Luminosi grattacieli affollati di impiegati bellissimi, interni familiari depressi e violenti dopo il lavoro, oppure l’insolito pensionamento di un custode e di una cameriera messicani. Il cinema racconta il mondo del lavoro e i suoi protagonisti, dentro e fuori lo schermo.
Il cinema può offrire un divertimento per distrarci dalla quotidianità (soprattutto se si tratta di film commerciali come Transformers o la serie dei Pirati dei Caraibi) oppure può dipingere una realtà sublimata in una perfezione da sogno, quella delle tante commedie dove negli uffici gli impiegati sono tutti belli e il problema principale è chiarire gli equivoci e le incomprensioni che ostacolano l’inevitabile lieto fine.
C’è poi la serie dei drammi sociali di taglio documentaristico, che osano guardare il mondo dritto negli occhi. Gli esempi più famosi sono i film di Ken Loach (Sweet Sixteen) in Gran Bretagna e quelli dei fratelli Dardenne (Il ragazzo con la bicicletta) in Belgio. L’aspetto interessante delle opere di questi registi è che non gli preme descrivere la dura esistenza dei lavoratori delle classi più disagiate bensì mettere a fuoco, più in generale, le difficoltà che s’incontrano vivendo in città post-industriali, dove trovare lavoro è un’impresa ardua e palazzi fatiscenti si ergono a testimoniare le glorie passate e gli sforzi delle generazioni precedenti.
Nei paesi ancora in attesa di uno sviluppo post-industriale – e che potrebbero non arrivare mai a vederlo – i film che raccontano storie di lavoratori sono molto diversi. Un esempio evidente e degno di nota, a cominciare dal titolo, è il messicano Workers, il primo lungometraggio del regista salvadoregno-messicano José Luis Valle Gonzalez, presentato questo an no al Festival di Berlino e al locale Festival di Guadalajara, dove è stato candidato come Miglior film messicano.
Workers (è significativo che il titolo sia in inglese e non ne sia prevista una versione in spagnolo) narra le storie parallele di due impiegati, un tempo sposati e ora divorziati. Hanno entrambi svolto il proprio lavoro con la massima dedizione per anni e ormai sono vicini alla pensione.
Valle Gonzalez sceglie di mostrarci non uno, ma due lavoratori che hanno sgobbato tutta la vita, l’uomo come custode in una fabbrica di lampadine, la donna come domestica di una ricca e anziana signora la cui unica gioia è viziare il suo cagnetto. Ci dice così, chiaramente, che non abbiamo di fronte la storia personale di uno specifico individuo. Il contrasto e soprattutto le somiglianze tra le due situazioni sono sottolineate mediante un continuo montaggio incrociato, volto a evidenziare gli elementi comuni che riguardano entrambi i protagonisti e, per estensione, innumerevoli altri membri della classe lavoratrice.
Il custode, immigrato da El Salvador, si sente dire che non può andare in pensione perché non ha i documenti a posto, cosa che non ha mai costituito un problema nei tanti anni in cui ha faticato come uno schiavo per una paga ridotta all’osso. La sua ex moglie, la domestica, che si è sempre occupata dell’animaletto della padrona, rimane sconvolta quando scopre che, malgrado il lungo, silenzioso e scrupoloso servizio, che l’ha impegnata giorno e notte, alla fine l’anziana signora ha lasciato tutta l’eredità al cane.
Quando scoprono quanto poco li hanno apprezzati coloro per i quali hanno tanto faticato, in entrambi i protagonisti scatta qualcosa e, anche se è improbabile che il seguito della vicenda possa aver luogo nella vita reale, il regista lo mette in scena dandogli un tocco macabro e surreale che rende palese quanto siano state surreali le vite dei due.
I due divorziati sono persone serie e lavoratrici che non si sono mai lamentate, neppure per una volta, in tutta la loro vita. Tuttavia, quando finalmente si rendono conto che la disparità tra chi dà lavoro e chi lavora (o, più in generale, tra ricchi e poveri) non si potrà mai sanare, fanno una cosa molto semplice ma molto radicale: si vendicano.
In altri film messicani di recente produzione la classe lavoratrice non appare in condizioni migliori anche se, forse, non giunge agli estremi dei protagonisti di Workers. Per esempio, in Death Strokes, (Levanta Muertos) del regista Miguel Nunez, Ivan, il protagonista, in pratica ricompone cadaveri. Lavora per un’agenzia di pompe funebri e il suo compito è quello di recuperare i corpi dei defunti, anche quando sono vittime di incidenti e omicidi.
È un lavoro sporco e orribile ma Ivan è deciso a migliorare a ogni costo la sua situazione sociale. Purtroppo, il tanfo di morte che lo circonda e il continuo rapporto con le persone più disperate, o con quel che lasciano dietro di sé, rendono l’impresa davvero difficile.
Naturalmente il film di Nunez vuole essere un’allegoria della lotta quotidiana dell’onesto lavoratore che spesso cade preda della corruzione perché non gli è possibile isolarsi da chi è ancora più in basso di lui nella scala sociale, cosa che solo i ricchi si possono permettere di fare.
Allo stesso modo, il giovane protagonista del film di Carlos Cuaron Sugar Kisses, (Besos de Azúcar), s’innamora di una ragazza la cui madre malavitosa gestisce il mercato dove suo padre ha un banco, ma è intrappolato nella sua condizione sociale e gli si fa costantemente notare che non dovrebbe mai tentare di cambiarla.
I conflitti che ciascuno di questi personaggi si trova ad affrontare non hanno una struttura orizzontale (come nei film di Ken Loach o dei fratelli Dardenne, i cui protagonisti aspirano solo a trovare lavoro e tenersi fuori dai guai) ma verticale: questi sono individui che lavorano, che hanno un’occupazione, ma non abbastanza redditizia da permettergli di vivere bene. Per poter sopravvivere e conquistare una vita dignitosa dovranno salire più in alto nella scala sociale.
Luminosi grattacieli affollati di impiegati bellissimi, interni familiari depressi e violenti dopo il lavoro, oppure l’insolito pensionamento di un custode e di una cameriera messicani. Il cinema racconta il mondo del lavoro e i suoi protagonisti, dentro e fuori lo schermo.