L'Ue ha deciso di alzare dal 40 al 55% la quota di riduzione delle emissioni nette di gas serra entro il 2030. L'obiettivo? La neutralità climatica entro il 2050, ovvero zero emissioni
L’Ue ha deciso di alzare dal 40 al 55% la quota di riduzione delle emissioni nette di gas serra entro il 2030. L’obiettivo? La neutralità climatica entro il 2050, ovvero zero emissioni
Ieri i leader dei 27 Stati membri dell’Unione europea hanno deciso di alzare almeno al 55% la quota di riduzione delle emissioni nette di gas serra (rispetto ai livelli del 1990) entro il 2030. Si tratta di un target più ambizioso rispetto al precedente, del 40%, e che fungerà da tappa intermedia verso l’obiettivo finale della Commissione: il raggiungimento della cosiddetta “neutralità climatica” – ovvero l’azzeramento delle emissioni nette a livello europeo – entro il 2050.
È una notizia densa di implicazioni ambientali, economiche, politiche e anche geopolitiche. Non soltanto perché Bruxelles vuole intestarsi la lotta al riscaldamento globale, ma soprattutto perché la transizione energetica – il progressivo distacco dai combustibili fossili in favore di altre fonti, come quelle rinnovabili – è una questione tecnologica e di sicurezza nazionale, che si lega alle ambizioni europee sull’autosufficienza.
La leadership europea sul clima
Il Green Deal è una priorità assoluta per la Commissione guidata da Ursula von der Leyen, che dice di voler essere “geopolitica”, cioè più presente e assertiva nelle questioni internazionali. Nel commentare l’annuncio di venerdì, il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha per l’appunto scritto su Twitter che “l’Europa è leader nella lotta al cambiamento climatico”.
Per potersi davvero presentare come tale davanti al mondo, l’Unione aveva assolutamente bisogno di aumentare il taglio alle emissioni: la quota del 40% appariva infatti insufficiente ma anche inadeguata, visti gli impegni climatici presi da tanti altri Governi, come quelli di Giappone, Corea del Sud, Cina o Regno Unito. È proprio nei confronti di Londra, anche alla luce di Brexit, che Bruxelles non può permettersi di sfigurare: oggi, a cinque anni dall’accordo di Parigi, si apre il vertice sul clima delle Nazioni Unite, il Climate Ambition Summit, ospitato virtualmente dal Regno Unito.
Ma un confronto, inevitabilmente, ci sarà: la settimana scorsa il Primo ministro Boris Johnson ha annunciato di voler ridurre le emissioni nette britanniche di almeno il 68% entro il 2030. Si tratta di una cifra molto più alta di quella europea, dove si è dovuto trovare un compromesso con quei Paesi – la Polonia, innanzitutto – che dipendono fortemente dal carbone e che avrebbero difficoltà a eliminarlo. Nell’accordo raggiunto venerdì si permette infatti il ricorso all’energia nucleare o al gas naturale per sostituire i combustibili fossili più inquinanti.
A voler però ribadire la portata mondiale delle ambizioni europee, i leader degli Stati membri hanno invitato la Commissione a proporre una tassa sul carbonio sulle importazioni provenienti dai Paesi esterni al blocco che non si sono dotati di obiettivi altrettanto severi per la riduzione delle emissioni.
Perché la questione climatica è una questione tecnologica
Per ridurre del 55% le emissioni nette in dieci anni e per addirittura azzerarle dopo altri venti, l’Unione europea dovrà rivoluzionare la composizione dei suoi mix energetici e gli stessi processi per la produzione di energia. Ma dovrà provvedere anche a “decarbonizzare” intere economie: e se in alcuni settori – come in parte quello dei trasporti – l’accantonamento dei combustibili fossili sembra essere più vicino, in altri sarà parecchio complicato.
Per avere successo, la transizione energetica avrà bisogno di tutta una serie di tecnologie che al momento sono ancora a una fase iniziale: perché hanno costi troppo alti, oppure perché non sono abbastanza efficienti. Il Presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden, ha intenzione di spendere 300 miliardi di dollari in quattro anni nella ricerca, con un focus particolare sulle tecnologie verdi. Anche l’Unione dovrà fare lo stesso.
Quali sono le tecnologie più discusse
Raggiungere la neutralità climatica significa azzerare le emissioni nette: si potranno cioè produrre delle emissioni di CO2, ma queste dovranno essere “catturate” prima del loro rilascio nell’atmosfera e stoccate sottoterra. La tecnologia che lo permette è nota come cattura e sequestro del carbonio, ma è ancora troppo costosa per potersi affermare su larga scala. L’Unione europea – come il resto del mondo – sta puntando parecchio su questa tecnologia, che sarà utile in particolare per decarbonizzare quei settori ad alta intensità energetica: la siderurgia, ad esempio. Al momento, sono gli Stati Uniti il Paese più avanti sulla cattura e lo stoccaggio del carbonio; i progetti-pilota europei hanno una capacità piuttosto contenuta.
Per la decarbonizzazione dei processi produttivi dell’acciaio si sta anche valutando la possibilità di usare l’idrogeno verde, ottenuto a partire da fonti rinnovabili e dunque a zero emissioni. Anche in questo caso, però, c’è un problema di prezzi troppo alti e non competitivi, senza contare la grande quantità di energia elettrica necessaria per produrlo. Bruxelles prevede che il costo dell’idrogeno verde diminuirà sensibilmente entro il 2030, ma serviranno investimenti molto consistenti.
Un’altra tecnologia fondamentale per la transizione energetica e per l’affermazione delle rinnovabili è quella per le batterie, che serviranno ad alimentare i veicoli elettrici e a immagazzinare l’energia prodotta dagli impianti eolici e fotovoltaici, ovviando al problema della loro intermittenza. Il problema delle batterie è sì legato ai costi, ma anche alla loro insufficiente efficienza e capienza.
L’Unione europea non ha solo bisogno di batterie migliori, ma di batterie prodotte all’interno dei suoi confini, per non dover dipendere dalle importazioni. È una questione di sicurezza nazionale, perché l’intera filiera delle batterie – dalle materie prime come il litio al prodotto finito – è nelle mani di un solo Paese: la Cina. Si stima che Pechino produca circa il 70% delle batterie agli ioni di litio di tutto il mondo.
Poche settimane fa il vice Presidente della Commissione europea, Maros Sefcovic, ha dichiarato che l’Unione potrebbe raggiungere l’autosufficienza sulle batterie entro il 2025. Nel continente ci sono diversi progetti di fabbriche di batterie in sviluppo: quella di Northvolt, in Svezia, dovrebbe iniziare la produzione su larga scala nel 2021.
Ieri i leader dei 27 Stati membri dell’Unione europea hanno deciso di alzare almeno al 55% la quota di riduzione delle emissioni nette di gas serra (rispetto ai livelli del 1990) entro il 2030. Si tratta di un target più ambizioso rispetto al precedente, del 40%, e che fungerà da tappa intermedia verso l’obiettivo finale della Commissione: il raggiungimento della cosiddetta “neutralità climatica” – ovvero l’azzeramento delle emissioni nette a livello europeo – entro il 2050.
È una notizia densa di implicazioni ambientali, economiche, politiche e anche geopolitiche. Non soltanto perché Bruxelles vuole intestarsi la lotta al riscaldamento globale, ma soprattutto perché la transizione energetica – il progressivo distacco dai combustibili fossili in favore di altre fonti, come quelle rinnovabili – è una questione tecnologica e di sicurezza nazionale, che si lega alle ambizioni europee sull’autosufficienza.
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