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Smart working: cosa si rischia con le nuove frontiere del lavoro


Smart working: la sperimentazione imposta dalla pandemia ha mostrato pregi e difetti del lavoro da casa. Tra innovazione forzata e nostalgia del passato

Riposo forzato, cottimo digitale, insperate vacanze retribuite, occasione per riprendersi la vita e conciliare i tempi della famiglia? È il dibattito dello smart working, la nuova frontiera del lavoro 5.0, croce e delizia di dipendenti e imprenditori. Durante la pandemia è arrivato a coinvolgere sei milioni di italiani, quasi un quarto della forza lavoro del Paese. Come tutte le innovazioni, ha i suoi pregi e i suoi difetti: celebrarlo come esempio di “magnifiche sorti e progressive” come direbbe il Leopardi della Ginestra o, al contrario, come una iattura totale non aiuta a capire con che cosa avremo a che fare nel nostro presente e futuro. Una riunione aziendale in cui ci si guarda negli occhi e c’è sempre un feedback che aiuta in che modo proseguire, ci si scambia idee sul momento, si interagisce e ci si incontra, non ha prezzo. Inoltre la disaggregazione del corpo dei dipendenti si riflette anche socialmente: si è meno reattivi, la coesione viene meno, se un collega subisce discriminazioni lo veniamo a sapere molto tempo dopo o addirittura non lo veniamo a sapere, sindacalmente si è più fragili, i contratti di lavoro rischiano di divenire sempre più eterei e con meno tutele: da dipendente a collaboratore. Si ha meno l’impressione di far parte di una comunità di lavoro.

In realtà stiamo parlando di una grande, complessa, gigantesca sfida di sostenibilità per costruire un mondo migliore. Una sfida basata essenzialmente sul rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro, come scrive Marco Bentivogli nel suo saggio dedicato allo smart working (Indipendenti, edito da Rubattino, un libro su cui torneremo spesso per la sua acutezza e completezza).

“Smart working” non è “home working”

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