I commenti dei media cinesi riguardo i fatti avvenuti in Francia, sono interessanti per due ordini di motivi: innanzitutto perché la Cina è un paese in cui non vige la completa libertà di stampa, i media sono fortemente controllati dagli apparati del Partito (presenti in ogni redazione) e negli ultimi tempi – da quando Xi Jinping è al potere – il controllo sui contenuti, se possibile, si è fatto ancora più forte.
In secondo luogo la Cina ha un problema interno legato all’estremismo religioso islamico, poiché nella regione nord occidentale del Xinjiang, la (ex) maggioranza musulmana costituisce da sempre una spina nel fianco della sovranità e territorialità di Pechino.
Al contrario di altri paesi che hanno effettuato delle clamorose giravolte, riguardo la propria concezione della libertà di espressione, la Xinhua, l’agenzia di stampa ufficiale della Repubblica popolare, attraverso un commento del proprio responsabile di Parigi, ha specificato la linea consueta: ci devono essere dei limiti alla libertà di stampa.
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Una posizione coerente con le proprie pratiche, giustificata dal fatto che ogni religione ha i propri tabù. In realtà la Cina ha partecipato alla manifestazione di Parigi, attraverso il proprio ambasciatore in Francia, comportandosi dunque in modo ineccepibile dal punto di vista internazionale. E il portavoce del ministero degli esteri, oltre ad aver espresso piena solidarietà al governo e al popolo francese, ha specificato – riguardo i commenti e gli editoriali dell’agenzia di stampa cinese, che «la Xinhua, parla a nome della Xinhua».
Si conferma dunque il consueto doppio binario comunicativo cinese che vuole i media statali piuttosto aggressivi su alcuni temi (come ad esempio la libertà di stampa), perché riferiti ad un pubblico interno (l’articolo del responsabile della Xinhua di Parigi è in cinese, qui), mentre i politici, specie di fronte alla stampa straniera, tendono ad avere una linea più morbida, capace di confermare la natura pacifica della potenza asiatica.
Addirittura il Global Times, in un suo editoriale del 12 gennaio, ha citato la decisione del New York Times, la cui edizione cinese è spesso «spenta» in Cina, a seguito del reportage sulle ricchezze dell’ex premier Wen Jiabao, di non pubblicare le vignette di Charlie Hebdo.
Ma che la Cina sia preoccupata da questa escalation, lo confermano i recenti provvedimenti presi nella regione xinjianese, all’interno di una politica repressiva che di fatto costituisce in una guerra di bassa intensità da tempo. Il Xinjiang, una regione in precedenza a maggioranza musulmana, per la presenza maggioritaria dell’etnia uighura, è oggi una regione nella quale Pechino ha investito soldi e propaganda per la campagna Go West, mandando milioni di cinesi han a mutare profondamente la natura della regione.
Accanto a questo tentativo di annacquare le mire indipendentiste della regione, Pechino ha intensificato la militarizzazione e la repressione. Condanne a morte, molti arresti e regione, in molti casi, chiusa all’esterno (quando ci furono violentissimi scontri nel 2009, a Urumqi, per la prima volta la Cina chiuse le linee telefoniche nella regione, per impedire l’utilizzo di internet).
@simopieranni
I commenti dei media cinesi riguardo i fatti avvenuti in Francia, sono interessanti per due ordini di motivi: innanzitutto perché la Cina è un paese in cui non vige la completa libertà di stampa, i media sono fortemente controllati dagli apparati del Partito (presenti in ogni redazione) e negli ultimi tempi – da quando Xi Jinping è al potere – il controllo sui contenuti, se possibile, si è fatto ancora più forte.
In secondo luogo la Cina ha un problema interno legato all’estremismo religioso islamico, poiché nella regione nord occidentale del Xinjiang, la (ex) maggioranza musulmana costituisce da sempre una spina nel fianco della sovranità e territorialità di Pechino.