Il nuovo saggio del consulente di strategia globale sviluppa un’analisi accurata e brillante delle migrazioni di domani, mettendo in luce le tendenze che cambieranno l’economia e la società
“Le civiltà del passato sono scomparse perché non sono riuscite a adattarsi alla complessità da loro stesse creata. Questo ci suggerisce che la grande missione dell’umanità sta nel saper districare la complessità che abbiamo di fronte; sta nel rilocalizzare, e al tempo stesso nel conservare la nostra connettività globale. Un mondo abitato da comunità più compatte, e sempre pronte alla migrazione, comporterebbe rischi inferiori a quelli che minacciano un mondo abitato da grandi masse di popolazione concentrate in megalopoli costiere, vulnerabili all’innalzamento del livello degli oceani e al diffondersi delle malattie”.
Il nuovo saggio del consulente di strategia globale Parag Khanna, “Il movimento del mondo. Le forze che ci stanno sradicando e plasmeranno il destino dell’umanità” (Fazi Editore, traduzione di Franco Motta), sviluppa un’analisi accurata e brillante delle migrazioni di domani, mettendo in luce le tendenze che cambieranno l’economia e la società, scosse ad ogni latitudine dall’impatto devastante dell’emergenza pandemica e climatica. Un cambiamento decisamente significativo: “La Civiltà 1.0 era nomade e agraria; la popolazione mondiale era ridotta e localizzata, e l’ambiente ci imponeva la scelta dei luoghi in cui sopravvivere. Poi arrivò la Civiltà 2.0, fatta di sedentarietà e industrializzazione. Ci stabilimmo in città sempre più grandi e trasformammo la natura in una risorsa grazie alle supply chain globali. Ma il circolo vizioso che si è innescato fra uomo e natura sta uccidendo entrambi. Ora è arrivato il momento di adattarsi di nuovo. La Civiltà 3.0 dovrà essere mobile e sostenibile: ci muoveremo verso le masse continentali, verso le altitudini più elevate e le sconfinate distese del nord del mondo. La nostra impronta carbonica decrescerà grazie alle energie rinnovabili, ma dovremo migrare più frequentemente a causa delle incertezze economiche e ambientali. Sempre più persone vivranno di vita nomade; i nostri insediamenti diventeranno temporanei. Ci disperderemo, ma resteremo connessi”.
Nominato da Esquire una delle “75 persone più influenti del XXI secolo”, fondatore della società di pianificazione di scenari e di consulenza strategica FutureMap, Parag Khanna è autore di numerosi best-seller, fra cui I tre imperi (2009), Come si governa il mondo (2011), Connectography (2016), La rinascita delle città-Stato (2017) e Il secolo asiatico? (2019), pubblicati in Italia da Fazi.
Leggi l’altra intervista di Orlando Trinchi a Parag Khanna: Il Covid ridisegna il mondo.
Khanna, verso quali direzioni si muoveranno le prossime migrazioni di massa e quale relazione intercorrerà tra esse e la mobilità digitale?
Storicamente, abbiamo registrato modelli di migrazione molto stabili, principalmente entro i confini della stessa regione: gli europei all’interno dell’Europa, gli asiatici all’interno dell’Asia, gli africani all’interno dell’Africa, i sudasiatici verso i Paesi del Golfo, i sudamericani verso il Nordamerica, e via dicendo. Assisteremo ora a nuove linee di migrazione: per fare un esempio, i sudasiatici si muoveranno verso l’Asia del Nord, l’Asia centrale o la Russia. Vedremo anche più asiatici arrivare in Europa, mentre sta rapidamente aumentando il numero di cinesi, indiani e vietnamiti che risiedono stabilmente nel continente europeo. Nel prossimo decennio, il numero di giovani e qualificati “asiatico-europei” può crescere, come aumentano i sud asiatici e asiatici dell’Est, e arrivare a sostituire le diaspore esistenti di arabi e africani. La mobilità digitale è certamente molto importante, ma essa si applica maggiormente ai lavoratori da remoto e a coloro che scelgono di vivere nei posti più convenienti, dalle migliori condizioni climatiche, pur mantenendo il proprio lavoro. Se le persone si sposteranno verso città contrassegnate da un costo della vita inferiore, pur continuando a guadagnare alti salari attraverso il lavoro da remoto che svolgono per conto di grandi aziende, ciò potrebbe sortire effetti significativi per le città più costose. A fronte di un consistente numero di nuovi migranti, inoltre, converrà poter disporre di maggiore mobilità digitale o digitalizzazione della mobilità. Possiamo affidarci a standard e protocolli più chiari ed efficienti per consentire alle persone di spostarsi.
