Libia, Serraj o Haftar: non c'è più nessuna scelta. Da che parte schierarsi nel grande teatro di uno scontro che non ha certamente in palio solo Tripoli?
Libia, Serraj o Haftar: non c’è più nessuna scelta. Da che parte schierarsi nel grande teatro di uno scontro che non ha certamente in palio solo Tripoli?
Nelle scelte connesse alla politica internazionale, specie in quelle che riguardano la sicurezza del nostro Paese, sbagliare è molto facile mentre risulta invece estremamente difficile riconoscere con franchezza i propri errori allorché è giunto il momento in cui è divenuto indispensabile farlo per non andare incontro a guai maggiori. Ancora più difficile poi è cercare di porre adeguato rimedio alle nostre scelte sbagliate, e questo sempre che un rimedio esista e che sia in effetti possibile mutare in corsa le nostre scelte evitando però di essere travolti dal crollo di quanto avevamo sino a quel momento sostenuto.
In Libia, sin dal momento in cui si è delineato il contrasto fra le due fazioni, che malgrado il coronavirus continuano ora a combattersi senza interruzione alla periferia di Tripoli, noi abbiamo tragicamente sbagliato la nostra scelta schierandoci con il premier Serraj. Per rispettare la realtà delle cose occorre però dire che, nel momento in cui l’abbiamo effettuata, tale scelta appariva come l’unica giusta. Soprattutto poi per il fatto di risultare pienamente in linea con quelli che erano i nostri tradizionali orientamenti in materia di politica estera. Vi è da tener conto cioè di come sin dall’inizio l’Onu abbia considerato quello di Tripoli quale l’unico Governo legittimo e come per noi schierarsi sempre dalla parte delle Nazioni Unite sia in pratica divenuto un dogma da rispettare rigidamente anche quando alcuni aspetti della decisione appaiono sin dall’inizio in contrasto, almeno potenziale, con l’interesse del nostro Paese. Essere dalla parte della cosiddetta legalità internazionale ci faceva inoltre sperare, unitamente ad altri fattori, di poter esercitare un ruolo guida nella gestione della vicenda. Un ruolo che fosse sostanziale e non soltanto formale, e che venisse riconosciuto come tale da tutti gli interessati, diretti od indiretti che essi fossero. Poi, almeno per un certo periodo, vi è stata l’illusione che il nostro schieramento potesse favorire gli interessi dell’ENI, almeno in teoria minacciati dalla francese Total. Infine − ma forse questa era in realtà la maggiore delle nostre preoccupazioni! − l’appoggio a Serraj ci avrebbe consentito un miglior controllo dei flussi di migranti illegali, in grande maggioranza in partenza dalla Tripolitania e non dalla Cirenaica.
Come conclusione, dopo alcuni anni di pressoché costante sostegno a Tripoli, noi ci ritroviamo ora ad affrontare una situazione in cui, dopo esserci in parte screditati agli occhi dei libici e sul piano internazionale – riuscendo a produrre soltanto iniziative diplomatiche tanto ambiziose quanto inutili – abbiamo a che fare con un conflitto in cui sempre più numerosi, intrusivi ed esigenti appaiono i protagonisti indiretti. Il nostro peccato principale, in questo frangente, è stato probabilmente quello di risultare incapaci di affiancare alla citata azione diplomatica, di per sé stessa astrattamente pregevole, azioni concrete di sostegno e di garanzia a un eventuale accordo siglato sul campo. Tradotto in altri termini ciò significa che non abbiamo voluto o saputo promuovere un’azione europea − un intervento unicamente italiano sarebbe infatti stato del tutto velleitario ed assolutamente insufficiente − destinato a portare in Libia un numero di Boots on the ground tale da far svanire sul nascere ogni tentazione di inosservanza di quanto concordato a tavolino. A nostra scusante gioca soltanto la difficoltà di concordare qualcosa del genere nell’ambito di una Unione concentrata essenzialmente sulla sua frontiera di nord-est e in cui l’unica media potenza rimasta dopo la diserzione del Regno Unito, la Francia, considera assolutamente prioritario concentrare le sue forze nella difesa dell’influenza che ancora le resta in Africa francofona.
