Ue e competizione fiscale: cosa può fare l’Europa?
I singoli Stati Ue non hanno armi per regolamentare la concorrenza fiscale e dettare regole sulla tassazione delle multinazionali. Serve un accordo europeo
I singoli Stati Ue non hanno armi per regolamentare la concorrenza fiscale e dettare regole sulla tassazione delle multinazionali. Serve un accordo europeo
Nell’ottobre scorso il gruppo di lavoro dell’Ocse che doveva proporre un approccio coordinato alla tassazione delle multinazionali ha dovuto alzare bandiera bianca. I 137 Paesi che fanno parte del gruppo sul Base Erosion and Profit Shifting (BEPS) non sono andati oltre qualche dichiarazione di principio; il rischio è che ora i Paesi vadano in ordine sparso generando tensioni internazionali e possibili guerre commerciali.
Per quasi un quarantennio, il mantra dello Stato minimo e dell’efficienza dei mercati ha esercitato una pressione costante per la riduzione dei campi di intervento della mano pubblica. La tendenza a una minore copertura dello Stato sociale si è accompagnata alla riduzione della pressione fiscale, soprattutto sulle imprese. A titolo di esempio, il tasso statutario medio nei 12 Paesi che nel 1999 hanno adottato l’euro è passato dal 36,7% nel 2000 al 25,2% nel 2020 (dati Ocse). In Italia, si è passati dal 41,3% al 27,8%.
Il debito pubblico
Oggi le cose sono almeno in parte diverse. Prima, la crisi finanziaria globale ha evidenziato gli squilibri creati da una disuguaglianza sempre più marcata nella distribuzione di reddito e ricchezza sia tra capitale e lavoro sia tra i lavoratori (l’ormai famoso 0,1% che si è progressivamente appropriato di una quota sempre più grande della torta). Poi, la recente pandemia del Covid-19 ha mostrato l’importanza di un sistema di protezione sociale degno di questo nome. Quarant’anni dopo la rivoluzione conservatrice di Reagan e Thatcher, l’incapacità di mercati non regolamentati di assicurare una distribuzione delle risorse equa ed efficiente e di garantire un’adeguata qualità dei servizi pubblici e della protezione sociale si impone come un’evidenza. Non è un caso che anche negli Stati Uniti, politici come Elizabeth Warren che propone di tornare a imposizione progressiva e alla garanzia per tutti di servizi come la sanità, abbiano uno spazio politico e mediatico impensabile solo dieci anni fa. L’esplosione del debito pubblico causata dal contrasto alla pandemia porrà in maniera ancora più urgente il tema dell’equità dei nostri sistemi fiscali.
In questo quadro, nonostante il recente fallimento (sperabilmente temporaneo) del negoziato del gruppo di lavoro dell’Ocse, il tema della tassazione d’impresa rimane centrale nel dibattito di politica economica internazionale ed europeo.
Le imprese multinazionali evitano da sempre gran parte della tassazione spostando costi e ricavi tra filiali situate in Paesi diversi in modo da registrare i profitti nelle giurisdizioni con tassazione più bassa. Le cose sono peggiorate con l’avvento delle società digitali, che avendo attivi in gran parte intangibili approfittano ancora di più delle differenze tra regimi fiscali. Il Fmi ha stimato una perdita totale di gettito fiscale dovuta ad elusione da parte di multinazionali di 500 miliardi di dollari annui. Andando nei dettagli per Paese, l’economista di Berkeley Gabriel Zucman mostra come i paradisi fiscali sottraggano all’Italia risorse equivalenti al 19% del totale delle imposte sulle società (https://missingprofits.world/; stime per il 2017); anche i sistemi fiscali tedesco (26%) e francese (22%) perdono risorse importanti. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la maggior parte dell’elusione fiscale (il 90%!) va a beneficio dei paesi dell’Ue, Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta, Cipro. Paesi che, non sorprenderà nessuno, il Consiglio europeo non ha ritenuto di dover inserire nella propria lista dei paradisi fiscali. Oltre a erodere la capacità dello Stato di raccogliere risorse, l’elusione fiscale consente alle multinazionali di beneficiare di un vantaggio competitivo sulle imprese domestiche, un problema particolarmente sentito nel nostro Paese.
La concorrenza fiscale
Certo, si potrebbe argomentare che i Paesi vittime della concorrenza fiscale potrebbero reagire abbassando le tasse a loro volta. Ma la concorrenza tra Stati non è come la concorrenza tra imprese. La riduzione delle tasse porta con sé una minore potenza di fuoco per lo Stato. Questo implica o una riduzione permanente della spesa pubblica, o un aumento sostanziale del debito. Un piccolo Paese, per cui la domanda domestica è meno importante, ha una terza possibilità, quella di crescere con le esportazioni (non è un caso che tutti i paradisi fiscali Ue siano piccoli paesi). Per un grande Paese questo è molto più problematico, come mostrano le reazioni e le promesse di rappresaglia da parte di molti paesi agli avanzi commerciali tedeschi.
