Oro, il bene rifugio per eccellenza – L’inchiesta [Parte 3]
L’emergenza coronavirus ha esaltato il tradizionale ruolo dell’oro in periodi di crisi, scatenando la corsa di privati e banche centrali ad accaparrarsi il metallo prezioso
L’emergenza coronavirus ha esaltato il tradizionale ruolo dell’oro in periodi di crisi, scatenando la corsa di privati e banche centrali ad accaparrarsi il metallo prezioso
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Sulla pagina web di Baselword, la più grande fiera mondiale del settore dell’orologeria e della gioielleria, campeggia l’annuncio della cancellazione dell’appuntamento previsto per il 2021 a causa del coronavirus. Per il secondo anno consecutivo, dopo l’annullamento dell’edizione precedente causato dallo scoppio della pandemia, rimangono quindi deserti gli enormi spazi della kermesse fieristica che converte annualmente la città di Basilea in una sorta di El Dorado contemporaneo, con oltre 1.500 marchi di orologi e gioielli, provenienti da una cinquantina di Paesi, intenti a esporre le ultime novità della propria produzione. Un duro colpo per un settore, quello della gioielleria, che rappresenta da solo circa il 50% del consumo globale di oro, con i mercati cinese e indiano a fare la parte del leone in termini di volume di preziosi acquistati.
La repentina diffusione del coronavirus ha determinato una profonda distorsione delle dinamiche interne del mercato dell’oro, sia dal lato dell’offerta che da quello della domanda. Le misure restrittive adottate dai Governi mondiali, finalizzate a contenere l’espansione della pandemia, hanno infatti comportato la temporanea paralisi delle attività produttive, con conseguente sospensione dei collegamenti aerei dai principali paesi produttori del metallo prezioso. Una circostanza che ha causato l’inevitabile interruzione delle catene di approvvigionamento, lasciando parzialmente a secco le raffinerie internazionali, in primis quelle della Svizzera, dove si lavora annualmente il 70% dell’oro estratto a livello mondiale.
“Le maggiori raffinerie di oro nel mondo sono ferme, per il nostro settore si tratta di un danno economico importante”, affermava a marzo 2020 Michael Mesaric, amministratore delegato della raffineria Valcambi, capace di produrre, in media, 4 tonnellate giornaliere di lingotti d’oro. La temporanea chiusura delle raffinerie, in aggiunta alla mancanza di materia prima da lavorare, parzialmente compensata dal ricorso al metallo garantito dalla fitta rete di negozi compro oro, si è quindi tradotta in un drastico calo delle vendite di gioielli, facendo, di contro, esplodere la domanda dell’oro come investimento.
Le conseguenze dell’emergenza Covid
L’impatto del coronavirus sull’economia mondiale ha determinato, inoltre, un ulteriore effetto relativo ai flussi illeciti del commercio dell’oro. Se da un lato, infatti, lo scoppio della pandemia ha portato il prezzo del metallo a superare la soglia record dei 2,000 dollari l’oncia, rendendone ulteriormente appetibile l’estrazione illegale in contesti come la regione peruviana di Madre de Dios, dall’altro lato la distorsione della domanda ha innescato un andamento che potrebbe incidere sulla natura stessa dei flussi illeciti, a breve-medio termine, inevitabilmente legati ai diversi sbocchi commerciali dell’estrazione aurifera. Una dinamica di illegalità che coinvolge anche le raffinerie internazionali per via del ruolo ricoperto lungo la catena di produzione, come avverte il Professore Mark Pieth dell’Università di Basilea, esperto in diritto criminale, che evidenzia l’impossibilità di risalire all’eventuale origine illecita dell’oro dopo essere stato lavorato in raffineria.
I dati forniti dal World Gold Council, associazione che riunisce le principali compagnie minerarie attive nel settore aurifero, rivelano che l’acquisto di oro da investimento ha doppiato la quantità di metallo destinata al settore della gioielleria nel corso dell’ultimo anno, raggiungendo le 2.000 tonnellate. Numeri che ne confermano il ruolo di bene rifugio per eccellenza durante periodi di turbolenze di mercato, legate soprattutto a crisi geopolitiche ed economiche come quella attuale. Gli investitori tendono infatti a rifugiarsi nel metallo prezioso per proteggere il proprio capitale dalla volatilità del mercato, estremamente elevata in contesti di grave crisi economica, facendo leva sul valore dell’oro che tende invece ad aumentare, assicurando stabilità agli investimenti come dimostrato dall’andamento del prezzo dell’oro nell’ultimo ventennio.