Grazie anche alla nostra inerzia comunque la scena libica, un tempo anarchica tavolozza di milizie locali, religiose e tribali, ha finito in questi anni col trasformarsi in uno dei maggiori teatri dello scontro in atto per acquisire la leadership del fronte islamico-sunnita. Gli avvenimenti degli ultimi mesi oltretutto hanno tragicamente chiarito come non sia più tra Serraj e Haftar − entrambi ridotti a figuranti di un tragico teatro dei pupi − che occorra scegliere, bensì tra due schieramenti ben più ampi e articolati che si stanno affrontando ora alle porte di Tripoli e si muovono entrambi con estrema spregiudicatezza e strategie ben chiare e definite. A complicare ulteriormente le cose, e non soltanto per noi ma per l’intera Unione europea, vi è poi il fatto che mentre uno dei maggiori contendenti, la Turchia, è un amico/nemico con cui condividiamo l’appartenenza alla Nato e decenni di strada politica comune, chi gli si contrappone, la Russia, è invece un nemico/amico con cui non abbiamo mai diviso il pane ma che molti di noi, se non altro per questioni energetiche, amerebbero veder sedere quanto prima possibile alla nostra tavola.
Benché le cose stiano a questo punto, e benché Tripoli assediata possa cadere in ogni momento, noi Italiani continuiamo in ogni caso a rimanere pressoché immobili, dopo esserci concentrati per mesi soltanto sulla ricostituzione di una forza navale europea i cui compiti appaiono fra l’altro a tutt’oggi ancora molto vaghi. Non ci rendiamo nemmeno conto di come, sotto egida turca e qatarina, in ciò che resta della Tripolitania del nostro protetto Serraj stia installandosi nel frattempo la Fratellanza Islamica, un’associazione che ha anche un’ala politica ma che mantiene parallelamente, sia pure in sordina, una caratterizzazione terroristica da movimento islamico fondamentalista. In prospettiva poi, se questa presenza dovesse realmente prendere piede, l’insediamento a Tripoli potrebbe rivelarsi per i Fratelli un trampolino di lancio per destabilizzare, in rapida successione, un intero Magreb già travagliato da acuti problemi di instabilità politica.
È ancora logico, è ancora nel nostro interesse per noi continuare a sostenere in queste condizioni il Governo Serraj, quindi la presenza turco/qatarina e dunque l’avanzata della Fratellanza Islamica? Non dovremmo invece perlomeno chiederci, se non sia il caso di scegliere quello che si prospetta come il male minore e schierarci anche noi dall’altra parte? Sì, si tratterebbe di allinearci con la Russia. Ma non lo fanno a volte anche gli Stati Uniti? Sarebbe anche necessario effettuare un cambio di fronte ma per una volta nella nostra storia potremmo farlo correttamente. Cioè evitando di imitare il Re e Badoglio l’8 settembre, vale a dire parlando duro e franco sin dall’inizio e precisando senza remore a noi stessi e a tutti gli altri protagonisti della vicenda libica come azioni in altre contingenze discutibili divengano assolutamente indispensabili allorché ciò che è in gioco è l’interesse nazionale, specie in settori tanto importanti e vitali come quelli connessi alla crisi libica!
Può parere assurdo parlare di temi del genere in momenti come questo, in cui l’attenzione collettiva è concentrata solo sull’andamento del morbo che al momento ci affligge. È bene però tenere sempre presente che “là fuori” il mondo non si è fermato e che non potremo lamentarci se quando torneremo a guardare lontano troveremo le cose cambiate in peggio negli orizzonti per troppo tempo trascurati!
