Sfida tra titani
Romano Prodi descrive in esclusiva per noi la differenza tra la leadership cinese e quella americana
Romano Prodi descrive in esclusiva per noi la differenza tra la leadership cinese e quella americana
Stati Uniti e Cina sembrano aver trovato un interesse comune da perseguire nell’ambito di due economie nel cui seno, benché rimangano ancora più che floride se paragonate a quelle del resto del mondo industrializzato, iniziano tuttavia a risuonare i pericolosi scricchiolii di un possibile cedimento.
Così tanto Xi Jinping, spaventato da un tasso di sviluppo sceso ad un livello del 6% impensabile sino a poco tempo fa, che Trump, allarmato dalle recenti oscillazioni di Wall Street, danno al momento prova di buona volontà nel cercare di risolvere il problema del contenzioso sui dazi con una soluzione negoziata accettabile per entrambi.
La tregua nel settore economico non interessa però che uno dei tanti settori di una sfida che ha per posta la leadership mondiale e contrappone in ogni campo l’americano detentore del titolo allo sfidante cinese.
Nell’ambito politico e in quelli militare, tecnologico, diplomatico e culturale − in alcuni dei quali peraltro la superiorità Usa rimane ancora schiacciante − il confronto fra i colossi rimane quindi completamente aperto, dando vita ad un duello senza esclusione di colpi che alterna momenti più tranquilli a punte di tensione a volte elevate e improvvise.
A complicare le cose vi è da considerare come lo scontro fra i due contendenti non sia affatto monolitico ma si articoli in realtà su ben tre differenti livelli.
Il primo è il contrasto tra due uomini, Trump e Xi Jinping, tenuti entrambi a dimostrare a quella opinione pubblica, nazionale o di partito, che ne ha permesso l’ascesa, di essere indispensabili e unici, quindi insostituibili, nonché capaci nelle più diverse circostanze di decisioni che riescano a salvaguardare gli interessi vitali del rispettivo Stato nel complesso scenario internazionale.
In questa sfida, almeno apparentemente, Trump appare più vulnerabile del suo rivale e per il carattere democratico del suo elettorato e per il modo in cui nonostante i suoi roboanti proclami gli Usa rimangono una potenza in declino. Un fatto di cui egli stesso è ben conscio nel momento in cui utilizza il motto Make America great again e in quell’ “again ” vi è una piena ammissione di decadenza.
Da considerare in ogni caso come i dittatori rimangano colossi dai piedi d’argilla, e come in una dittatura che in fondo è più dittatura di Partito che dittatura di uomini, come nel caso cinese, anche la sopravvivenza di XI Jinping dipenda in ultima analisi proprio dai risultati conseguiti. Una considerazione che porta a valutare come pienamente equilibrato il confronto fra i due protagonisti.
Il secondo livello di contrasto è quello dei due colossi che si oppongono l’uno all’altro, vale a dire la Cina e gli Stati Uniti.
Si tratta di due avversari di cui uno, la Cina, si muove spinto dal sogno di un benessere diffuso di elevato livello. Un sogno per la cui realizzazione Pechino ha bisogno dell’Occidente ma che resta di difficile realizzazione a causa del perdurante risentimento per i cento e passa anni di cocenti umiliazioni cui l’Occidente sottopose l’Impero di mezzo nei tempi andati. E quanto possano essere condizionanti e durature le antipatie cinesi lo constatiamo ogni giorno nell’ambito del rapporto ancora molto teso fra Tokyo e Pechino!
Gli Usa, per contro, vivono oggi un momento particolarmente schizofrenico della loro storia. Da un lato infatti vorrebbero poter pensare soltanto a se stessi, di nuovo vittime di una di quelle ricorrenti ondate di isolazionismo che hanno condizionato momenti importanti dell’esistenza americana. Dall’altro, sono ben consci di come il primato statunitense nel mondo dipenda in primo luogo dal fatto che tutti gli altri siano disposti a riconoscerlo e ad accettarlo. Sono quindi sempre protesi a cercare di imporre la propria volontà, magari anche quando si tratta di rapporti con alleati e amici e di contrasti in cui sarebbe forse più facile trovare un punto di intesa qualora si agisse in maniera maggiormente conciliante.