Il problema della concorrenza fiscale intraeuropea non è nuovo. Per affrontarlo ci sono due cantieri aperti da anni. Il primo è quello di introdurre il principio per cui a dispetto della moltitudine di personalità giuridiche e di filiali che compongono una società multinazionale, questa ai fini fiscali dovrebbe essere considerata come un’entità unica. I profitti globali dovrebbero essere imputati ai vari Paesi in cui questa opera. Il secondo è quello di introdurre un’aliquota minima globale che eviti la corsa al ribasso di paesi che cercano di attrarre (o trattenere) imprese e attività economica.
La tassazione delle multinazionali
Mentre per l’aliquota minima l’accordo tarda ad arrivare, sulla tassazione delle multinazionali esistono proposte concrete sulle quali lavorare. In Europa, la Commissione e il Parlamento europeo hanno approvato nel 2018 un piano per la tassazione delle multinazionali (CCCTB, da Common Consolidated Corporate Tax Base) che astraendo dalla sede legale distribuirebbe i profitti (e quindi la base imponibile) tra paesi membri sulla base di volume d’affari e dipendenti in ogni paese. La proposta è da anni al vaglio del Consiglio europeo, dove le decisioni in materia fiscale sono prese all’unanimità e quindi bloccate dal veto dei Paesi che beneficiano dal sistema attuale. Paradossalmente, il recente stop alle trattative in sede Ocse potrebbe dare nuova linfa alla proposta. Infatti, molti paesi si erano detti favorevoli a un approccio europeo in caso di fallimento delle trattative in sede Ocse. Durante il vertice dello scorso luglio, il Consiglio europeo ha dato mandato alla Commissione di formulare entro l’estate 2021 una proposta per una digital tax nel quadro del dibattito sulle “risorse proprie” del bilancio europeo per finanziare, tra l’altro, parte del Fondo per la Ripresa.
Molti Paesi (in Europa, Francia, Austria, Regno Unito, Spagna, Polonia, Ungheria e l’Italia) hanno già proceduto unilateralmente con l’introduzione di web tax volte a tassare le transazioni digitali, che però sono soluzioni decisamente non ottimali. Introdotte in un solo paese, distorcono la concorrenza, rischiano di essere trasferite sui consumatori e di provocare rappresaglie (le grandi società del web sono quasi tutte statunitensi o cinesi). In Italia e in altri paesi si è anche deciso, durante la recente pandemia, di escludere dalle misure di sostegno alle imprese tutte le società multinazionali che abbiano sede o controllate in paradisi fiscali. Ma anche in questo caso le difficoltà di attuazione, la definizione di cosa sia un paradiso fiscale (ripetiamo che la lista ufficiale del Consiglio Europeo non include gli Stati membri), rendono la cosa poco efficace.
La comunicazione
Un ruolo importante lo può giocare la comunicazione. Nelle scorse settimane nelle strade di Parigi è apparsa la pubblicità di una compagnia di noleggio con conducente che dichiarava orgogliosamente di essere presente in molte città ma non in Lussemburgo, una chiara allusione alla sede fiscale di alcuni suoi concorrenti. Il fatto che il “pagare le tasse in Francia” sia divenuto un argomento commerciale mostra che il vento potrebbe essere cambiato. Molti Paesi hanno adottato il cosiddetto country by country reporting, vale a dire l’obbligo per le imprese multinazionali di fornire alle autorità fiscali i dati di fatturato, numero di dipendenti, profitti, imposte pagate in ognuno dei Paesi in cui operano. Questi rapporti dovrebbero essere resi pubblici, in modo che nell’analisi costi benefici dell’ottimizzazione fiscale entri anche la reputazione di fronte al pubblico.
Rimane tuttavia il fatto che i singoli Stati hanno armi spuntate. La via maestra per ripensare la fiscalità delle multinazionali passa necessariamente per un accordo in sede Ocse, o per lo meno europea.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
I singoli Stati Ue non hanno armi per regolamentare la concorrenza fiscale e dettare regole sulla tassazione delle multinazionali. Serve un accordo europeo
Nell’ottobre scorso il gruppo di lavoro dell’Ocse che doveva proporre un approccio coordinato alla tassazione delle multinazionali ha dovuto alzare bandiera bianca. I 137 Paesi che fanno parte del gruppo sul Base Erosion and Profit Shifting (BEPS) non sono andati oltre qualche dichiarazione di principio; il rischio è che ora i Paesi vadano in ordine sparso generando tensioni internazionali e possibili guerre commerciali.
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