Ma eastwest è con Tripoli (di Giuseppe Scognamiglio)
Eastwest ospita spesso opinioni autorevoli, diverse dalla linea editoriale, che danno lustro alla nostra reputazione di rivista, aperta a un dibattito sano, soprattutto quando si prefigurano le evoluzioni degli scenari internazionali. In questo caso specifico, è proprio il Presidente e un membro di spicco del nostro Comitato Scientifico, insieme autori di una consueta e apprezzatissima rubrica, che hanno deciso di pubblicare un fondo su una questione delicatissima, la Libia post Gheddafi, esprimendo una visione originale e in contrasto sia con la politica del Governo italiano sia con la nostra linea editoriale.
Noi abbiamo infatti scelto fin dall’inizio di stare con le Nazioni Unite, sia per convinzione istituzionale che di merito, oltre che perché riscontriamo valori più condivisibili nel Governo di Tripoli che nell’avventura del generale Haftar, sostenuto da Paesi con agende lontane da quella di Roma e di Bruxelles (inclusa la Francia nella sua inverosimile versione post gollista – lo dico da macroniano convinto).
E questo con tutti i corollari che da questa scelta di campo derivano, come ad esempio una valutazione positiva sulla discesa in campo della Turchia che, proprio in questi giorni, grazie ai suoi droni, sta consentendo al legittimo Governo di Al-Sarraj di riconquistare terreno.
Ringraziamo il Presidente Prodi e il Generale Cucchi per stimolare le nostre riflessioni con spirito libero.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di giugno/luglio di eastwest.
Nelle scelte connesse alla politica internazionale, specie in quelle che riguardano la sicurezza del nostro Paese, sbagliare è molto facile mentre risulta invece estremamente difficile riconoscere con franchezza i propri errori allorché è giunto il momento in cui è divenuto indispensabile farlo per non andare incontro a guai maggiori. Ancora più difficile poi è cercare di porre adeguato rimedio alle nostre scelte sbagliate, e questo sempre che un rimedio esista e che sia in effetti possibile mutare in corsa le nostre scelte evitando però di essere travolti dal crollo di quanto avevamo sino a quel momento sostenuto.
In Libia, sin dal momento in cui si è delineato il contrasto fra le due fazioni, che malgrado il coronavirus continuano ora a combattersi senza interruzione alla periferia di Tripoli, noi abbiamo tragicamente sbagliato la nostra scelta schierandoci con il premier Serraj. Per rispettare la realtà delle cose occorre però dire che, nel momento in cui l’abbiamo effettuata, tale scelta appariva come l’unica giusta. Soprattutto poi per il fatto di risultare pienamente in linea con quelli che erano i nostri tradizionali orientamenti in materia di politica estera. Vi è da tener conto cioè di come sin dall’inizio l’Onu abbia considerato quello di Tripoli quale l’unico Governo legittimo e come per noi schierarsi sempre dalla parte delle Nazioni Unite sia in pratica divenuto un dogma da rispettare rigidamente anche quando alcuni aspetti della decisione appaiono sin dall’inizio in contrasto, almeno potenziale, con l’interesse del nostro Paese. Essere dalla parte della cosiddetta legalità internazionale ci faceva inoltre sperare, unitamente ad altri fattori, di poter esercitare un ruolo guida nella gestione della vicenda. Un ruolo che fosse sostanziale e non soltanto formale, e che venisse riconosciuto come tale da tutti gli interessati, diretti od indiretti che essi fossero. Poi, almeno per un certo periodo, vi è stata l’illusione che il nostro schieramento potesse favorire gli interessi dell’ENI, almeno in teoria minacciati dalla francese Total. Infine − ma forse questa era in realtà la maggiore delle nostre preoccupazioni! − l’appoggio a Serraj ci avrebbe consentito un miglior controllo dei flussi di migranti illegali, in grande maggioranza in partenza dalla Tripolitania e non dalla Cirenaica.
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