Boomerang fiscale
I Paesi fanno a gara nell'offrire "saldi fiscali" alle multinazionali: questa concorrenza deregolata sta distruggendo il modello sociale dei Paesi europei
I Paesi fanno a gara nell’offrire “saldi fiscali” alle multinazionali: questa concorrenza deregolata sta distruggendo il modello sociale dei Paesi europei
È una di quelle coincidenze interessanti che l’apice della protesta dei gilet gialli in Francia abbia coinciso con il sostanziale affossamento della proposta di tassare con un’aliquota del 3% (una sorta di IVA aggiuntiva) le vendite dei giganti del web (i cosiddetti GAFA) in Europa. La coincidenza è interessante perché la Francia era il Paese che più aveva spinto perché la proposta passasse, proprio mentre, paradossalmente, metteva in atto politiche nazionali in senso opposto. Cerchiamo di capire quali sono i termini della questione, e quali le possibili vie di uscita per un problema che va ben al di là dei confini europei.
In un mondo in cui gli ostacoli ai movimenti di capitali sono sempre più ridotti, la cosiddetta “ottimizzazione fiscale”, vale a dire il trasferimento dei profitti delle imprese multinazionali nei Paesi in cui il fisco è meno esigente, è diventato un fenomeno di dimensioni ragguardevoli, che cambia drasticamente il nostro modo di guardare alla politica economica. Un recente studio di Thomas Tørsløv, Ludvig Wier e Gabriel Zucman ha stimato in oltre 600 miliardi di dollari l’ammontare di profitti che sono stati spostati verso i paradisi fiscali nel 2015, quasi il 40% dei profitti delle multinazionali. A questo gioco eccellono ovviamente le società multinazionali, che per la loro stessa natura trasferiscono risorse (costi e ricavi) oltre i confini nazionali, e possono quindi praticare l’ottimizzazione fiscale. E tra queste multinazionali emergono in particolare quelle specializzate nella fornitura di servizi legati alle tecnologie dell’informazione, come le GAFA, che per definizione hanno pochi attivi materiali.
In testa tra le destinazioni ci sono l’Irlanda (che conta da sola oltre 100 miliardi), Singapore e i Paesi Bassi. Le imprese possono trasferire base imponibile stabilendo la propria attività dove la tassazione è più favorevole, o semplicemente “attribuendo” i profitti del conglomerato alla filiale che vi si trova. In entrambi i casi, il Paese prescelto ne approfitta. Nel primo, perché con l’attività economica vengono investimenti, occupazione, attività economica nell’indotto. Nel secondo, perché comunque, anche se al trasferimento dei profitti non corrisponde un reale aumento dell’attività economica, lo Stato vede aumentare le proprie entrate fiscali e quindi ridursi i vincoli alle politiche pubbliche. È per questo che, con pochissime eccezioni, la maggior parte dei Paesi emergenti e avanzati si è lanciato in una corsa al cosiddetto dumping fiscale. Lo sviluppo forse più eclatante della politica fiscale in tutto il mondo negli ultimi decenni è stato il declino delle aliquote dell’imposta sul reddito delle società. Tra il 1985 e il 2018, l’aliquota media per le società è diminuita di oltre la metà, passando dal 49% al 24%. La corsa ad accaparrarsi a qualunque costo i fattori mobili (il capitale, ma anche le persone fisiche più benestanti, solitamente più mobili e capaci di sfuggire al fisco), ha portato i governi a ridurre i servizi pubblici, e contestualmente ad aumentare il carico fiscale sui fattori non mobili, il lavoro meno qualificato.
La concorrenza fiscale, insomma, è uno dei motori di quell’aumento della disuguaglianza che alla lunga sta erodendo il modello sociale dei Paesi europei. È sintomatico, per tornare alle proteste dei gilet gialli, che dopo aver aumentato il peso del fisco gravante sulla classe media per anni, oggi il governo francese chieda a questa stessa classe media di contribuire alla transizione ecologica mentre la tassazione sui redditi più elevati viene sostanzialmente ridotta, e servizi pubblici e prestazioni sociali (che vanno a beneficio principalmente dei redditi medio-bassi) vengono decurtati.
È interessante notare peraltro che mentre il fenomeno è generalizzato, ed è legato alla sempre maggiore facilità con cui capitale e lavoro qualificato possono muoversi in un’economia globalizzata, per l’Europa esso è esacerbato dall’adesione delle classi dirigenti degli ultimi decenni ad un consenso che faceva dell’efficienza dei mercati il motore della crescita (da qui l’insistenza ossessiva per le riforme strutturali della politica pubblica), e della riduzione del perimetro dello Stato una precondizione per l’ottenimento dell’efficienza stessa.
