Russia: il veleno di Navalny – L’inchiesta [Parte 1]
In Russia la repressione della libertà di parola è sistematica ma la resilienza delle voci indipendenti, anche grazie alla solidarietà internazionale, è contagiosa
In Russia la repressione della libertà di parola è sistematica ma la resilienza delle voci indipendenti, anche grazie alla solidarietà internazionale, è contagiosa
Sergei Smirnov è il direttore del giornale online MediaZona ed è stato arrestato il 30 gennaio scorso mentre passeggiava per Mosca con suo figlio. È stato accusato di aver partecipato alle manifestazioni del 23 gennaio, le prime indette dopo l’arresto dell’oppositore Alexei Navalny. Smirnov però quel giorno non era a protestare, lavorava, e non era neppure per strada a seguire i cortei. Smirnov era in redazione a coordinare il lavoro dei suoi inviati. Lo ha dimostrato senza troppi problemi, i testimoni erano molti, ma Smirnov andava comunque condannato. La partecipazione era un pretesto troppo debole, e così ne è spuntato fuori un altro, assurdo. Il direttore è stato accusato di aver incitato i manifestanti a scendere in piazza e a prendere parte a manifestazioni non autorizzate attraverso un tweet, anzi, attraverso un retweet. Il giornalista qualche giorno prima aveva condiviso un post in cui veniva preso in giro per la sua somiglianza con Dmitri Spirin, musicista punk del gruppo Tarakany, Scarafaggi. Nella foto condivisa, Spirin diceva di sostenere Alexei Navalny e dava appuntamento agli altri sostenitori per le manifestazioni del 31 gennaio, indicando giorno e ora della protesta. Quel tweet è bastato per dimostrare, secondo la giustizia russa, non soltanto che Smirnov fosse dalla parte dell’oppositore, ma che incitava anche le persone a manifestare. Il giornalista è stato condannato a 25 giorni di carcere – la condanna è stata successivamente ridotta a 15 – e portato, a causa del sovraffollamento imprevisto delle prigioni, nel centro di detenzione temporanea per stranieri a Sakharovo in cui, in una cella per otto persone, sono stati raccolti lui e altri 27 ragazzi, tutti presenti alle proteste contro il Cremlino. Colpire il giornalista voleva non tanto essere un messaggio per lui e il suo sito – che si occupa prevalentemente di giustizia e di inchieste sul sistema penale russo: è stato fondato da due membri del gruppo punk Pussy Riot, famoso per le performance contro il governo russo e la chiesa di Mosca – ma un esempio per tutti i giornalisti, per tutta la categoria impegnata a raccontare le proteste di quei giorni.
Televisione e stampa
In Russia il Governo controlla tramite società statali o oligarchi vicini al Cremlino tutte le reti televisive nazionali, molte emittenti radiofoniche e gran parte delle testate cartacee. Un piccolo spazio di informazione libera si è aperto su internet, dove c’è anche più possibilità di operare dall’estero. Dall’estero, per esempio, lavora il sito di notizie indipendente Meduza, disponibile in inglese e in russo, e con la redazione in Lituania. È un modo per conservare l’indipendenza, per evitare attacchi e irruzioni negli uffici da parte della polizia. Nel 2019, il giornalista di MeduzaIvan Golunov, collaboratore da Mosca, è stato arrestato per presunto possesso di droga. Il ministero dell’Interno aveva anche diffuso foto del presunto appartamento di Galunov pieno di sostanze illegali, ma dalle immagini il giornalista e i suoi amici non hanno riconosciuto l’appartamento. La gaffe era stata talmente eclatante che anche il portavoce del Cremlino era intervenuto per dire che durante l’indagine erano stati compiuti degli errori. Le foto diffuse erano dell’appartamento di una banda di trafficanti. Galunov è un giornalista locale e il suo arresto aveva scatenato una reazione inaspettatamente grande. Ci sono state proteste da parte dei cittadini e anche le altre testate avevano dimostrato una grande solidarietà. Il giorno dopo l’arresto, tre quotidiani, Kommersant, Rbc e Vedomosti, erano usciti con la stessa identica prima pagina con la scritta: “Io, noi siamo Ivan Golunov”. Il giornalista è stato rilasciato dopo poco tempo e dietro al suo arresto pretestuoso più che il Cremlino, secondo le ricostruzioni di alcune inchieste indipendenti, ci sarebbe la polizia locale, più volte finita al centro delle inchieste di Galunov. Ma, per quanto non ci fosse il Cremlino dietro alla vicenda del giornalista di Meduza, il caso ha fatto venire fuori un altro degli aspetti complicati e pericolosi del mestiere del giornalista in Russia, dove la pressione nei confronti dei media è aumentata, in modo graduale, negli ultimi anni: che la repressione è trasversale, colpisce testate piccole e grandi, nazionali e locali.
