Marco Cecchini, autore di due recenti libri su Mario Draghi, riflette sulle sfide del governo, da un anno a questa parte, sulla partita del Quirinale, sulla strategia dei prossimi 12 mesi di governo e su possibili futuri incarichi istituzionali di Draghi in Europa
“Immagino che Draghi abbia in mente di portare avanti un processo profondo di riforma che consenta all’Italia di modernizzarsi, concentrandosi in particolar modo su alcuni punti ben precisi: giustizia, fisco, mercato del lavoro. Il tema delle riforme è sempre stato di attualità, nonostante, alla fine, sia rimasto sempre solo sulla carta”. Il giornalista ed economista Marco Cecchini riflette sulle sfide portate avanti dal governo di Mario Draghi – che il 13 febbraio dell’anno corrente compie il suo primo anno di vita –, in bilico fra la salda determinazione a intraprendere un compiuto percorso di riforme e gli equilibri fragili dei partiti. Nel suo nuovo libro, Un anno da Draghi. La metamorfosi di un banchiere (Fazi editore, 2022), analizza le motivazioni che lo hanno portato a porsi alla guida di un Paese al collasso, vestendo quegli abiti da politico che in passato aveva sempre rifiutato: “qualcosa di più di un tecnocrate che risolve problemi”.
Ascolta l’intervista a Marco Cecchini sul libro L’enigma Draghi.
“Il bilancio dei primi undici mesi di governo Draghi – scrive Cecchini – presenta un saldo positivo. La pandemia non è finita, ma perlomeno è stata ricondotta nell’alveo di una maggiore gestibilità grazie a un’ottima campagna vaccinale; Bruxelles ha dato il suo via libera al Pnrr; l’economia è in ripresa oltre le più rosee aspettative; la fiducia dell’estero nell’Italia è ristabilita e dulcis in fundo Standard & Poor’s ha migliorato la valutazione del debito italiano. Ma alcuni non secondari problemi restano aperti e, come ha scritto The Economist in un articolo peraltro meno scettico dei precedenti, il tempo stringe””.
Approdato al giornalismo come collaboratore del Sole 24 Ore e inviato di economia internazionale per il Corriere della Sera nonché, in passato, capo dell’ufficio stampa del Ministero dell’Economia e responsabile delle Relazioni Esterne dell’IVASS, l’authority assicurativa collegata alla Banca d’Italia, Marco Cecchini ha dedicato all’ex Presidente della Bce anche il precedente saggio, L’enigma Draghi (Fazi Editore, 2020), con la prefazione di Giuliano Amato.
Cecchini, in passato, nonostante le sollecitazioni di Prodi nel 2006 e Napolitano nel 2015, Draghi si è sempre rifiutato di scendere nell’agone politico. In una recente conferenza stampa, ha affermato, rispondendo a chi lo vorrebbe futuro federatore dei gruppi di centro: “Se decidessi di lavorare, un lavoro lo trovo da solo”. Dobbiamo intendere questo suo premierato come una parentesi politica non replicabile?
Draghi è un uomo d’azione: persegue una missione, nonostante il suo percorso, adesso, dipenda ovviamente dalla maggioranza che lo sostiene. Mi pare giustamente irritato dalle diverse voci e illazioni sul suo destino futuro; quindi ha reciso in modo netto ogni possibile riferimento come federatore o candidato Presidente di una parte politica. Non credo che queste voci si fermeranno, ma, in ogni caso, il destino di Draghi si deciderà nel marzo del prossimo anno dopo le elezioni politiche. Il resto sono tutte speculazioni che non aiutano.
Si cominciano a rivelare discrepanze e fibrillazioni all’interno della maggioranza di governo. Lo stesso Draghi ha parlato di “vedute diverse”, escludendo comunque possibili rimpasti. Crede che questa maggioranza continuerà inalterata il suo percorso?
