Lo studio del “pensiero di Xi” per le future generazioni di leader africani. A beneficiare dei fondi sono gli Stati dove i capitali cinesi sono più presenti
Se alla fine di luglio vi foste recati a Wangfujin avreste assistito a uno spettacolo sconcertante: per giorni l’iconico viale di Pechino, noto per il claustrofobico struscio domenicale, è rimasto pressoché deserto. Niente musica assordante, niente ressa all’uscita della metro. È bastata la chiusura del Legendale Hotel per Covid a tenere lontana la folla.
Nonostante le rigidissime misure preventive, il virus è tornato nella capitale cinese il 23 luglio, quando il vicepresidente dello Zimbabwe, Constantino Chiwenga, è atterrato a Pechino con un jet charter insieme ad altri quattro funzionari, di cui uno risultato positivo al coronavirus. Con la Cina ancora semi-blindata agli ingressi internazionali, l’arrivo di uno straniero infetto nel centro politico del paese non ha mancato di suscitare qualche alzata di sopracciglio.
I favoritismi concessi all’élite africana sono il sintomo di un’amicizia di lunga data.
Chiwenga − venuto a Pechino (come molte altre volte) per sottoporsi a cure mediche − appartiene alla lunga lista di leader del continente a vantare rapporti personali con l’establishment cinese. Una tradizione che risale alla metà del secolo scorso, quando Mao Zedong sostenne i movimenti indipendentisti africani per esportare il comunismo nel quadrante regionale. Appena ventenne, negli anni ’60, l’attuale presidente Emmerson Mnangagwa fu tra i primi funzionari dello Zimbabwe a ricevere un training militare oltre la Grande Muraglia.
Tutt’ora il Governo cinese offre programmi di formazione che hanno coinvolto, tra gli altri, il Jubilee Party, il partito di Governo keniota, l’etiope People’s Revolutionary Democratic Front e il sudafricano African National Congress. Queste sinergie, fin dai primi scambi con i movimenti di liberazione, vengono gestite dal Dipartimento internazionale del Pcc, incaricato di tenere i contatti con tutte le forze politiche. Anche con l’opposizione, in ottemperanza al principio della non ingerenza negli affari interni degli altri paesi. Ma la scelta degli “studenti” di solito rispecchia le priorità economiche di Pechino: a beneficiare dei fondi elargiti sono quegli stati dove i capitali cinesi sono già più presenti.
Stando al Piano d’azione Cina-Africa 2018-2021, annunciato durante l’ultimo Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC), il gigante asiatico negli scorsi tre anni si è impegnato a ricevere 60.000 studenti africani l’anno (più di Stati Uniti e Regno Unito); a distribuire 50.000 borse di studio governative per i dipendenti pubblici e a offrire circa 5.000 opportunità formative per i professionisti militari; oltre il doppio rispetto ai 2.000 previsti nel periodo 2015-2018.
Normalmente il training segue una struttura fissa in tre step che comprende: lezioni presso alcune strutture educative cinesi, scambi diretti con le amministrazioni locali su questioni legate all’agricoltura e al business, e attività per avvicinare i leader africani alla cultura cinese. I corsi offerti spaziano dalla riduzione della povertà, alla governance partitica, passando per il controllo dell’opinione pubblica e la gestione dei media. Tutte specialità in cui il Partito unico cinese eccelle. Non è un caso che la lezione sia stata recepita meglio nei paesi accomunati dalla presenza di regime autoritari. Un esempio? L’Etiopia di Abiy Ahmed, di cui il partito di maggioranza − il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope − è un assiduo frequentatore della Cina fin dal 1995. Quello di Addis Abeba può essere considerato un caso esemplare. Secondo gli analisti, infatti, è proprio ispirandosi al paradigma di sviluppo cinese che il paese dell’Africa orientale ha optato per utilizzare zone economiche speciali e infrastrutture come volano per l’economia nazionale.