Una delle ultime leggi con cui la Duma ha cercato, riuscendoci, di indebolire la libertà di stampa in Russia è stata quella che ha imposto di limitare al 20% le quote di proprietà straniera nei media. L’azienda tedesca Springer ha dovuto vendere l’edizione russa di Forbes ad Aleksandr Fedotov, che ha iniziato a stravolgere la redazione e il suo lavoro. Il nuovo editore, vicino al Cremlino, ha allontanato giornalisti, cacciato vari direttori, e anche diminuito le inchieste, la vera essenza della rivista. Forbes Russia era una testata molto riconosciuta anche a livello internazionale che vantava firme importanti, come il giornalista, oggi a Bloomberg, Leonid Bershidsky. Un altro giornale il cui valore e la sua rilevanza sono stati risucchiati dall’ansia del Cremlino di neutralizzare il pluralismo è Vedomosti. Una testata importante che si occupa soprattutto di economia ma che ha perso il suo carattere indipendente con l’arrivo del nuovo direttore Andrei Shmarov, nominato dai nuovi proprietari lo scorso anno, che ha abolito le inchieste sulla gestione della compagnia petrolifera Rosneft e la pubblicazione dei sondaggi sul consenso, in calo, del presidente Vladimir Putin. Vedomosti nasce come parte di un consorzio internazionale, era stato fondato come costola russa del Wall Street Journal, poi venne acquisito dalla finlandese Sanoma ma, per effetto della legge che limita la quota di proprietà straniera, è poi stato ceduto a Ivan Yeremin, uomo d’affari vicino al Cremlino. Questo è un copione tipico, che per esempio anche Viktor Orbán in Ungheria ha adottato, per limitare la libertà di stampa nel suo paese.
Le vicissitudini di Vedomosti poi hanno però fatto nascere una storia di resistenza che racconta quanto sia grande la voglia di una stampa libera in Russia. Cinque giornalisti della testata economica hanno abbandonato la redazione e deciso di dare inizio a un nuovo progetto. Lo scorso anno hanno fondato VTimes assieme all’ex vicedirettore, Alexander Gubski. Vtimes ha oggi una partnership con il Financial Times, è una voce indipendente appena nata, che cerca di ospitare commenti internazionali, affrontare in maniera critica la complessità dell’attualità russa. Le testate ancora in grado di operare liberamente in Russia sono poche. Novaya Gazeta, il periodico che esce tre volte a settimana e che per il momento ha il triste primato del numero più alto di giornalisti e collaboratori uccisi, tra i quali Anna Politkovskaya, è una delle voci indipendenti che rimane in Russia. La sua proprietà è detenuta dalla fondazione Novaya Gazeta e da alcune figure di spicco della società russa come Mikhail Gorbachev.