La maggioranza dipende dai partiti. Credo che oggi, dopo le elezioni per il Quirinale, Draghi sia nella condizione di dire: prendere o lasciare. Sarebbe inutile che lui stesse lì ad accettare troppi compromessi per poi arrivare fra un anno a ottenere soltanto risultati opachi. Ha sicuramente tutto l’interesse ad assumere posizioni nette e a passare la responsabilità di un’eventuale rottura della maggioranza ai partiti, i quali penso che non arriverebbero a tanto: dovranno accettare le decisioni di Draghi, magari con qualche piccolo ritocco o correzione che gli consenta di presentarsi al proprio elettorato enfatizzando questo o quel punto, ma senza snaturare la sostanza.
Ritiene che lo spirito pragmatico di Draghi e il suo approccio comunicativo molto diretto ed essenziale possano aver spiazzato i partiti tradizionali?
In un certo senso sì. Certamente questo decisionismo di Draghi, che tutti si aspettavano, ha avuto dei riflessi sui partiti ridimensionandone il ruolo, mentre loro sono soprattutto in cerca di visibilità, specialmente negli ultimi mesi che precedono una campagna elettorale importante. È però questo ciò che deve fare Draghi, altrimenti non avrebbe alcun senso: se dovesse mediare continuamente non sarebbe più una personalità chiamata da fuori per risolvere dei problemi ma diventerebbe un attore politico a tutto tondo, passando dalla politica alta che guarda al medio e lungo termine, accettandone i rischi connessi, alla politica politicante interessata soprattutto ai sondaggi e ai risultati delle prossime elezioni.
Vede la mancata elezione di Draghi al Colle come una rivalsa della politica?
Nonostante qualcuno potesse temere che la presenza di Draghi per sette anni ai vertici dello Stato avrebbe potuto comportare una sorta di semipresidenzialismo de facto, io la vedo come una sconfitta per il Paese. Nonostante sia l’esecutivo che assume le decisioni fondamentali, penso che Draghi al Quirinale avrebbe potuto influire anche sulle successive scelte di governo, orientandole in una direzione ben precisa.
Trova che la sua immagine ne sia uscita in qualche modo scalfita?
In un certo senso sì: nella sua storia Draghi ha sempre vinto. Per il lavoro svolto al Tesoro, dove è stato per dieci anni, si è imposto all’attenzione dei media e delle istituzioni internazionali. La Goldman Sachs ha rappresentato per Draghi un ripiego, nel senso che ormai il ciclo al Tesoro era concluso, i rapporti con Tremonti non erano idilliaci e, alla fine, ha preferito una grande banca privata piuttosto che rimanere in un’istituzione pubblica italiana in un contesto politico con cui lui non si trovava in sintonia, proprio per la qualità dei programmi che quella maggioranza portava avanti. Ma, come dice Prodi, Draghi è nato banchiere centrale. La Bce ha rappresentato un’altra vittoria: qui la sua statura è cresciuta enormemente e Draghi è diventato un leader mondiale.
Poi ha dovuto fare i conti con la politica italiana…
Il leader mondiale si è dovuto misurare con il barocchismo della politica italiana, con un sistema politico che favorisce la frammentazione, l’immobilismo e l’assenza di decisioni: un contesto molto diverso da quello delle istituzioni internazionali, tecnocratiche e multilaterali. Non era nei suoi piani fare il Presidente del Consiglio, consapevole che avrebbe dovuto confrontarsi con un ambiente che non era il suo: l’ha fatto solo per senso di responsabilità e perché è stato chiamato a farlo. Per quanto riguarda la sua immagine, il tempo passa e la memoria del salvatore dell’euro comincia a sfumare. Tuttavia, credo che a marzo del 2023 riuscirà a presentarsi come l’uomo che ha imposto all’Italia una serie di riforme di qualità che servivano al Paese da anni.
Debito e Pnrr: come giudica l’approccio del Draghi premier? In conformità con quanto da lui scritto nell’agosto scorso sul Financial Times?
