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Abenomics, cosa ha significato per il Giappone la strategia di Shinzo Abe


Muore a seguito di un attentato l'ex premier Shinzo Abe, il più longevo di sempre, passato alla storia per la politica economica che avrebbe dovuto risollevare le sorti del Giappone

Dopo aver praticamente estorto, da un elettorato sempre meno interessato e motivato (l’affluenza alle urne 53%) un nuovo mandato che gli consente di governare sino al 2018, Shinzo Abe ha ora la possibilità di mostrare al suo popolo e al mondo intero quanto saggia e vincente sia la sua Abenomics.

Non che finora, ad oltre due anni dal suo lancio ufficiale, abbia mostrato grandi risultati: al di là di promesse e proclami il Giappone è, assieme all’Italia, l’unico Paese in recessione del G8, e in Asia, il continente che cresce globalmente più in fretta, arranca in coda. Non solo dietro la Cina e la Corea, ma anche dietro paesi come la Thailandia, il Laos, le Filippine e l’Indonesia. Tutto previsto, assicurano i sostenitori di Abe: si tratta di una fase di assestamento prima del grande balzo che il Giappone si appresta a compiere nel giro di pochi mesi, per tornare a giocare il ruolo che gli compete all’interno della comunità internazionale. Ma quale ruolo? Proviamo a capirlo, perchè dietro al sogno dell’Abenomics c’è l’incubo dell’Abepolitics.

Dal dopoguerra ci siamo abituati all’immagine del Giappone gigante economico e nano politico: un Paese che grazie a un accordo di sicurezza blindato (e con clausole tuttora segrete) con gli Usa ha potuto e voluto rinunciare a ritagliarsi un ruolo politico in cambio di poter spingere liberamente l’acceleratore dell’economia.

La cosa, fino a qualche anno fa, andava bene a tutti: agli Usa, che con la loro “generosità” iniziale (aver risparmiato l’imperatore Hirohito dalla forca) ritenevano di aver escluso per sempre il ritorno in Giappone di una destra revanscista, assicurandosi un alleato in una zona destinata a ricoprire un ruolo strategico sempre più importante.

Andava bene anche alla maggior parte degli stati vicini, dalla Russia alla Cina, ai paesi del Sud-Est asiatico, tutti d’accordo nello scongiurare un rafforzamento “politico” del Giappone. Un Paese di cui l’Asia, specie quella che ha conosciuto l’occupazione imperiale, fa molta fatica a fidarsi.

Stava bene anche al Giappone. Se non ci fosse stata la complicità di una classe politica miope, arrogante e corrotta come poche altre al mondo, il Giappone sarebbe riuscito a scrollarsi di dosso il pesante abbraccio americano e oggi avrebbe altre opzioni da percorrere piuttosto che il solito nazionalismo per rivendicare un ruolo politico che tutto sommato potrebbe e forse dovrebbe svolgere. Invece no. L’incapacità di riconciliarsi con la storia (responsabilità che il Giappone condivide con gli Usa, che interrompendo a metà il processo di “democratizzazione” e liberando negli anni Cinquanta migliaia di politici e imprenditori coinvolti con il vecchio regime impedirono un vero rinnovo della classe dirigente) e di offrire sincere “scuse” per le malefatte compiute durante le varie “avanzate” (come ancora vengono definite nei libri di testo) continua ad alimentare sospetti, accuse, minacce.

“Il Giappone dovrebbe imparare dalla Germania” ha detto in occasione della sua recente visita a Berlino il Leader cinese Xi Jinping, che non fa mistero della sua antipatia personale nei confronti di Shinzo Abe e non perde occasione per sottolineare quanto lontano sia il Giappone dal processo di legittima “redenzione” ottenuto dalla Germania. Stesso dicasi per la Presidente sudcoreana Park Geun-hye, che da quando è stata eletta, quasi 3 anni fa, si rifiuta persino di parlare al telefono con il Premier giapponese.

Una tensione, quella con la Corea del Sud, che comincia a preoccupare gli Usa, che hanno un trattato di sicurezza e cooperazione militare anche con Seoul. In caso di crisi tra Tokyo e Seoul sarebbe un bel grattacapo per Washington decidere se e come intervenire. Il Giappone del resto è l’unico paese ad avere, 70 anni dopo la fine della guerra, questioni territoriali aperte con tutti i suoi vicini: Russia, Cina, Corea, Taiwan. Segno evidente, al di là della fondatezza delle reciproche rivendicazioni, di una incapacità, se non mancanza di sincera volontà, a trattare.

Fin quando rivendicazioni e proclami erano appannaggio della destra pittoresca e politicamente marginale che vegetava sotto la “Giappone Spa”, il gigante economico con cui tutti volevano avere scambi e investimenti, la situazione era sotto controllo. Ma ora siamo arrivati al punto che certe richieste, certe “provocazioni”, vengono direttamente dal governo. Nei mesi scorsi, tutte le redazioni dei media stranieri e le ambasciate hanno ricevuto un plico dal Ministero degli Esteri, nel quale c’è una mappa del Giappone con i suoi “territori inerenti”. Inerenti, non “rivendicati”: un’operazione decisamente poco saggia dal punto di vista diplomatico.

Nella nuova legge finanziaria il governo ha stanziato 400 milioni di dollari per “correggere” l’immagine del Giappone. La metà saranno destinati ad accademici occidentali che verranno invitati a “riscrivere” alcuni episodi “delicati” della recente storia nazionale, primi fra tutti il massacro di Nanchino e la triste vicenda delle cosiddette “donne da ristoro”, le migliaia di donne coreane (e non solo) inviate al fronte per “ristorare” i soldati. Una vicenda che in Corea suscita ancora grande emozione e sofferenza, soprattutto per la mancanza, da parte del governo giapponese, di una chiara assunzione di responsabilità. E pensare che basterebbe, come ha suggerito recentemente in un editoriale l’Asahi Shinbun, erigere nel centro di Tokyo un monumento a queste povere disgraziate.

Insomma, c’è da augurarsi che l’Abenomics funzioni, perchè se dovesse fallire c’è il rischio che Abe, nipote di un criminale di guerra graziato dagli alleati e divenuto Primo ministro negli anni Sessanta, punti ancor più sul nazionalismo per distrarre il popolo dai suoi insuccessi. Non sono pochi i casi in cui un regime cerca di spostare l’attenzione su temi “esterni”, per giustificare fallimenti interni.

Un vero peccato, perché a 70 anni dalla fine della guerra, ci si aspetterebbe anche in Asia qualche fermento di unità, integrazione e condivisione. E colpisce la perdurante assenza di leader politici in grado di innescare questo processo. Se poi l’attuale imperatore Akihito, che in più di un’occasione ha invitato il suo popolo a riflettere sul passato e riconciliarsi con la storia, volesse dare un contributo efficace e passare alla storia come fecero Brandt e Kohl, basterebbe che si recasse a Nanchino, e restasse per qualche minuto solennemente inchinato davanti al monumento che ricorda quel massacro.

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