La televisione rimane la fonte di informazione più popolare e anche quella su cui il Cremlino ha il controllo totale. I canali governativi seguono l’agenda del presidente Putin, la propaganda del Cremlino, riempiono gli studi dei talk-show con commentatori pronti a confermare la linea del governo. Negli ultimi mesi, mentre al centro del dibattito internazionale c’era la figura dell’oppositore russo Alexei Navalny, avvelenato mentre era in viaggio per motivi di campagna elettorale in Siberia, i salotti della tv di stato escludevano la notizia dall’ordine del giorno. Per Navalny c’è stata poi una grande mobilitazione internazionale, dopo grandi pressioni, l’oppositore è stato trasferito in Germania e curato, e tre laboratori di analisi europei, uno tedesco, uno francese e uno svedese, hanno confermato che Navalny era stato avvelenato con un agente nervino, il Novichok. Putin, già noto per non fare mai il nome di Navalny, aveva preso a chiamarlo “il paziente di Berlino” e lo stesso appellativo veniva utilizzato dai canali televisivi.
Il potere di Internet
Alexei Navalny è un personaggio molto controverso, che ha militato in vari ambienti politici ma che ha visto aumentare la sua popolarità dopo aver messo in piedi la sua Fondazione anticorruzione, un’organizzazione che si occupa di indagare fino a che punto è estesa la corruzione nel Governo russo. L’avvocato moscovita è diventato famoso con i suoi antitelegiornali. Sul suo canale YouTube, ogni giovedì, andava in onda con i suoi notiziari in cui trasmetteva le notizie che i canali di stato non dicevano. Esordiva così: “Buonasera, a Mosca sono le 20 e va in onda la Russia del futuro. Ciao a tutti, sono Navalny, colui che non può essere nominato”. Mentre i telegiornali raccontavano di economia florida, della centralità della Russia sul panorama internazionale e di tutte le notizie su Putin: i suoi cani, le sue partite a hockey, i suoi incontri con gli studenti, Navalny raccontava di omicidi, dell’avvelenamento a Salisbury da parte di agenti dell’intelligence militare russa ai danni di un ex spia, del grande scandalo delle mense scolastiche in cui veniva servito del cibo avariato. A guardare questo antitelegionale erano soprattutto i più giovani, molti hanno iniziato così ad aprire a loro volta canali YouTube, e internet è diventato il rifugio dell’opposizione e di tutti coloro che volevano ascoltare una voce diversa da quella della propaganda. Propaganda che in Russia è diffusa dalla televisione e all’estero dal canale RT, prima Russia Today, l’emittente che riporta in cinque lingue notizie sulla Russia attraverso la narrazione del Cremlino.
La grande potenzialità della rete, come nuovo punto di informazione per le nuove generazioni, il Governo russo l’ha intuita da un po’: la rete è un mondo parallelo e Mosca aveva coltivato l’idea di chiuderla e istituire un internet sovrano sul modello di Pechino. Le imprese cinesi avevano anche offerto il loro sostegno al Cremlino, ma il progetto, oltre a essere stato accolto da molte manifestazioni di protesta, si era rivelato molto costoso ed era stato accantonato. È tornato ora che il presidente russo sta affrontando nuove ondate di dissenso, un dissenso che nasce online e che poi si trasferisce sulla strada. Dopo i grandi cortei per chiedere la liberazione di Alexei Navalny, che si è rivelato bravissimo come tutti i suoi sostenitori a far correre le informazioni sulla rete, i funzionari russi hanno ripreso a parlare dell’istituzione di un internet russo. “Siamo pronti”, ha detto l’ex presidente ed ex premier Dmitri Medvedev.
La libertà di parola in Russia è tutelata dalla Costituzione, ma finora i modi di aggirarla che il Cremlino è riuscito a trovare sono stati molti, spesso ha fatto ricorso anche a leggi contro l’estremismo che concedono alle autorità una grande discrezionalità per reprimere qualsiasi discorso, organizzazione o attività che sono contro la propaganda ufficiale. Come già accaduto a molti media esteri, come la testata americana Radio Free Europe/Radio Liberty, ora anche i giornalisti indipendenti russi rischiano di essere bollati come “agenti stranieri”, un’etichetta di discendenza sovietica che oltre a mettere in cattiva luce l’informazione non conforme al governo, rende i giornalisti sorvegliati speciali.