Nel corso dell’ultimo anno, complici le problematiche delle raffinerie in termini di produttività, la maggior parte degli investitori ha optato per gli ETF (Exchange Traded Funds) al posto del tradizionale acquisto di oro sotto forma di lingotti o monete. Si tratta di particolari fondi d’investimento a gestione passiva, un agile strumento finanziario che replica gli indici di mercato dell’oro, garantendo la possibilità di essere facilmente acquistato e rivenduto grazie alle continue negoziazioni del relativo mercato azionario.
Investitori privati e banche centrali
Non sono però soltanto gli investitori privati e il mercato dei gioielli a puntare sul metallo prezioso. Secondo l’ultimo sondaggio del World Gold Council, associazione che riunisce le principali compagnie minerarie attive nel settore aurifero, il 20% delle banche centrali, interpellate sulla gestione delle rispettive riserve auree, ha espresso infatti l’intenzione di acquistare oro tra il 2020 e il 2021. Un dato che certifica un sensibile aumento rispetto all’8% registrato nel 2019, anno in cui l’acquisto di oro da parte delle banche centrali aveva già raggiunto livelli record, attestandosi intorno alle 650 tonnellate.
Un cambio di strategia inevitabilmente condizionato dallo scoppio della pandemia di Covid-19, come si evince dalle motivazioni addotte dagli istituti bancari che hanno partecipato al sondaggio. Circa l’80% attribuisce infatti la decisione di garantirsi maggiori riserve auree alla performance dell’oro in tempi di crisi, inquadrato come tradizionale bene rifugio, mentre il 74% degli intervistati propende invece per la mancanza di rischio di insolvenza garantita dal metallo prezioso. Numeri che evidenziano come l’adozione di determinate politiche sia strettamente legata alla valutazione dell’oro come garante di stabilità, in un contesto di incertezza economica come quello attualmente in corso a livello mondiale. L’impatto del coronavirus ha inoltre determinato una diminuzione delle riserve auree, parzialmente utilizzate per garantire liquidità ai rispettivi sistemi finanziari. Nel 2019 circa il 70% delle banche centrali aveva dichiarato di aver accumulato riserve superiori rispetto ai cinque anni precedenti, percentuale scesa al 53% nel corso dell’ultimo anno.
Secondo gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale, le banche centrali possiedono circa 35.000 tonnellate di oro, acquistato sui mercati internazionali perlopiù sotto forma di lingotti, a cui si aggiunge una percentuale di istituti bancari che ricorre anche alla produzione aurifera nazionale. A livello di logistica, la Banca d’Inghilterra continua a essere il principale caveau di riferimento, utilizzato dalla maggioranza delle banche centrali per tenere al sicuro una parte del proprio oro.
Le riserve auree
In cima alla classifica dei Paesi con le maggiori riserve auree ci sono gli Usa, che dispongono di oltre 8.000 tonnellate di oro, seguiti dalla Germania con circa 3.500 tonnellate di metallo prezioso. Al terzo posto (quarto se considerato anche l’Fmi) si attesta l’Italia con 2.452 tonnellate, quantità rimasta invariata dal 1999, anno in cui Bankitalia trasferì 141 tonnellate di oro alla Banca centrale europea in occasione del definitivo avvio dell’Unione economica e monetaria (Uem).
Nel corso degli ultimi anni, sono state però economie emergenti come Cina, Russia, Turchia e India le assolute protagoniste del mercato dell’oro, accumulando enormi quantità di riserve auree. Nel 2010 erano soltanto otto le banche centrali attivamente impegnate nell’acquisto del metallo prezioso, un numero quasi triplicato nel giro dei dieci anni successivi, arrivando a rappresentare il 12% del totale delle banche centrali. Un aumento della domanda attribuibile alle attuali dinamiche della geopolitica mondiale secondo Natalie Dempster, consigliere delegato del World Gold Council per la sezione banche centrali e politiche pubbliche, che riflette, al tempo stesso, i numerosi cambiamenti strutturali dell’economia globale.