Non bisogna mai dimenticare che Draghi nasce come keynesiano – attenzione alla crescita, al problema delle disuguaglianze, al merito, all’equità sociale, all’inflazione – ma è anche un eclettico: l’impronta keynesiana è stata, nel corso degli anni, moderata da un forte interesse nei riguardi del funzionamento dei mercati finanziari. Oggi il Draghi keynesiano si è ritrovato a fare i conti con una corrente di pensiero economico che ha rivalutato il ruolo della crescita come elemento di riduzione del debito. Ricorre, quindi, congiuntamente a un’azione pubblica – non tutta focalizzata sul deficit – e a provvedimenti inerenti l’offerta – per esempio attraverso una riforma della concorrenza – che consentano, insieme ad altre riforme, di aumentare la produttività del sistema. In questo modo, le riforme aiutano la crescita e la crescita, a sua volta, aiuta la riduzione del debito.
Un significativo cambio di prospettiva…
Prima era diffusa l’idea che la sostenibilità dipendesse dal livello dei tassi d’interesse, e quindi dal livello del deficit, oggi il pensiero generale è che la crescita renda sostenibile il debito: si possono anche avere tassi d’interesse alti, ma con la crescita il debito si riduce. Questo è quanto è avvenuto negli ultimi due anni.
Intendimenti come il rifiuto di ricorrere a un nuovo scostamento di bilancio per far fronte al caro energia, ci mostrano un Draghi maggiormente prudente?
Il contesto è mutato: l’inflazione, che si giudicava temporanea, ci accompagnerà a lungo. L’atteggiamento delle banche centrali, a partire dalla Federal Reserve, comincia a essere orientato a un contenimento della liquidità. Essendo cambiato il contesto, l’Italia non può permettersi di aumentare eccessivamente il proprio debito pubblico. Il debito impiegato per aumentare la crescita è stato utilizzato da una parte per finanziare investimenti e dall’altra per consumi e spesa corrente. Quest’ultima va tenuta a freno. Il debito buono, quello riservato a finanziare investimenti, può crescere, ma quello cattivo, indirizzato alla spesa corrente, va contenuto.
Draghi e la pandemia: come giudica il suo operato in questo campo?
A mio avviso, la somma totale è positiva. Prima di Draghi, vi era stata una gestione della crisi pandemica ondivaga e priva di una strategia precisa: la questione dei banchi a rotelle e dell’acquisto delle mascherine hanno dimostrato un evidente pressapochismo. La mossa di puntare su un uomo esperto in logistica come il generale Figliuolo ha fatto partire la campagna vaccinale. All’arrivo di Draghi, i problemi principali erano due, ovvero far arrivare i vaccini senza disperderli – di qui il blocco dei vaccini Astra Zeneca destinati all’Australia – e far partire la campagna vaccinale: ambedue sono stati risolti. La variante Omicron ha rimescolato le carte, ma, grazie anche ai progressi della scienza e alla posizione netta adottata dal governo sui vaccini, ci troviamo in una situazione ben diversa rispetto a un anno fa.
Lei ha scritto che Conte “ha sempre sofferto l’autorevolezza di Draghi”, mentre Draghi “in conversazioni private ha dimostrato di averne scarsa stima”. Come giudica il rapporto fra i due?
Permane questa difficoltà a capirsi fra due uomini che hanno storie molto diverse. Conte ha intuito fin da subito, da quando Draghi ha lasciato la Bce, che potesse rappresentare un suo temibile concorrente, in quanto figura di alto livello e, quindi, personaggio ‘ingombrante’ per la politica italiana. Ha cercato di proporgli incarichi esterni, come la Presidenza della Commissione europea, per poi, al suo diniego, rivelarne la risposta: “sono stanco”. Un’operazione maldestra per far intuire come l’ex presidente della Bce fosse ormai fuori dai giochi e da incarichi operativi. Non credo che, da parte sua, Draghi abbia apprezzato questa uscita e questo modo di fare e mi risulta che non sia stato molto tenero nei giudizi su Conte in alcune conversazioni private.
