimostrerebbero con forza i costi e i problemi di una drastica uscita dall’Ue, rafforzando al contempo sia l’immagine dell’Unione sia il motore franco-tedesco al suo interno.
Nel secondo scenario, Londra chiederebbe a Bruxelles una proroga dei negoziati e quindi il rinvio della scadenza del 29 marzo, verosimilmente al 2020. In questo caso lo shock sarebbe solo rinviato, e in Gran Bretagna infurierebbe dibattito sul che fare: sfiduciare il Governo May e tenere nuove elezioni? Indire un secondo referendum, e su quali alternative? Nel frattempo, gli effetti sui Paesi Ue continuerebbero a farsi sentire, seppure in maniera meno evidente che nello scenario del no deal. Infatti, che la Gran Bretagna dopo oltre tre anni dal referendum non sia riuscita a trovare la via di uscita dall’Ue di per sé è un esempio significativo contro tale scelta, mentre l’Unione continuando a funzionare più o meno come prima, si dimostrerebbe più forte della exit di un suo grande Stato membro.
Nel terzo scenario, di fronte all’avvicinarsi dello shock del no deal, l’accordo raggiunto lo scorso novembre verrebbe approvato obtorto collo dal Parlamento britannico. In questo caso, sebbene con misure d’emergenza e all’ultimo minuto, sarebbe garantito fino al 2020 un periodo di transizione nel quale tutto il quadro normativo Ue resterà in vigore in Gran Bretagna, inclusa la libera circolazione delle merci, in attesa della stipula di un accordo sui rapporti futuri, comprendente anche un trattato di libero scambio. Il raggiungimento di quest’ultimo impiegherà anni se non decenni, durante i quali la Gran Bretagna rimarrà di fatto in un’unione doganale con l’Ue, applicandone le regole ma senza più un posto al tavolo decisionale che le stabilisce. Una soluzione da “stato vassallo”, come dichiarato dall’esponente conservatore Boris Johnson, che salverebbe l’economia e la società britannica dallo shock di un’uscita netta dall’Ue, al prezzo però di privarsi ancora di più della sovranità nazionale su una serie di politiche tra cui quella commerciale. Un esito paradossale per un referendum vinto promettendo di riprendersi la sovranità in precedenza condivisa a livello Ue, che dovrebbe anch’esso far riflettere in Europa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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