Ma, al mutare delle circostanze, negli ultimi tempi sono state introdotte anche nuove materie. “Il ruolo guida del partito nella promozione della prevenzione e del controllo delle epidemie e dello sviluppo economico e sociale” è il tema del workshop organizzato nel settembre 2020 dal Partito comunista cinese insieme al Partito congolese del Lavoro, la principale forza politica di ispirazione socialista che governa il Congo-Brazzaville. L’iniziativa, che ha coinvolto una cinquantina di alti funzionari africani e quadri di livello medio, è servita a rilanciare il partenariato davanti all’emergenza epidemica nella cornice della cosiddetta “Via della seta sanitaria”, utilizzata da Pechino per distribuire forniture mediche tra i Paesi partner. Nulla di inusuale: la cooperazione sanitaria vanta una storia che risale all’era maoista. Ma incluso nel programma troviamo anche lo studio del “pensiero di Xi Jinping”, il lascito ideologico del presidente cinese che ormai in Cina permea ogni ramo dello scibile, dalla politica estera allo stato di diritto.
Il perché è presto detto. Mentre un tempo l’estroversione del Partito comunista cinese era finalizzata alla ricerca di legittimità, ormai la molla delle relazioni politiche è piuttosto il desiderio di condividere il proprio know-how e coltivare rapporti amichevoli con le future generazioni di leader per infondere una visione favorevole del gigante asiatico.
Come spiega la ricercatrice Lina Benabdallah in Shaping the Future of Power, questi scambi relazionali – ancora più degli investimenti a nove zeri − hanno un effetto politico fondamentale: permettono di controbilanciare la narrazione “diffamante” veicolata dalla stampa occidentale, conquistando il supporto dell’establishment africano. Un aspetto riscontrabile soprattutto quando si prendono in esame i dossier più spinosi del momento. “Xinjiang in the Eyes of African Ambassadors to China” è il nome di un evento tenuto a marzo con la partecipazione degli ambasciatori in Cina di Sudan, Burkina Faso e Repubblica del Congo. Nonostante circa il 40% della popolazione africana sia di religione islamica, nessuno dei Paesi del continente ha mai sostenuto le risoluzioni con cui l’Onu ha condannato le politiche etniche di Pechino nello Xinjiang, dove − secondo diversi studi indipendenti − 1 milione di persone di fede musulmana è sottoposto a detenzioni extragiudiziali, lavori forzati e forme invasive di sorveglianza. Pratiche che il governo cinese non nega completamente, ma giustifica nell’ambito della lotta all’estremismo islamico. Per quanto controversi, i programmi di modernizzazione ed emancipazione delle minoranze xinjianesi godono di una notevole popolarità tra la classe politica africana che aspira a replicare il miracolo economico cinese. Un buon motivo per spalleggiare la Cina nel momento del bisogno.
La stessa esternazione di solidarietà è riscontrabile in riferimento a Hong Kong, l’ex colonia britannica ritornata alla Cina nel 1997 con la promessa di ampia autonomia, ma da diversi anni sottoposta alle misure sempre più invasive del governo centrale. Nel giugno 2020, quando il Human Right Council condannò l’introduzione nella città di una legge sulla sicurezza nazionale, 25 nazioni africane presero pubblicamente le difese della Cina, il numero più alto per singolo continente. Non è difficile intravedere una sorta di connivenza opportunistica. Chiamiamola pure “etica della reciprocità”. D’altronde, si sa, il rispetto delle libertà personali non è un valore diffuso nel continente.
Va detto, però, che quando si prende in esame la popolazione più giovane le iniziative cinesi non sempre sortiscono l’effetto sperato. Secondo quanto confidatoci da alcuni ex borsisti, al loro ritorno a casa i giovani africani riconoscono il valore professionale ed educativo dell’esperienza in Cina, ma complessivamente conservano un ricordo amaro del soggiorno a causa della scarsa empatia e accettazione dimostrata dai cinesi nei confronti dei popoli “colorati”, associati a un’immigrazione talvolta ai margini della legalità. Non solo. Chi accoglie l’offerta formativa di Pechino ha normalmente la piena consapevolezza che non si tratta di un’amicizia disinteressata, ma di un’operazione politica. Con tutti i rischi del caso.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Lo studio del “pensiero di Xi” per le future generazioni di leader africani. A beneficiare dei fondi sono gli Stati dove i capitali cinesi sono più presenti