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La tecno-politica globale


­Stati Uniti d’America e Cina sono oggi le due grandi potenze mondiali. Due blocchi con relativi satelliti che si stanno sfidando sulla questione tecnologica. Fino a confondere l’obiettivo del predominio con l’obiettivo della tecnica

Comprare una mannaia cinese di fattura tedesca può essere una sorpresa. L’orizzonte di attesa sarebbe una copia perfetta del coltello estremorientale, ma prodotta in Germania, un’assicurazione sulla qualità dell’acciaio, del manico, della garanzia europea, del marchio. Spacchetti, cominci a preparare qualcosa e credi di poter affondare la lama nelle verdure come un cuoco asiatico. Ma ti accorgi immediatamente che il tuo nuovo coltello è solo una rivisitazione occidentale. Il bordo è più spesso dell’originale, perché l’angolo di affilatura è più ampio, secondo lo standard comune ai coltelli di ponente. Ed ecco il cortocircuito. Stai tagliando con un coltello cinese, ma solo apparentemente: il risultato dell’azione è tutto occidentale. La lama, per quanto pesante, stenta a penetrare nel cibo e l’esperienza non aggiunge nulla a ciò che già provi quando tagli le carote con un coltello dell’ovest.

Comprare una mannaia cinese di produzione tedesca è una sorpresa. E per questo è anche una buona metafora del modo in cui dovremmo interpretare una cultura diversa dalla nostra. Fatichiamo a penetrare il pensiero della burocrazia celeste che di fatto domina e prova a dominare ancora sull’iniziativa imprenditoriale, come ha fatto per millenni – oggi tramite il partito comunista cinese (un’organizzazione piramidale composta da 90 milioni di membri, circa il 7% della popolazione). La modernizzazione cinese, infatti, è di carattere socialista. Sono queste alcune delle keyword della narrazione del segretario generale del Pcc Xi Jinping.

La politica cinese non parla di individuo, ma di collettività; pensa al breve e medio termine per ragioni programmatiche e operative, e sempre al lungo periodo o all’eternità per la sua missione. Seppure tramite un processo di avvicinamento progressivo – passando dall’idea di conquista di un benessere sconosciuto al popolo, ai più recenti programmi di Xi Jinping, alla sua visione strategica – la Cina si autorappresenta in prospettiva. Come quando definisce l’obiettivo dell’anno 2049, che segnerà la narrazione trionfante di un secolo di storia del partito, ratificata nel sesto plenum del 2021 e ribadita nell’ultimo congresso del 2022. Tuttavia, l’analisi dei risultati smentisce alcuni dei target del quinquennio disegnato nel precedente appuntamento congressuale, quello del 2017. Pechino ha nel frattempo costruito una pesante regolamentazione che colpisce le tech company. Il covid ha spiazzato i mercati e le filiere, si è aggiunta la guerra tra Russia e Ucraina, persiste la mancanza di autonomia cinese nella supply chain dei semiconduttori.

La roadmap di Xi Jinping sarebbe organizzata servendosi di strumenti precisi e scandita secondo programmi dedicati e piani quinquennali di etimo sovietico, ancora oggi utili allo stato cinese come contenuti di dettaglio e di indirizzo per definire e monitorare lo sviluppo economico. Si tratta di relazioni molto approfondite con timeline, budget, specifiche. Materiali per i cento anni (1949-2049) che condurranno, secondo il racconto cinese, a chiudere definitivamente – è questo l’obiettivo – con il “secolo delle umiliazioni”, con la generale perdita di prestigio della Cina, e a raggiungere e superare la capacità produttiva taiwanese nella filiera dei semiconduttori (ciò implicherà la riunificazione con Taiwan, anche questa è keyword della narrazione partitica) e gli Stati Uniti d’America nel primato di potenza globale. Tale possibilità è solo una conseguenza del grande piano cinese, non il suo fine. Sempre che lo stato non freni lo sviluppo dell’innovazione, come le vicende che recentemente hanno visto coinvolto Jack Ma e altri imprenditori cinesi possono lasciare supporre. Alla fine del 2020, il founder di Alibaba era improvvisamente scomparso. Al tempo, i media occidentali speculavano, anche con un certo ritmo cinematografico, sulla misteriosa sparizione di quella personalità flamboyant sia nelle sue sortite pubbliche sia nelle ambizioni d’impresa, riportata dal partito a dimensioni più controllate, anche attraverso la sospensione dell’Ipo di Ant Group. Quest’ultimo episodio avrà ricordato a Ma, poi riapparso sulla scena con toni più moderati, che le sue fortune sono fondate prevalentemente sul mercato cinese.