Lo scontro fra due rivali con i nervi a fior di pelle, rischia così di essere e di rimanere un confronto particolarmente pericoloso e continuamente soggetto al rischio di fiammate improvvise e devastanti.
Per fortuna, ed è questo il terzo livello di cui prendere atto, i modi in cui i due grandi Paesi sono abituati ad esercitare la propria leadership sono fra loro completamente diversi, cosa che sino ad ora ha prodotto un effetto flemmatizzante.
Gli Usa prediligono infatti una leadership verticale, gerarchica, facilmente rappresentabile con una piramide che ha al proprio vertice un Mr. President, abituato a trovare un limite ai propri poteri soltanto nel sistema di controlli ed equilibri previsto dalla Costituzione. Nei momenti di particolare tensione poi, quando Mr. President è identificato con il Commander in Chief , anche i valori costituzionali possono essere momentaneamente e parzialmente messi da parte senza reazioni di rilievo da parte dell’opinione pubblica, come successe dopo l’episodio delle Torri Gemelle.
La Cina invece promuove da sempre una leadership a rete, diretta a creare un sistema molto articolato in cui però chi più conta sarà sempre colui che occupa il centro. In questo sistema il detentore della leadership mirerà costantemente a operare per convinzione più che per il tramite della forza, cercando di coinvolgere e di cooptare gli elementi più periferici ogni qualvolta ciò sia necessario. Si tratta di un processo che certo non esclude l’uso della violenza ma lo valuta costantemente solo come lo strumento di ultimo ricorso.
Non è un caso che da sempre la Cina parli di se stessa come dell'”Impero di mezzo”, del “Paese indispensabile”, del “Perno del tutto”. E non è affatto un caso, ma piuttosto l’espressione di un raffinato disegno politico, il fatto che la straordinaria iniziativa One Belt , One Road lanciata da Pechino in tempi relativamente recenti risponda pienamente alle caratteristiche di questa leadership del coinvolgimento che per la prima volta la Cina prova ad estendere ad una scala mondiale.
Il contrasto fra i due Paesi sarà quindi anche, e forse soprattutto, un contrasto fra due stili di leadership in cui gli Usa, ancorati ad un cliché piramidale, non più adatto in un mondo ove globalizzazione, informatica e robotica stanno sempre via via imponendo una leadership a rete, partono probabilmente con un leggero svantaggio che potrebbe però risultare compensato dal primato militare, tecnologico e culturale di cui godono.
Almeno in teoria, quindi, lo sfidante Cina sarebbe da considerare come favorito, soprattutto nella scadenza media e in quella lunga, rispetto ai detentori del titolo, sperando sempre che ciò non induca negli Usa quelle reazioni che a suo tempo Tucidide descrisse così bene illustrando la rivalità fra ateniesi e spartani.
Curiosamente c’è comunque anche da osservare come la leadership americana molto si apparenti nelle sue caratteristiche a quella che è sempre stata la leadership maschile, gerarchica, piramidale e competitiva. La leadership cinese è per contro leadership della convinzione e del coinvolgimento, con il protagonista che invece che mirare al vertice tende ad occupare il centro della rete. Una leadership di tipo femminile, insomma.
Una conclusione da cui si potrebbero trarre due considerazioni. La prima è che la leadership femminile, più idonea di quella maschile alle nuove necessità, è destinata alla lunga a prevalere. E il cambiamento sarebbe veramente epocale!
La seconda è che la Cina è femmina, con tutto ciò che ne consegue.
Ma queste due ultime affermazioni sarà forse bene condizionarle entrambe con un punto interrogativo, rimandandone la discussione ad altra occasione!
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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