Svetlana Tikhanovskaya, simbolo delle proteste in Bielorussia contro Lukashenko, è oggi rifugiata in Lituania ed è candidata al premio Nobel per la pace 2021
Svetlana Tikhanovskaya, simbolo delle proteste in Bielorussia contro Lukashenko, è oggi rifugiata in Lituania ed è candidata al premio Nobel per la pace 2021
Le contestate elezioni presidenziali bielorusse, tenutesi il 9 agosto, hanno portato a riversarsi sulle piazze del Paese post-sovietico masse di cittadini, espressione di un’insoddisfazione diffusa a Minsk e dintorni. Si tratta di folle eterogenee per età, per estrazione e per genere: moltissime le donne, simbolo di una rivolta estremamente pacifica e umana, contro cui però la violenza del regime di Aleksandr Lukashenko, il Presidente al potere dal 1994 (che il 9 agosto avrebbe vinto con l’80% dei voti), non ha mancato di abbattersi. Stando ai dati del sito indipendente Mediazona, almeno 1376 cittadini, tra cui 24 minorenni, si sono rivolti agli ospedali bielorussi nei mesi di agosto e settembre in seguito a traumi causati dalle forze dell’ordine.
Protesta al femminile
Femminile è anche il volto politico delle proteste, quello di Svetlana Tikhanovskaja, leader suo malgrado dei sommovimenti sociali: il marito Sergej è un noto blogger d’opposizione che su YouTube ha raccolto da un lato la frustrazione dei suoi concittadini, dall’altro l’ostilità del regime, che lo ha incarcerato a inizio maggio ed escluso così dalla corsa alle presidenziali.
Accanto a Tikhanovskaja, candidatasi alle presidenziali al posto del marito, altre due donne hanno guidato le proteste prima e dopo le elezioni di agosto: Marija Kolesnikova e Veronika Tsepkalo, rispettivamente la coordinatrice della campagna elettorale di Viktor Babariko e la moglie di Valerij Tsepkalo, due fondamentali oppositori politici di Lukashenko, il primo in carcere, il secondo rifugiatosi in Ucraina. Si tratta di donne da un lato inserite negli ingranaggi rodati della società patriarcale in cui vivono (identificate così attraverso gli uomini che rappresentano), ma che dall’altro sono anche simbolo di un importante riscatto femminile: rappresentano ora una forza di rinnovamento che deriva proprio da quella debolezza loro assegnata per tradizione.
Lukashenko non solo ha sottovalutato il ruolo di Tikhanovskaja in quanto donna, ammettendola come rivale alle presidenziali, ma ha anche mancato in toto di tenersi al passo con i tempi, sorvolando sul significato di internet e dei social network per la popolazione under 40: è stato in particolar modo attraverso i canali Telegram che le opposizioni e le proteste si sono organizzate e che le informazioni (non quelle veicolate dai canali di regime) sono state diffuse. La reazione, miope e giunta ormai tardi, è stata quella di bloccare le reti internet, che da inizio agosto funzionano a singhiozzo. A tutto ciò si aggiunge la completa sottostima del rischio pandemico da parte di Lukashenko, che ha definito il Covid-19 una “psicosi”: un atteggiamento che ha messo a repentaglio la reputazione del leader quale premuroso e attento “batka” (padre) nei confronti della sua popolazione.
Il malcontento in Bielorussia
A portare la gente in piazza a Minsk ma anche nelle campagne, in genere più restie ai sommovimenti, è però qualcosa di più profondo, che non deriva solo dagli eventi degli ultimi mesi, nel corso dei quali, indubbiamente, il regime ha cercato di soffocare con arresti e violenze ogni istanza di opposizione. Negli anni infatti il patto sociale che Lukashenko era riuscito a stringere con la popolazione si è andato a sfaldare e, nel far sempre più coincidere gli organi del potere con la sua persona, la Bielorussia si è ritrovata ostaggio del suo Presidente. Il contratto stretto con gli elettori garantiva a questi ultimi stabilità e un certo benessere anche economico, permesso dalla rivendita delle risorse energetiche acquistate da Mosca a buon mercato e, viceversa, dai vantaggi dati dalle manovre per aggirare le sanzioni reciproche tra Russia e Ue sul comparto agroalimentare.
Inoltre, la riforma tecnologica spinta nel 2005 dal lungimirante Valerij Tsepkalo — al tempo membro dell’entourage politico a Minsk, oggi inviso al regime — ha portato all’inaugurazione del Belarus Hi-Tech Park, una Silicon Valley di oltre 50 ettari con vantaggi fiscali per le aziende che vi si sono trasferite. Oggi conta 30mila dipendenti tra bielorussi e stranieri, ma in seguito all’instabilità politica di questi mesi molte aziende e start up stanno lasciando Minsk: sono già 12 le compagnie che lo hanno fatto, 59 sposteranno parzialmente la loro sede altrove, altre 112 stanno valutando opportunità di trasferimento. Ai manifestanti in piazza si sono uniti in agosto anche diversi programmatori e informatici: come segno di riconoscimento la tastiera bianca, come i fiori divenuti simbolo delle manifestazioni “al femminile”.