Durante le ultime proteste le due associazioni che monitorano e tutelano la stampa in Russia, JMWU e RUJ, rispettivamente l’Unione russa dei giornalisti e dei lavoratori dei media e l’Unione russa dei giornalisti, hanno riportato almeno 120 casi di detenzioni tra i giornalisti che seguivano i cortei per la liberazione di Alexei Navalny, anche con regolare accredito. Gli agenti delle forze dell’ordine hanno arrestato reporter dei principali media russi e internazionali, (come Kommersant, Radio Svoboda, Novaya Gazeta, RBK, Ekho Moskvy) e di media piccoli o regionali (Baza, Open Media, Kholod, MBKh Media, Sota.Vision, RusNews, Activatica, Karavan, il canale Shtab, Navalny LIVE, Rabochaya Democracy, Reporter-NN, Yakutia.Info, Udm-info). Ma oltre alle notizie di repressione, arrivano le storie di un giornalismo che è in grado non soltanto di coalizzarsi con altre testate, anche internazionali, ma soprattutto di parlare dentro e fuori la Russia. Così sono nate inchieste importanti, come quella condotta dalle testate Bellingcat (britannica), The Insider (russa), Der Spiegel (tedesca) che ha portato a scoprire i nomi degli avvelenatori di Alexei Navalny, le facce, gli indirizzi, i movimenti di quella poison squad dell’Fsb che ha seguito per anni l’oppositore e altri critici del Cremlino nel tentativo di avvelenarli.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
In Russia la repressione della libertà di parola è sistematica ma la resilienza delle voci indipendenti, anche grazie alla solidarietà internazionale, è contagiosa
Sergei Smirnov è il direttore del giornale online MediaZona ed è stato arrestato il 30 gennaio scorso mentre passeggiava per Mosca con suo figlio. È stato accusato di aver partecipato alle manifestazioni del 23 gennaio, le prime indette dopo l’arresto dell’oppositore Alexei Navalny. Smirnov però quel giorno non era a protestare, lavorava, e non era neppure per strada a seguire i cortei. Smirnov era in redazione a coordinare il lavoro dei suoi inviati. Lo ha dimostrato senza troppi problemi, i testimoni erano molti, ma Smirnov andava comunque condannato. La partecipazione era un pretesto troppo debole, e così ne è spuntato fuori un altro, assurdo. Il direttore è stato accusato di aver incitato i manifestanti a scendere in piazza e a prendere parte a manifestazioni non autorizzate attraverso un tweet, anzi, attraverso un retweet. Il giornalista qualche giorno prima aveva condiviso un post in cui veniva preso in giro per la sua somiglianza con Dmitri Spirin, musicista punk del gruppo Tarakany, Scarafaggi. Nella foto condivisa, Spirin diceva di sostenere Alexei Navalny e dava appuntamento agli altri sostenitori per le manifestazioni del 31 gennaio, indicando giorno e ora della protesta. Quel tweet è bastato per dimostrare, secondo la giustizia russa, non soltanto che Smirnov fosse dalla parte dell’oppositore, ma che incitava anche le persone a manifestare. Il giornalista è stato condannato a 25 giorni di carcere – la condanna è stata successivamente ridotta a 15 – e portato, a causa del sovraffollamento imprevisto delle prigioni, nel centro di detenzione temporanea per stranieri a Sakharovo in cui, in una cella per otto persone, sono stati raccolti lui e altri 27 ragazzi, tutti presenti alle proteste contro il Cremlino. Colpire il giornalista voleva non tanto essere un messaggio per lui e il suo sito – che si occupa prevalentemente di giustizia e di inchieste sul sistema penale russo: è stato fondato da due membri del gruppo punk Pussy Riot, famoso per le performance contro il governo russo e la chiesa di Mosca – ma un esempio per tutti i giornalisti, per tutta la categoria impegnata a raccontare le proteste di quei giorni.
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