[ROMA] Giornalista e ricercatore freelance, scrive per quotidiani e periodici. Si occupa di globalizzazione, islamismo armato e Afghanistan.
I Talebani e gli afghani
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Sull’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul, sventola la bandiera bianca con scritte nere dei Talebani. Tornati al potere dopo venti anni di jihad e una rapida offensiva militare sui centri urbani, culminata tra il 14 e il 15 agosto 2021 con la caduta della capitale e la conquista del palazzo a lungo occupato da Ashraf Ghani.
Venticinque anni all’estero tra prestigiose università e il lavoro alla Banca mondiale, l’accademico e tecnocrate Ghani è rientrato nel suo Paese natale con l’ambizione di Fixing a failed State, ricostruire uno Stato fallito, come recita il titolo del libro scritto nel 2009 insieme a Clare Lockhart. È fuggito da Kabul e dall’Afghanistan, dopo aver più volte assicurato che avrebbe resistito fino alla morte, che non sarebbe finito in esilio come Amanullah Khan, il re riformatore che, giunto al potere a soli 27 anni, nel 1919 ha ottenuto l’indipendenza dagli inglesi. Per perdere il potere dieci anni dopo, dietro la spinta dei mullah, alleati con potenze straniere, i quali lo ritenevano troppo liberale. Amanullah Khan ha trovato rifugio a Roma, dove è morto nel 1960. Ha lasciato un’eredità politica e intellettuale ancora oggi viva nel Paese. Dietro di lui, Ashraf Ghani lascia uno Stato tutt’altro che ricostruito. In mano ai Talebani.
Nel 1989, quando le truppe d’occupazione sovietiche si ritirarono dall’Afghanistan, c’era consenso unanime tra gli osservatori: il governo di Kabul sarebbe collassato in pochi giorni. Ci sono voluti tre anni, prima che il Presidente Najibullah finisse impiccato. Nel 2021, quasi tutti gli analisti ritenevano che il governo Ghani sarebbe durato 6 mesi, forse 12, qualcuno scommetteva su 18. La Repubblica islamica, l’architettura istituzionale sorta sulle ceneri dell’Emirato dei Talebani rovesciato nel 2001, sono collassate ancor prima del ritiro completo dei partner stranieri. Tra le ragioni, il modo stesso in cui sono state edificate.
Negli incontri preliminari alla conferenza di Bonn del 2001, poi nel corso della Loya Jirga costituzionale del 2003, si sono contrapposte due idee diverse del rapporto tra istituzioni, politica e società. E due grandi blocchi etnico-politici: da una parte il blocco “pashtun”, con l’idea di un sistema presidenziale fortemente centralizzato, modellato sulla Costituzione del 1964, poi adottata con alcune modifiche; dall’altra il blocco “tagico”, che proponeva un sistema di governo più rappresentativo e meno centralizzato, che includesse la carica del primo ministro, anche come contrappeso alla storica, contestata egemonia dei pashtun come reggenti dello Stato-nazione. Ha prevalso la prima ipotesi. Un’architettura che ha favorito la concentrazione del potere nelle mani del presidente, prima Hamid Karzai, al potere fino al 2014, poi Ashraf Ghani, al potere per due mandati – fortemente contestati – fino al collasso delle istituzioni repubblicane che sosteneva di rappresentare.
Quali istituzioni abbiano in mente i Talebani, nel momento in cui scriviamo non è chiaro. Sarà importante vedere come riempiranno la generica etichetta usata in tutti questi anni: “vero sistema islamico”. Quale che sia il modello edificato, a dettare le regole saranno loro. Il potere se lo sono conquistato sul campo di battaglia. Ma dopo un’abile operazione diplomatica con cui hanno ingannato Zalmay Khalilzad, l’inviato di Donald Trump, poi confermato da Joe Biden. È stato Khalilzad a condurre le lunghe trattative che il 29 febbraio 2020 hanno portato alla firma del cosiddetto Accordo di Doha. Dall’altra parte del tavolo, a siglare quel documento storico c’era mullah Abdul Ghani Baradar.