A livello internazionale, in cosa il governo Draghi marca delle differenze rispetto ai due governi guidati da Conte?
La principale differenza risiede nello schierarsi in modo netto nel campo atlantico occidentale a difesa dei valori delle economie e delle democrazie liberali. La sua posizione è molto netta su Cina e Russia. Non ha mancato di fare dichiarazioni al riguardo. Dopo il Consiglio europeo che doveva decidere le sanzioni alla Bielorussia, ad esempio, ha criticato in un commento pubblico la Russia per le sue politiche di interferenza, per gli attacchi hacker e per lo spionaggio. Non dimentichiamo, inoltre, le dichiarazioni dedicate a Erdogan e l’abbandono dell’accordo sulla Via della Seta che era stato firmato dal governo gialloverde. Cambio di posizione anche sulle sanzioni: con Draghi la scelta di campo è inequivocabile.
Ritiene che anche sulla questione ucraina mantenga una prospettiva accentuatamente atlantista?
Assolutamente. Addirittura più in linea sulle posizioni americane che europee, più vicino alla condotta apparentemente rigida di Biden. In questo campo la politica si fonda molto sulla comunicazione, sullo sfoggio di atteggiamenti di facciata mentre, dietro le quinte, avvengono colloqui, negoziati, ricerche di dialogo.
I rapporti e le relazioni europee stanno cambiando: in Germania alla Merkel è subentrato il socialdemocratico Olaf Scholz mentre si avvicinano le elezioni francesi. Cosa dovremo attenderci in futuro?
Negli ultimi mesi si è creato un asse franco-italiano: il passo successivo dovrebbe essere quello di stipulare un trattato simile a quello del Quirinale tra Germania e Italia. Sembra che l’auspicio di tutti sia di arrivare ad una sorta di triangolazione Parigi-Roma-Berlino. Il punto, tuttavia, è che il destino di Macron non è ancora chiaro e lo stesso Draghi ha davanti a sé dodici mesi. Il nuovo governo tedesco di coalizione – che include tre anime diverse, quella ambientalista dei Verdi, quella liberale e quella socialdemocratica della Spd – è ancora tutto da scoprire. In questo scenario, Draghi potrebbe, nel ruolo di Presidente del Consiglio italiano o in quello di incaricato al vertice di una istituzione europea, giocare una sua partita. Nel 2024 scade il mandato del Presidente del Consiglio europeo, ruolo destinato ad ex premier: Draghi, qualora fosse la sua aspirazione, potrebbe ricoprirlo in futuro.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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Marco Cecchini, autore di due recenti libri su Mario Draghi, riflette sulle sfide del governo, da un anno a questa parte, sulla partita del Quirinale, sulla strategia dei prossimi 12 mesi di governo e su possibili futuri incarichi istituzionali di Draghi in Europa
“Immagino che Draghi abbia in mente di portare avanti un processo profondo di riforma che consenta all’Italia di modernizzarsi, concentrandosi in particolar modo su alcuni punti ben precisi: giustizia, fisco, mercato del lavoro. Il tema delle riforme è sempre stato di attualità, nonostante, alla fine, sia rimasto sempre solo sulla carta”. Il giornalista ed economista Marco Cecchini riflette sulle sfide portate avanti dal governo di Mario Draghi – che il 13 febbraio dell’anno corrente compie il suo primo anno di vita –, in bilico fra la salda determinazione a intraprendere un compiuto percorso di riforme e gli equilibri fragili dei partiti. Nel suo nuovo libro, Un anno da Draghi. La metamorfosi di un banchiere (Fazi editore, 2022), analizza le motivazioni che lo hanno portato a porsi alla guida di un Paese al collasso, vestendo quegli abiti da politico che in passato aveva sempre rifiutato: “qualcosa di più di un tecnocrate che risolve problemi”.