Separare la mobilità dalla nazionalità: sarà la sfida del futuro?
Sì, è quello a cui mi riferisco con ‘digitalizzare la mobilità’: per intendersi, se possiedi il tuo passaporto personale in una blockchain, ciò significa che noi disponiamo dei tuoi dati, conosciamo il tuo percorso formativo, la cronologia dei tuoi viaggi, i tuoi precedenti penali, e non ha alcuna importanza se sei italiano o nigeriano. Sappiamo di te e possiamo decidere se accettarti o meno nell’eventuale Paese di arrivo in maniera più appropriata sulla scorta delle tue informazioni personali, piuttosto che comminare una penalità solo in base al luogo da cui provieni. In questo modo giudichiamo la persona, non la nazionalità. Suppongo che ciò sarebbe possibile soltanto se gli individui condividessero realmente più dati e se i dati in questione venissero condivisi in modo sicuro attraverso l’uso della tecnologia, permettendo così di viaggiare in maggiore efficienza, a prescindere dalla propria nazionalità.
A fronte del cambiamento climatico, quali luoghi saranno più accoglienti e capaci di adattarsi al riscaldamento globale?
Sappiamo per certo, sulla base delle proiezioni climatiche, che saranno il Nordamerica − il Canada −, l’Europa settentrionale, Russia, Paesi scandinavi, e parte delle regioni interne del Sudest asiatico. Queste sono le aree che stanno diventando più vivibili – o stanno incrementando la propria vivibilità – e che continueranno a mantenere un buon livello di attrattiva in virtù delle precipitazioni, della loro sufficiente altitudine e distanza dal mare. Per la questione riguardante l’accoglienza, dipende. Penso che il Regno Unito stia realizzando di non voler perdere talenti e certo accetterà un numero maggiore di arrivi. Il Canada manifesta l’ambiziosa strategia di voler triplicare la propria popolazione, quindi si dimostra oltremodo accogliente. La Russia presenta una geografia molto vivibile ma pochissimi abitanti; pur tuttavia, rimane poco inclusiva nei confronti degli stranieri occidentali. L’ironia suprema è che l’Europa si connota come una regione resiliente al clima ma la sua popolazione sta precipitosamente declinando. Trovo che siamo fuori tempo, poiché la crisi demografica peserà quanto la crisi climatica: i vari Paesi si renderanno conto di dover ricevere più migranti. Il divario tra Nord e Sud si sta erodendo da un paio di decenni, grazie agli scambi di alta qualità nei Paesi in via di sviluppo. In termini di entrate nazionali, il Sud sta di certo soffrendo, ma coloro che dispongono di una buona condizione economica sono ancora in grado di mantenere la propria soglia di benessere. Credo che, a causa della combinazione nefasta di regressione economica, pandemia e cambiamento climatico, la situazione sarà peggiore al Sud piuttosto che al Nord, anche se in larga parte ne soffriremo tutti le conseguenze, a causa dell’impatto che la crisi climatica ha sulle infrastrutture o il fatto che la bassa fertilità in Occidente sta rallentando la strada.
Cosa potrebbero fare le global cities riguardo l’integrazione dei migranti e quali sono, ad oggi, i modelli migliori realmente praticati?
Le global cities fanno realmente del loro meglio per l’integrazione dei migranti, e lo testimonia la percentuale crescente di residenti nati all’estero a New York, Toronto, Londra, Berlino o anche a Tokyo. Le global cities non mostrano grandi difficoltà nel riservare posti ai migranti, diventando più diversificate ma al tempo stesso rimanendo stabili. Questa è la promessa delle global cities. La domanda è: più luoghi possono diventare così? Milano, ad esempio, è oggi una città molto diversificata; d’altro canto, Milano non è politicamente instabile quanto la stessa Italia. Una volta che le persone giungono in una global city, realizzi che esse si sentono accettate: permettere che arrivino, governare gli ingressi in maniera credibile, reca un indubbio vantaggio. Penso che questo costituisca un ciclo molto positivo di auto-rafforzamento.
Quale ruolo avranno le cosiddette città-Stato nello stabilire relazioni tra potenze commerciali e indirizzare il futuro sviluppo internazionale?
