Nelle ultime settimane l’entità degli scontri in Kashmir si è notevolmente ridimensionata per via di diversi motivi.
L’attentato terroristico alla base militare indiana di Uri – Matteo Miavaldi ne ha parlato qui – ha risucchiato l’attenzione nazionale ed internazionale monopolizzandola sul conflitto fra India e Pakistan, allontanando qualsiasi possibilità di dialogo tra le due nazioni riguardo il Kashmir, e tagliando così le gambe al morale della popolazione.
Le rabbiose grida provenienti dal sud della valle, fin dal luglio il cuore pulsante di questa insurrezione, sono diventate ora dei lievi sussurri, soprattutto per via dell’inizio della stagione della raccolta delle mele e del riso che ha impegnato la maggior parte delle braccia più giovani.
Inoltre, le forze dell’ordine hanno deciso di inasprire la strategia della tolleranza zero, aumentando gli arresti: negli ultimi tre mesi 7000 persone – soprattutto ragazzi tra i 10 e i 25 anni – sono state arrestate e 450 accusate con il Public Safety Act, una misura speciale – di cui le forze dell’ordine fanno ampio uso – che permette la detenzione “preventiva” di un individuo fino a 2 di anni di reclusione.
La stanchezza dopo tre mesi di repressione e sacrifici, il pungente inverno alle porte e la frustrazione per la mancanza di risultati tangibili hanno fatto il resto.
La vita comunque continua ad essere lontana dalla normalità visto che il coprifuoco – sebbene alleggerito – continua, le scuole e tutti gli edifici pubblici sono chiusi e lo sciopero indetto dai leader separatisti prosegue. Ma è evidente come questa quiete sia pronta a collassare in una nuova esplosione di violenza da un momento all’altro. E così è successo.
Sabato mattina 15 ottobre, all’ospedale di Srinagar, Junaid Ahmad è deceduto all’età di 12 anni a causa delle irreversibili ferite inflittegli dai pellet gun. Gli abitanti della città in poche ore si sono radunati fuori dall’ospedale ed hanno dato inizio ad una oceanica processione funeraria per trasportare la salma del giovane al cimitero di Eidgah, dove Junaid avrebbe riposato accanto ai martiri dell’azadi – libertà in urdu. Dopo qualche chilometro però il corteo è stato intercettato dai paramilitari indiani e dalla polizia locale che hanno improvvisamente lanciato numerosi lacrimogeni e granate stordenti sulla folla. Questa fotografia, in cui i parenti di Junaid cercano di proteggerne il corpo circondati da una nuvola di lacrimogeni, spiega molto più di mille parole.
A quel punto gli slogan anti-India sono stati solo il preludio al lancio di pietre da parte della folla colma di rabbia. Nei giorni seguenti, sebbene il coprifuoco fosse stato rafforzato, sono esplosi scontri in numerose zone della città di Srinagar.
Mentre il cimitero dei martiri di Eidgah attendeva di essere ampliato da una nuova salma, la madre ha però deciso di seppellire il figlio vicino casa.
“Era il mio unico figlio, la luce dei miei occhi, tutto il mio mondo. Le forze dell’ordine mi hanno strappato tutto quello che avevo. Ho bisogno di poter vedere la sua tomba ogni giorno”, avrebbe detto la madre di fronte ai presenti che volevano riprovare a portarlo ad Eidgah il giorno dopo.
L’unica colpa di Junaid è stata quella di affacciarsi fuori al portone della sua casa nella città vecchia di Srinagar mentre gli scontri erano in corso nella zona. Secondo le ricostruzioni, una pioggia di pellet gun si sarebbe abbattuta sul giovane corpo.
L’ufficio degli affari esteri pachistano ha espresso le sue condoglianze alla famiglia del defunto e definito l’accaduto come “uno dei peggiori esempi del terrorismo di stato” e “l’ennesima prova delle continue atrocità commesse dall’India in Kashmir”.
Una notizia passata inosservata sui media internazionali e su molti di quelli indiani – troppo impegnati a riportare le arringhe infuocate di Modi contro il Pakistan; una morte che troppo poco apporterà all’insurrezione di quest’anno, che sembra ormai poter riservare solo qualche colpo di coda.
Intanto, però, un’altra famiglia si aggiunge alle centinaia che ogni giorno piangono i loro cari scomparsi.
Nelle ultime settimane l’entità degli scontri in Kashmir si è notevolmente ridimensionata per via di diversi motivi.
L’attentato terroristico alla base militare indiana di Uri – Matteo Miavaldi ne ha parlato qui – ha risucchiato l’attenzione nazionale ed internazionale monopolizzandola sul conflitto fra India e Pakistan, allontanando qualsiasi possibilità di dialogo tra le due nazioni riguardo il Kashmir, e tagliando così le gambe al morale della popolazione.
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