La naturale pulsazione tra periodi glaciali e periodi interglaciali ha subito un’accelerazione: da 150 anni a questa parte la Terra si sta scaldando a un ritmo senza precedenti. La paura è che superi il limite vivibile per l’homo sapiens
Chissà cosa penserebbe oggi Charles Keeling, lo scienziato statunitense che esattamente 60 anni fa decise di installare un osservatorio per la misura della CO2 su un’isola vulcanica nel mezzo dell’Oceano Pacifico. In pochi anni di misure aveva già osservato che questo gas cresceva di anno in anno, verificando così il sospetto di molti scienziati: che le emissioni antropiche di anidride carbonica stessero alterando la composizione dell‘atmosfera.
Oggi, dopo 6 complessi rapporti dell’International Panel for Climate Change (IPCC), e dopo circa 88mila studi pubblicati su riviste scientifiche, la scienza non ha più dubbi: la Terra si sta scaldando, ma soprattutto lo sta facendo a un ritmo che non ha precedenti nel registro naturale della geologia. La causa dell‘alterazione dei processi naturali è umana, e ci sono sempre più evidenze che mostrano un‘accelerazione dei cambiamenti ambientali.
Come ciò avvenga è ormai ripetuto costantemente sui quotidiani, alla televisione, nei social, ma anche al bar. Una grande quantità di carbonio è stata sottratta in milioni di anni all’atmosfera nelle epoche passate, un’energia colossale, conservata in giacimenti di carbone, petrolio, gas, che ora noi, per il nostro benessere, ma con grandi sprechi, restituiamo all’atmosfera nel giro di un secolo o due.
A questo si sono aggiunte pratiche agricole, forestali, o comunque di cambiamento del suolo e del territorio che contribuiscono per quasi un terzo alle emissioni di gas climalteranti (in prevalenza metano e anidride carbonica).
Perché dovremmo preoccuparci, e fare qualcosa come ormai una grossa fetta dell’opinione pubblica chiede ai decisori politici, è comprensibile guardando i dati più recenti. Cosa e come fare, è invece assai più complesso e non sono bastate 26 Conferenze delle Parti (Cop) per muovere passi decisivi verso la sostenibilità ambientale e climatica.
I dati mostrano chiaramente un picco nella concentrazione di CO2 atmosferica a partire da 150 anni fa. Un salto in su in quello che negli ultimi 800mila anni sembrava una naturale pulsazione tra periodi glaciali e periodi interglaciali. Un picco che ora allarmerebbe qualunque dottore in una sala operatoria, se si trattasse di un battito cardiaco.
Guardando ancora più indietro, sappiamo ora che la CO2 di oggi non è mai stata così elevata negli ultimi 3-4 milioni di anni. In quel periodo l’atmosfera era così ricca del principale gas serra, che la temperatura terrestre era di 3-4 gradi più elevata di ora e il livello marino era di 20 metri più elevato. La calotta antartica si stava formando ma sul continente crescevano ancora alcune specie di faggio. Gli scienziati sospettano che la temperature terrestre si stia lentamente adeguando a questi livelli di C02.
La temperatura terrestre aumenta, anch’essa, a un ritmo anomalo ed è proprio nella velocità del processo che si riconosce l’impronta umana. Negli ultimi duemila anni la temperatura ha avuto lievi oscillazioni, che comunque sono state registrate dai ghiacciai e nella storia umana, ma è solo a partire da neanche centocinquanta anni fa che la temperatura è aumentata di un grado centigrado abbondante. E di più di due gradi nelle regioni artiche e in diverse regioni montane o del centro-Asia.
Se la temperatura non è aumentata ulteriormente lo dobbiamo agli oceani. Uno studio del 2019 dell’Università di Oxford concludeva che: “Nell’ultimo secolo, l’aumento delle emissioni di gas serra ha generato un eccesso di energia nel sistema terrestre. Più del 90% di questo eccesso è stato assorbito dall’oceano”. Anche qui i dati mostrano una accelerazione: negli ultimi 2000 anni il livello marino è salito naturalmente e di 0.2 millimetri l’anno. Nel 1900 la risalita è stata annualmente di 1.7 millimetri, mentre nelle ultime decadi questa è di 3 millimetri l’anno. Un valore per noi forse apparentemente modesto. Ma che, sempre che non continui ad accelerare, causerà problemi alle generazioni future.