Da quel novembre dell’annus horribilis del coronavirus, altri fondatori di grandi aziende tecnologiche e digitali cinesi, come Su Hua di Kuaishou o Huang Zheng di Pinduoduo, hanno fatto un passo indietro nella guida delle loro creature. Il “capitalismo di stato” tenta di condizionare lo sviluppo tecnologico e la creatività imprenditoriale. Sarà utile riportare altre parole d’ordine cinesi: la modernizzazione della nazione è di carattere socialista e la base della modernizzazione è la tecnologia. Così anche i piani cinesi per il 2035 sono concentrati su quest’obiettivo: superare l’Occidente nelle frontiere tecnologiche. Intelligenza artificiale, corsa allo spazio, new energy, risorse minerarie nel cielo e nei fondali marini, nuovi materiali, biotech.

Comprare una mannaia cinese di marca tedesca è anche una buona metafora per descrivere la guerra tecnologica tra Cina e Usa, il tema della supply chain globale, i passi cruciali per strutturare una solida economia della conoscenza, l’industria manifatturiera e la comprensione che di tutto questo tenta l’Occidente. Stati Uniti d’America e Cina sono oggi le due grandi potenze mondiali. Due blocchi con relativi satelliti che si stanno sfidando sulla questione tecnologica. Fino a confondere l’obiettivo del predominio con l’obiettivo della tecnica. La tecnologia è diventata il tema della politica globale. L’innovazione tecnologica è un fattore totalmente integrato in ogni attività. E il movimento generato da elementi profondamente dipendenti dalla tecnologia, quali la trasformazione digitale, la globalizzazione, la transizione ecologica e la sostenibilità, è tra i più ampi e articolati della storia dell’uomo. L’accelerazione tecnologica riguarda ogni campo dell’attività umana, ogni intenzione produttiva, ogni respiro. Oggi, non possiamo non dirci tecnologici.

Come abbiamo ricordato, il racconto ripete che la modernizzazione cinese è di carattere socialista, e il fondamento della modernizzazione è la tecnologia. Ecco ancora la metafora, l’angolo di taglio della nostra mannaia cinese made in Germany, a dirci, se non altro, quante sono le differenze tra l’Occidente e la Cina. Le due più grandi potenze mondiali, Usa e Cina, stanno costruendo la propria forza sulla tecnologia. Le relazioni con le altre nazioni, la verifica della modernizzazione sono regolate dal fattore tecnologico. La Cina è ancora dietro gli Stati Uniti d’America. Un settore che ha confermato la leadership degli Usa è stata la corsa al vaccino per il Covid-19. Tuttavia, le intenzioni di recupero e dominio cinese sono chiare. Cresce il numero di brevetti tech, il paese sperimenta il brain gain con il rientro in patria di persone altamente formate all’estero, che a loro volta si dedicano all’imprenditoria o all’insegnamento. Questo fenomeno si incrocia con la circolazione e la guerra dei talenti, che la Cina combatte provando ad attrarre gli ingegneri e gli ingegni asiatici. Migliora l’istruzione, la produzione della ricerca scientifica, i rapporti tra università e industria si fanno strutturati, marcando in questo una differenza con nazioni quali la Corea del Sud e il Giappone.

La Cina, come detto, sembra in qualche modo danneggiare se stessa attraverso un progetto di oppressione della libera e creativa iniziativa imprenditoriale di cui appare oggi poco chiaro l’aspetto evolutivo. Gli Usa mirano ad azzopparne la crescita militare e tecnologica. Adoperano strumenti come il CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States, “an interagency committee authorized to review certain transactions involving foreign investment in the United States and certain real estate transactions by foreign persons, in order to determine the effect of such transactions on the national security of the United States”), le sanzioni, le visa policy che stanno spingendo molti studenti cinesi a rientrare dalle università statunitensi che frequentano.