Il metallo prezioso garantisce liquidità e rappresenta una riserva di valore a lungo termine, caratteristiche indispensabili per il raggiungimento degli obiettivi strategici delle banche centrali, riassumibili in: sicurezza, liquidità e reddito.
Liquidità e prestiti
Come dimostrato negli ultimi anni dalle iniziative della Banca centrale del Venezuela, Paese che versa in una grave crisi economica, ma dispone di enormi giacimenti auriferi non ancora esplorati, le banche centrali ricorrono al proprio oro come garanzia per ottenere liquidità attraverso prestiti erogati da altri istituti internazionali. Nel 2016 la Deutsche Bank ha infatti concesso un prestito da 750 milioni di dollari al Governo venezuelano a fronte di 20 tonnellate di oro date in garanzia, successivamente trattenute dalla banca tedesca, con un margine di guadagno di 100 milioni di dollari, a causa del mancato pagamento degli interessi da parte venezuelana.
Al netto di eventuali crisi valutarie da fronteggiare, più frequenti in contesti di grande instabilità politica e nei cui confronti il metallo prezioso si è rivelato un eccellente antidoto, la gestione delle rispettive riserve auree ha posto in evidenza l’adozione di approcci differenti da parte delle banche centrali, in primis quelle europee. Nel 2007 ad esempio, la Spagna decise di vendere il 32% delle proprie riserve per un importo di poco superiore ai due miliardi di euro, rimanendo con le attuali 280 tonnellate di oro. Una decisione per certi versi discutibile, a prezzi correnti l’oro venduto dalla Banca di Spagna varrebbe infatti 7 miliardi di euro, motivata dalla volontà di dismettere una parte delle proprie riserve per ottimizzarne la resa, ritenendo evidentemente insufficiente il rendimento dell’oro immobilizzato nei caveau.
Il debito pubblico italiano
Una politica monetaria opposta a quella adottata dall’Italia, tradizionalmente incline a mantenere una posizione di tutela nei confronti del proprio patrimonio in oro, tendendo in sostanza a non smobilitarlo affatto. Un atteggiamento prudentista che ha spesso sollevato dubbi nell’opinione pubblica nazionale, in particolare riguardo alla possibilità di utilizzare le riserve auree per coprire parte del debito pubblico italiano, arrivato nel 2020 alla cifra record di 2.587 miliardi di euro, equivalente a circa il 150% del Pil.
Come evidenzia però Salvatore Rossi, ex direttore generale della Banca d’Italia e autore del libro Oro, un’eventuale immissione sul mercato delle circa 2.500 tonnellate delle riserve auree italiane determinerebbe, con tutta probabilità, il crollo del prezzo dell’oro e una conseguente riduzione dei profitti ricavati dalla vendita. La dismissione del patrimonio aurifero verrebbe, oltretutto, interpretata dai mercati come segnale di un Governo debole e bisognoso di soldi, arrecando un forte danno d’immagine che potrebbe spingere gli investitori che prestano denaro all’Italia a chiedere di rinegoziare i tassi d’interesse, cercando di spuntarne di più alti, annullando così qualsiasi beneficio derivato dalla vendita dell’oro.
La questione relativa all’eventuale utilizzo delle riserve auree da parte del Governo per ripianare il debito pubblico ha visto, di recente, riaprirsi il dibattito politico riguardante la proprietà dell’oro italiano, interamente gestito da Bankitalia. Pur essendo un ente di diritto pubblico, lo statuto della Banca d’Italia ne stabilisce la piena indipendenza dal Governo centrale, che non può obbligare l’istituto a trasferire altrove le riserve auree. Un’autonomia gestionale difesa dallo stesso premier italiano Giuseppe Conte, che ha sottolineato come: “le autorità nazionali sono tenute al rispetto dell’indipendenza della Bce e delle banche centrali ai sensi dei trattati europei sottoscritti dagli Stati contraenti”. Un eventuale trasferimento significherebbe inoltre la violazione dell’Art.123 del Trattato Ue, che sancisce il divieto di finanziamento monetario a carico delle banche centrali dei paesi dell’Unione europea, impossibilitate a finanziare direttamente gli stati membri.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
L’emergenza coronavirus ha esaltato il tradizionale ruolo dell’oro in periodi di crisi, scatenando la corsa di privati e banche centrali ad accaparrarsi il metallo prezioso
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