Nel libro ho parlato del ritorno della Lega anseatica, l’associazione commerciale europea medievale fra potenti Città-Stato, che si contraddistinse per l’aumento del libero scambio reciproco pur rimanendo protetta e sicura contro le ingerenze del Sacro Romano Impero. Penso che ci stiamo muovendo verso quei luoghi che ho avuto modo di definire ‘isole di stabilità’. L’espressione ‘isole di stabilità’ non rimanda letteralmente a un’isola in senso concreto, quanto piuttosto a una zona stabile: la Svizzera, ad esempio, è un”isola di stabilità’ pur senza essere propriamente un’isola. Si diffonderanno così networks di zone verdi, di enclavi stabili come Amburgo e Zurigo, Helsinki e Londra, e io ritengo che ciò dipenderà principalmente dall’insieme delle relazioni, ovvero da quanto verrà permesso a persone, beni e talenti di spostarsi in modo da navigare fuori dall’instabilità del resto del mondo.
Riguardo la mobilità urbana?
La mobilità urbana sta registrando interessanti sviluppi: stiamo assistendo a un maggiore spostamento per mezzo di biciclette, veicoli pedonali ed elettrici e scooter. La gente cambia modalità di lavoro, ma vive vicino a dove lavora. Prendiamo come riferimento uno spazio di cinque isolati: nel raggio di cinque isolati nel quale vivete disponete di spazi verdi, di cibo, di possibilità d’intrattenimento o di qualunque altra cosa risulti necessaria? Le persone vorranno vivere in posti dove, in caso di lockdown, pandemia o qualsiasi altra situazione, le risorse di cui avranno bisogno saranno a portata di mano. Stimo che ciò costituirà un importante trend della mobilità.
A proposito delle popup-cities: anche le città e le infrastrutture dovranno migrare?
Le popup-cities sono un argomento che ho trattato nel libro e riguarda la mobilità delle infrastrutture. Un esempio: i campi profughi e le nuove città circolari, di dimensioni contenute, che fanno uso di energia rinnovabile, di raccolta di acqua di riciclaggio, che producono il proprio cibo attraverso colture idroponiche: tutto ciò è permesso a città che si rivelino autosufficienti e che possano anche, letteralmente, essere spostate: case realizzate attraverso stampanti 3D idonee allo spostamento. Credo che, data la crisi climatica, può diventare necessario per le persone spostare le proprie abitazioni: penso ad esempio alle case andate distrutte nell’alluvione in Germania, poi riallocate altrove, sulle colline. Possediamo la tecnologia per realizzare ciò che ho chiamato “mobile real estate” [‘beni immobili mobili’].
Lei scrive che “Europa e America si tengono d’occhio l’una con l’altra per intercettare le idee migliori”. Cosa dovrebbero imparare l’una dall’altra?
In America esiste libertà di movimento all’interno del Paese. Anche l’Europa preserva tale libertà di movimento all’interno dell’area Schengen, nonostante le tensioni dovute alla crisi finanziaria, alla pandemia, e via dicendo: personalmente plaudo all’Europa per aver mantenuto la propria apertura. Essa è diventata un’unione fiscale molto forte: è ora in corso un processo che porterà a far sì che i vari Paesi europei convergano sempre più convintamente negli Stati Uniti d’Europa. Mentre i Green parties plasmano sempre più la politica europea, il Green Deal informerà la cooperazione con la Russia, la Turchia e l’Asia centrale, al fine di aggiornare le loro infrastrutture e il loro sistemi energetici e prepararsi così alle prossime migrazioni di massa. L’America ha bisogno di imparare a essere più accessibile, a concedere un maggior numero di ingressi, a costruire un sistema di welfare efficace, a dotarsi di migliori infrastrutture. Penso che vi sia molto ancora che l’Europa possa imparare dall’America e, viceversa, che l’America possa imparare dell’Europa, che entrambe abbiano da imparare dall’Asia e che la stessa Asia ha, a sua volta, imparato dall’Europa e dall’America. Questi tre principali sistemi – americani, europei e asiatici – rappresentano la maggioranza della popolazione umana e le pratiche migliori, che dovrebbero essere condivise tra loro e a livello globale.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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“Le civiltà del passato sono scomparse perché non sono riuscite a adattarsi alla complessità da loro stesse creata. Questo ci suggerisce che la grande missione dell’umanità sta nel saper districare la complessità che abbiamo di fronte; sta nel rilocalizzare, e al tempo stesso nel conservare la nostra connettività globale. Un mondo abitato da comunità più compatte, e sempre pronte alla migrazione, comporterebbe rischi inferiori a quelli che minacciano un mondo abitato da grandi masse di popolazione concentrate in megalopoli costiere, vulnerabili all’innalzamento del livello degli oceani e al diffondersi delle malattie”.