La politica colpisce i tentativi di accelerazione tecnologica e segna gli equilibri geopolitici. L’iniziativa “Made in China 2025” lanciata il 19 maggio 2015 come il primo piano decennale per l’incentivazione della produzione e guidata dal premier Li Keqiang, prevede tre fasi, sempre tendenti al trionfo dell’anno 2049. Si articola in 9 indirizzi prioritari di tecnologia e digitalizzazione (“improving manufacturing innovation, integrating technology and industry, strengthening the industrial base, fostering Chinese brands, enforcing green manufacturing, promoting breakthroughs in ten key sectors, advancing restructuring of the manufacturing sector, promoting service-oriented manufacturing and manufacturing-related service industries, and internationalizing manufacturing”) e uno di questi spinge l’innovazione su 10 settori chiave: “New information technology, High-end numerically controlled machine tools and robots, Aerospace equipment, Ocean engineering equipment and high-end vessels, High-end rail transportation equipment, Energy-saving cars and new energy cars, Electrical equipment, Farming machines, New materials, such as polymers, Bio-medicine and high-end medical equipment”.

Significative e da scorrere le reazioni dei paesi occidentali. La Commissione europea sollecita la risposta industriale competitiva dell’Unione, altre nazioni vedono un vantaggio nel breve termine e la minaccia nel lungo (Giappone), i pericoli del brain drain (Taiwan, Corea del Sud), le attività aggressive di fusioni e acquisizioni. La gara però è tra Stati Uniti d’America e Cina. I primi riconoscono l’avanzata cinese come una minaccia per la sicurezza nazionale. Bisogna dunque restringere fino a soffocarne gli spazi negli Usa, commerciali e quindi di scambio e di assimilazione di informazioni e know how. Consolidando una serie di iniziative di monitoraggio e controllo industriale e dei rapporti di import ed export. Una supply chain autarchica o quantomeno alleata è infatti il sogno e l’incubo dei governi.

Datiamo all’incirca la contemporaneità di Usa e Cina alla fine della Seconda guerra mondiale. Da allora gli Stati Uniti d’America hanno conquistato il mondo, attraverso il controllo di mari e oceani, con lo strumento della Nato, la conquista dello spazio in competizione con la Russia e ora con la Cina, attraverso azioni di hard e soft power. Infine, la caduta dell’Unione sovietica ha segnato il potere assoluto degli Usa. Sebbene negli ultimi cinque decenni la Cina abbia lavorato per saldare strategicamente l’influenza dello stato sullo sviluppo tecnologico, l’impronta tech del mondo è tutta statunitense. Le invenzioni che hanno nutrito la Silicon Valley, Seattle (sede di Microsoft e Amazon) e le geografie statunitensi dell’innovazione sono di origine militare. Ormai notissime le radici di internet, del microprocessore, del mouse, del Gps, di Siri, alcune di queste nate in seno alla Darpa, l’agenzia del dipartimento della difesa statunitense costituita nel 1958 come risposta alla Sputnik surprise e dedicata agli investimenti in tecnologie avanzate per la sicurezza nazionale.

In questo senso la Cina è un follower assai abile nell’applicare le tecnologie, soprattutto in modalità platform economy e negli sviluppi dell’intelligenza artificiale in cui ha numeri, intenzioni crescenti e potenzialità, disponendo anche di un enorme bacino di utenti per generare data set. Meno nell’hardware, in cui soffre una riconosciuta carenza vieppiù nutrita dalle azioni di contenimento statunitensi. Altre nazioni sono forti tecnologicamente e innovative. India, Regno Unito, Israele, un’Europa spaventosamente disarticolata. Non mancano valutazioni, metriche e classifiche che definiscono il peso che la tecnologia ha negli equilibri geopolitici. Ma per entrare nel ranking di potenza globale, non solo di forza tecnologica, bisogna parlare. Passare dallo stato di follower a quello di leader nel dominio tecnologico è una questione di trasformazione culturale, da stato che implementa a stato che inventa, che crea, che integra la formazione con la ricerca e la sperimentazione e infine con l’esecuzione, la messa a terra dei progetti, guadagnando il consenso e il controllo degli stakeholder, disseminando soft power. Temi che negli Stati Uniti d’America e in Cina trovano molti elementi in comune. Più di quanto possa credere chi distingue manicheisticamente le due culture, i due approcci. Almeno fin quando non si trova in mano una mannaia cinese di produzione tedesca e sperimenta la vertigine degli angoli visuali.

Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest

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