Per noi umani le evidenze si misurano con sensori o modelli matematici, ma la natura ha il suo modo di misurare e provare ad adattarsi ai cambiamenti ambientali. Anche queste sono evidenze del cambiamento in atto.
Gli uccelli migrano prima e anche le loro rotte di migrazione stanno cambiando. Aragoste e altre specie marine si spostano verso nord. Diverse specie di insetti di montagna vivono ad altitudini sempre più elevate. Le piante europee fioriscono prima in primavera. Il 52% dei piccoli ghiacciai della Svizzera potrebbe scomparire entro i prossimi 25 anni. Nel massiccio del Monte Bianco il periodo di copertura nevosa a quote di media montagna è diminuito di quasi un mese dal 1970. La calotta di ghiaccio della Groenlandia si sta sciogliendo ad un ritmo sempre più rapido. Un documento dell‘Università di Princeton mostra “prove crescenti che il cambiamento climatico sta probabilmente alimentando uragani e tifoni più potenti”.
Studiando dati e studi su come sta cambiando il Pianeta e gli organismi che lo popolano, insomma, si osservano innumerevoli trasformazioni in atto, legate in qualche modo all’aumento di temperatura.
Nell’ultimo rapporto dell’IPCC si legge: “Il cambiamento climatico sta già influenzando molti estremi meteorologici e climatici in ogni regione del mondo”. Gli estremi si stanno estremizzando. E quindi è chiaro che non è più il momento di parlare di un possibile futuro, ma di un presente.
In breve: un’atmosfera più calda può anche trattenere più umidità, con il risultato di piogge più estreme che aumentano il rischio di inondazioni. Aumenta però anche l’evaporazione, che porta a siccità più intense.
Basti solo ricordare gli ultimi tre anni. L’attenzione generale è stata la pandemia di Covid-19, ma questa è stata accompagnata da eventi meteorologici estremi mortali in tutto il mondo. Ci sono stati gli incendi estesi dalla Siberia all’Australia nel 2020: forse il “peggiore disastro naturale della storia moderna”, secondo Dermot O’Gorman, presidente del WWF Australia. E poi le ondate di calore estremo in Pakistan nel 2019 e 2021, oltre il limite vivibile per l’Homo sapiens. O le piogge eccessive e inondazioni improvvise nel Nord Europa nell’estate del 2021.
Dal 1951 ad oggi i record climatici di freddo si sono ridotti e sono una rarità, mentre quelli di caldo sono in generale aumento.
Di fronte ad un pianeta che cambia ad alta velocità preoccuparsi è ragionevole. A rischio ci sono i sistemi produttivi agricoli, molte infrastrutture, ma anche la salute umana. È anche per questo che molti Paesi del sud del mondo si sono detti molto turbati durante la ultima CoP a Glasgow. Il cambiamento climatico pone anche dei rischi ai Paesi in transizione economica, e l’Asia (ma anche l’Africa) può essere più colpita di altre economie avanzate dell’emisfero settentrionale.
Ma anche l’Europa fa bene a preoccuparsi. Secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) verso la fine del secolo il valore dei terreni nelle aree meridionali d’Europa, quindi in Italia, potrebbe crollare dell’80%. La produzione agricola, a livello europeo, dovrebbe ridursi del 16% nei prossimi trent’anni. Per quanto il sistema produttivo non sia a rischio totale di collasso, l’agenzia europea dice che dobbiamo attenderci un rincaro dei prezzi.
Alcuni analisti sottolineano le ricadute positive di vivere in un pianeta surriscaldato. Un clima più caldo offrirebbe, specialmente alle latitudini settentrionali, stagioni di crescita più lunghe e più precoci (ma un disastro nelle regioni tropicali). La riduzione della banchisa aprirà nuovi passaggi per le navi. Inverni più caldi significano meno morti causate dal freddo, e riduzioni nei consumi energetici per il riscaldamento (ben compensati altrove con aumenti per la refrigerazione o l’aria condizionata). L’aumento dei livelli di anidride carbonica fertilizza le piante (se non sono stressate dalla siccità). Molti di questi benefici sono però a breve termine e sono minori rispetto agli impatti negativi che il cambiamento climatico porta con sé.