Uomo della vecchia guardia talebana, tra i fondatori del movimento e già intimo di mullah Omar, Baradar rappresenta la componente più pragmatica degli studenti coranici. È stato arrestato nel 2010 in Pakistan, con un’operazione congiunta dei servizi segreti locali e della Cia. Già allora cercava un accordo con l’amministrazione Karzai. Ma Islamabad, tradizionale sponsor dei turbanti neri, lo riteneva prematuro. E non gradiva di non essere stata avvertita per tempo. Mullah Baradar ha scontato 8 anni tra prigione e arresti domiciliari. È stato rilasciato nel 2018 proprio per favorire il negoziato con Washington, che cercava una via d’uscita onorevole dal pantano afghano. All’inizio del 2019 è stato nominato a capo dell’Ufficio politico dei Talebani a Doha, una sorta di ambasciata. L’anno dopo, nel febbraio 2020, firmava l’accordo bilaterale con Washington. Nell’agosto del 2021, tornava prima a Kandahar, poi a Kabul, celebrando la vittoria sugli americani.
La vittoria si deve anche a quell’accordo. Condotto male e soprattutto tardivamente, quando Washington, decisa a riportare “a casa i nostri ragazzi” e con altre priorità strategiche, aveva leve di convincimento ormai spuntate. Si è trattato di un accordo per il ritiro delle truppe, camuffato da accordo di pace.
Khalilzad, l’inviato degli Stati Uniti, per mesi ha insistito sull’idea di un “pacchetto completo: prendere o lasciare”. Si riferiva ai 4 punti principali dell’intesa: il ritiro delle truppe straniere in cambio dell’impegno dei Talebani a rompere ogni legame con i gruppi terroristici dalla vocazione globale. E la disponibilità dei Talebani a sedersi al tavolo negoziale con i politici di Kabul, in vista di un cessate il fuoco. Ma il legame tra i primi due punti e i due rimanenti è sempre stato equivoco, poco vincolante. Il pacchetto non è mai stato tale.
Così, mentre Washington cercava di preparare la pace, con un’offensiva diplomatica che avrebbe dovuto culminare in un processo negoziale delegato alle Nazioni Unite, i Talebani preparavano la guerra. E la presa di Kabul. Tanto più plausibile quando, a metà aprile 2021, il Presidente Joe Biden, dopo settimane di revisione del dossier afghano, ha annunciato che avrebbe rispettato quell’accordo, pur posticipando la data del ritiro completo dal 31 aprile stabilito da Trump all’11 settembre, poi modificando di nuovo la data al 31 agosto. Biden in quell’occasione è stato chiaro: il ritiro è incondizionato. Non dipende da ciò che accade sul terreno e in ambito negoziale. Oggi paga personalmente una scelta dettata in gran parte dal predecessore. Sfruttata dai Talebani.
Più che dalla loro forza, o dal consenso che godono tra la popolazione afghana, la loro ascesa è dipesa dalla debolezza dell’amministrazione di Kabul, che in tutti questi anni ha scontato un deficit di legittimità costante, cresciuto nel tempo. Per gli afghani il governo ha rappresentato un attore lontano, corrotto, spesso ostile, incarnato da quei politici ai quali nel 2001, in cerca di stabilità immediata, la comunità internazionale ha consegnato il Paese. Si trattava di ex combattenti, uomini conosciuti per abusi e violazioni dei diritti umani. Che hanno dismesso le mimetiche per indossare il doppio petto. E che hanno sempre derubricato le richieste di giustizia della popolazione ad orpello da anime belle. Da loro i Talebani ereditano uno Stato-rentier, che si regge su gambe finanziarie altrui. Dipendente dalla benevolenza e dagli aiuti internazionali.
Insieme alla questione del riconoscimento del loro governo e della rimozione degli esponenti della leadership dalle liste “nere” dell’Onu, quella finanziaria rimane l’unica leva con cui condizionare i comportamenti dei Talebani. In questi venti anni, oltre a perfezionare l’arte della guerriglia, hanno imparato l’arte della diplomazia e della comunicazione. Nel 2001 hanno perso il loro Emirato per ingenuità politiche. Oggi sono pragmatici. Decisi a restare al potere. Ma non sarà facile. Devono trasformarsi da gruppo di opposizione armata in partito istituzionale, rinunciando alla violenza come strumento per ottenere obiettivi politici. Devono contenere le spinte centrifughe interne, fin qui trattenute da un collante che oggi viene meno: la guerra contro il nemico invasore. Devono inoltre garantire stabilità e sicurezza alla popolazione, anche contro la branca locale dello Stato islamico e contro gli attori che intendono prolungare il conflitto. Soprattutto, devono fare i conti con una società che ha aspettative molto diverse da quelle del 1996, quando edificarono il primo Emirato. Pur vulnerabile, è una società che questa volta non vuole abbassare la testa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.