La teoria economica mostra chiaramente che in un sistema caratterizzato da forte integrazione economica (come l’Ue), la tassazione a livello centralizzato è superiore, in termini di benessere collettivo, alla tassazione decentralizzata (nazionale, nel caso europeo). Allo stesso modo si può facilmente dimostrare che se aumenta l’integrazione economica gli Stati tendono ad aumentare la tassazione sui fattori immobili (lavoro, consumo) in maniera non ottimale.
Una soluzione, cara ai sovranisti di ogni orientamento politico, sarebbe quella di ridurre l’integrazione, di “fermare la globalizzazione”, in modo da recuperare la capacità dello Stato nazione di mettere in atto le proprie politiche fiscali. Tuttavia, oltre all’oggettiva difficoltà di tagliare il cordone che lega ogni sistema economico all’economia mondiale (la tragicommedia della Brexit ne è l’illustrazione migliore), il rifiuto dell’integrazione economica equivale di fatto a buttare il bambino con l’acqua sporca. Isolarsi dalle filiere produttive e finanziarie globali non potrebbe che ridurre il benessere collettivo del Paese che facesse questa scelta.
Come se ne esce allora? Al di là del suo valore simbolico, il progetto di tassazione delle GAFA era una misura probabilmente debole e non ben congegnata. Se è vero che utilizzare come base imponibile le vendite consentiva di evitare la fuga dei profitti, la misura introduceva una distorsione nel sistema, penalizzando le imprese domestiche il cui fatturato si fa principalmente in Europa, a vantaggio delle imprese multinazionali globali (obiettivo principale della misura) che avrebbero potuto “spalmare” la maggiore tassazione sulle attività dell’intero gruppo (l’esenzione per le imprese più piccole, prevista dal progetto, limitava ma non eliminava il problema). Si poneva inoltre, soprattutto per le imprese domestiche, il problema della doppia tassazione: prima le vendite, e poi i profitti. Questo era suscettibile di violare il principio di uguaglianza di fronte all’imposta che è uno dei capisaldi dell’equità dei sistemi fiscali.
La soluzione al problema deve necessariamente essere più radicale. Da qualche anno i paesi dell’Ue hanno sul tavolo una proposta della Commissione di creare una base imponibile comune e consolidata (Ccctb – Common Consolidated Corporate Tax Base). L’idea è semplice e radicale allo stesso tempo: i profitti delle filiali delle imprese multinazionali sarebbero consolidati, e attribuiti in toto al solo Paese di residenza dei quartieri generali. Questo reddito imponibile sarebbe poi ridistribuito tra i Paesi che ospitano le filiali, secondo una formula che tenesse conto della distribuzione geografica del capitale, dei salariati, e delle vendite. Nella versione più radicale, l’imposta sulle società sarebbe armonizzata; ma si può tranquillamente immaginare che, almeno in una prima fase, una volta che la base imponibile è distribuita tra i vari Paesi, ognuno di questi mantenga il controllo sul proprio sistema di tassazione. È interessante peraltro notare che un tasso unico di imposizione consentirebbe con più facilità di allocare almeno una parte delle entrate fiscali al finanziamento della capacità fiscale centralizzata di cui si discute in questi mesi.
Come per altre sue proposte, soprattutto quelle che delineano un’evoluzione in senso federale, la Commissione ha molte difficoltà anche solo a far discutere il Ccctb; i paesi che oggi traggono benefici dalla concorrenza fiscale si oppongono drasticamente alla misura. In un’Ue in cui gli interessi nazionali sono sempre più spesso anteposti, in modo miope, a quelli comuni, qualunque soluzione che contempli più potere al livello “federale” ha vita difficile. Ma tutto, dalla teoria economica alle grandi tendenze dell’economia, sembra puntare ad una scelta non più rinviabile. Se si vuole provare a salvare il sistema sociale dei Paesi Ue, e la capacità di finanziarlo, si deve invertire la corsa al dumping fiscale che mette sempre più in pericolo le nostre società. L’Europa deve dotarsi di un sistema fiscale centralizzato, che abbia le caratteristiche delineate sopra, e che consenta infine di chiamare capitale e grandi imprese multinazionali a contribuire al progresso sociale ed economico delle nostre società.
Questo articolo lo trovate nel magazine cartaceo eastwest in edicola.
I Paesi fanno a gara nell’offrire “saldi fiscali” alle multinazionali: questa concorrenza deregolata sta distruggendo il modello sociale dei Paesi europei
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di geopolitica
Abbonati per un anno alla versione digitale della rivista di geopolitica