Alla fine oltre a vivere in un pianeta più instabile è anche una faccenda di costi. Prendiamo il caso delle inondazioni: tra il 1980 e il 2011 le inondazioni hanno colpito più di 5,5 milioni di persone e causato perdite economiche dirette per più di 90 miliardi di euro a livello globale. È dunque evidente che un aumento di eventi meteorici estremi aumenterà perdite umane ed economiche.
I settori che dipendono fortemente da certe temperature e livelli di precipitazioni come l’agricoltura, la silvicoltura, l’energia e il turismo sono particolarmente colpiti.
Oltre ai costi c’è da fare i conti con una comunità umana sempre più stressata. Si prevede che il cambiamento climatico manderà fino a 16 milioni di persone al di sotto della soglia di povertà e, probabilmente, milioni di persone saranno costrette a lasciare la loro patria.
In breve: “Il rischio climatico è un rischio sistemico e può essere affrontato solo a livello globale. Abbiamo ancora l’opportunità di correggere la rotta ora e costruire un mondo che sarà più verde, più sostenibile e più resiliente”, a pronunciare queste parole non è stato un’attivista ambientale o una scienziata preoccupata, ma Jérôme Haegeli, Chief Economist di Swiss Re, forse il principale fornitore mondiale di riassicurazione e altre forme di trasferimento del rischio basate sull’assicurazione.
La buona notizia è che qualcosa si può fare per limitare i danni e dare più tempo ai nostri sistemi economici, energetici e sociali per adattarsi. La grossa differenza è in quel mezzo grado che separa 1.5°C e 2°C e su cui la scienza insiste (attualmente stiamo procedendo verso temperature più elevate).
Un evento di calore estremo che si è verificato una volta al decennio fino agli anni 1970, accadrebbe 4 volte al decennio a 1,5°C di riscaldamento, e 5 volte a 2°C, secondo il pannello di scienze climatiche delle Nazioni Unite (IPCC).
“A 1,5°C, c’è una buona possibilità di evitare il collasso della maggior parte della calotta glaciale della Groenlandia e dell’Antartide occidentale”, ha detto lo scienziato del clima Michael Mann della Pennsylvania State University. Dai due gradi in su il collasso è molto probabile (anche se sui tempi ci sono ancora incertezze).
Un riscaldamento di 2°C comporterebbe una perdita del 7% dei raccolti di mais nelle regioni tropicali. La perdita sarebbe del 3% se si restasse sotto 1.5°C.
Un riscaldamento di 1,5°C distruggerebbe almeno il 70% delle barriere coralline, ma a 2°C le potremmo dare per estinte. Questo distruggerebbe gli habitat dei pesci e le comunità che dipendono dalle barriere coralline per il loro cibo e i loro mezzi di sussistenza.
Se continuiamo nella traiettoria attuale le regioni aride in area mediterranea cresceranno di più del doppio, mentre se ci daremo da fare per rispettare gli Accordi di Parigi potremmo rimanere a un livello simile a quello attuale.
A seconda delle nostre scelte nei prossimi 80 anni potremo ridurre le perdite, adattarci, e nel frattempo migliorare la qualità della nostra vita, offrire nuove possibilità di lavoro, un’aria e un ambiente urbano più salubri, nuove tecnologie e perfino una riduzione delle importazioni di energia.
Finora, gli impegni climatici che i paesi hanno presentato al registro degli impegni delle Nazioni Unite mettono il mondo sulla strada per 2,7°C di riscaldamento. Nel frattempo il Pianeta sembra accelerare il passaggio ad un clima più caldo. E dunque quanto fatto fino ad oggi non è sufficiente ma l’apprensione della società civile sta crescendo e la risposta dei decisori e dell’industria potrebbe finalmente farsi sentire.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.