La candidatura al Nobel
A livello internazionale le proteste hanno trovato consenso e supporto, ai quali hanno anche contribuito gli sforzi della diaspora bielorussa in Europa e nord America. Svetlana Tikhanovskaja, che all’indomani delle elezioni presidenziali si è rifugiata in Lituania, ha in questi mesi partecipato a numerose conferenze e convegni, interloquendo anche con le cancellerie europee e con i rappresentanti Ue: da Bruxelles non si sono limitati a condannare le violenze sui manifestanti e a invocare nuove elezioni, ma a inizio ottobre sono anche state introdotte delle sanzioni contro quaranta individui ritenuti direttamente responsabili dei brogli elettorali e delle repressioni (tra questi non vi è però Lukashenko). Tikhanovskaja, Kolesnikova e Tsepkalo sono ora candidate anche al Nobel per la pace 2021 e a loro è stato assegnato il premio Sakharov 2020 per la libertà di pensiero.
Il sostegno di Vladimir Putin
Unico alleato dell’eterno Presidente bielorusso è il Cremlino che, nella figura di Vladimir Putin, ha sempre teso la mano a Minsk, non senza secondi fini. Sul piano interno, le proteste bielorusse terrorizzano Mosca: la popolazione russa, sull’onda di un sempre più diffuso malcontento, potrebbe guardare ai vicini come a un esempio da emulare in casa. Sul piano esterno, almeno dal 1996, quando il Presidente russo El’tsin iniziò a tessere le trame in merito a progetti di confederazione tra i due Paesi, Mosca guarda con crescente interesse al vicino occidentale; per Minsk l’accordo sulla creazione di un’Unione statale (poi effettivamente siglato nel 1999) ha preso a pendere sempre più come una spada di Damocle. Se a partire dal 2014, dall’annessione della Crimea da parte della Russia, Lukashenko ha scelto di ergersi davanti ai suoi elettori a paladino dell’indipendenza bielorussa, ora su pressione delle proteste tanto ardire viene meno e Putin resta l’alleato preferito, o meglio l’unico.
D’altro canto, tuttavia, le proteste bielorusse sono prive di un asset geopolitico e in questo si discostano profondamente dal Maidan ucraino: i manifestanti non guardano all’Europa con interesse e non inneggiano a una recisione definitiva dei ponti con Mosca, alla cui tradizione, lingua e cultura si sentono naturalmente vicini. In Russia, allo stesso modo i manifestanti vengono supportati dalla popolazione e dagli intellettuali. È per questo motivo che il Cremlino, in realtà, cerca di giocare con cura le proprie carte: è infatti più interessato a una transizione fluida e senza scossoni che mantenga il vicino in buoni rapporti, piuttosto che a sostenere Lukashenko a prescindere.
L’ultimatum
Tikhanovskaja, cui si guarda sempre più come alla legittima Presidente del Paese, intanto in ottobre ha lanciato un ultimatum: entro domenica 25 Lukashenko avrebbe dovuto lasciare il potere, mettere fine alle violenze e liberare tutti i prigionieri politici; in caso contrario, il Paese (industrie, scuole, negozi, uffici) si sarebbe fermato. Quel giorno nelle strade bielorusse si sono riversate folle di manifestanti (almeno 100mila persone a Minsk) che sono divenute oggetto delle ennesime violenze del regime; almeno 140 persone sono state arrestate nella capitale. Da lunedì 26 ottobre il Paese è in sciopero nazionale, incluse le principali fabbriche come Belorusneft (compagnia petrolifera) e Grodno Azot (prodotti chimici). La polizia e le unità antisommossa arginano la situazione attraverso arresti di massa.
Nelle carceri bielorusse si trovano ora non solo gli oppositori politici e molti manifestanti, ma anche quasi tutti i membri del Consiglio di coordinamento che Tikhanovskaja ha radunato a partire da metà agosto per organizzare la transizione politica; ne fanno parte personalità illustri quale la giornalista premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievič, la quale, unico membro del Consiglio ancora in libertà e non in esilio, a fine settembre si è trasferita in Germania.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Le contestate elezioni presidenziali bielorusse, tenutesi il 9 agosto, hanno portato a riversarsi sulle piazze del Paese post-sovietico masse di cittadini, espressione di un’insoddisfazione diffusa a Minsk e dintorni. Si tratta di folle eterogenee per età, per estrazione e per genere: moltissime le donne, simbolo di una rivolta estremamente pacifica e umana, contro cui però la violenza del regime di Aleksandr Lukashenko, il Presidente al potere dal 1994 (che il 9 agosto avrebbe vinto con l’80% dei voti), non ha mancato di abbattersi. Stando ai dati del sito indipendente Mediazona, almeno 1376 cittadini, tra cui 24 minorenni, si sono rivolti agli ospedali bielorussi nei mesi di agosto e settembre in seguito a traumi causati dalle forze dell’ordine.
Protesta al femminile
Femminile è anche il volto politico delle proteste, quello di Svetlana Tikhanovskaja, leader suo malgrado dei sommovimenti sociali: il marito Sergej è un noto blogger d’opposizione che su YouTube ha raccolto da un lato la frustrazione dei suoi concittadini, dall’altro l’ostilità del regime, che lo ha incarcerato a inizio maggio ed escluso così dalla corsa alle presidenziali.
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