Le tensioni lungo il confine con l’India, le esercitazioni militari, il processo inarrestabile di sviluppo economico e assimilazione culturale. Infine, la successione del Dalai Lama. Il Tibet sta per tornare nell’agenda dei rapporti tra Pechino e l’Occidente
Xizang. Al pubblico occidentale questa parola dice poco, eppure in Cina la conoscono tutti. È infatti questo il nome cinese del Tibet, l’immensa regione autonoma della Repubblica popolare al confine con India, Nepal e Bhutan. I cinesi la chiamano così da sempre, quantomeno da quando è tornata sotto il controllo di Pechino, all’alba dell’era di Mao Zedong. Ma nel mondo è sempre rimasta identificata col nome di Tibet. Da qualche tempo, però, il nome cinese Xizang viene utilizzato con sempre maggiore insistenza anche nella narrazione rivolta verso l’esterno, a partire dai media di Stato in lingua inglese come il Global Times. Non si tratta di un caso. Il Partito comunista sta operando da tempo una “normalizzazione” di una regione cruciale e strategica, sia per motivi interni sia per motivi geopolitici.
Il valore del Tibet per la Cina
Fino a qualche tempo fa, prima delle Olimpiadi di Pechino del 2008, il Tibet era il grande tema legato alla Cina e ai diritti umani, con Governi internazionali e star di Hollywood a rivendicare l’autonomia di un luogo che ha sempre ispirato una forte mitologia, anche per il suo significato a livello storico e religioso: basti pensare alla figura del Dalai Lama. Un dossier che però è sceso nella lista delle priorità esterne, superato da Hong Kong, Xinjiang e da ultimo Taiwan. Anche perché nel frattempo, la situazione tibetana è molto cambiata. Non è più tempo di rivolte come quella del 1957, che portò alla fuga del Dalai Lama in India e all’esilio che dura tuttora. All’autorità religiosa fu offerto il ritorno in Cina dopo la morte di Mao, offerta rifiutata.
Ma la regione è stata via via integrata negli ingranaggi della Repubblica popolare. Prima dal punto di vista economico, con l’istituzione di una commissione ad hoc da parte di Deng Xiaoping. Le tensioni sono rimaste nel corso dei decenni, ma le proteste sono diventate più sporadiche anche grazie alla crescente integrazione economica. Tra il 2016 e il 2020 la regione ha ricevuto 160 milioni di turisti, la maggior parte provenienti da altre regioni cinesi. E in 70 anni sono stati investiti circa 255 miliardi di dollari per infrastrutture e piani economici. Ma gli investimenti sono sempre più accompagnati da processi di assimilazione culturale ritenuta necessaria e funzionale allo sviluppo economico e alla sicurezza nazionale.
Ma il Tibet, considerato a seconda della prospettiva porta d’accesso all’Asia meridionale o valico inespugnabile al cuore della Repubblica popolare, potrebbe presto tornare in cima all’agenda. Per due motivi. Il primo è puramente strategico, viste le crescenti tensioni con l’India lungo il confine conteso. Dopo i sanguinosi scontri della primavera 2020, ci sono stati diversi episodi critici, seppure non deflagrati in maniera così violenta. Ma la tensione diplomatica e militare tra Pechino e Nuova Delhi resta alta. E il Tibet gioca un ruolo importante, ospitando sempre più truppe dell’Esercito popolare di liberazione e sempre più frequenti e vaste esercitazioni militari. Con i media di Stato cinesi che raccontano invece la partecipazione attiva dei cittadini tibetani alla “difesa dei confini”.
Il ruolo dell’Occidente
Sulle rivolte del passato, d’altronde, Pechino sottolinea come sempre il “ruolo attivo” delle forze occidentali, con alcuni Paesi che hanno rivendicato l’indipendenza del Tibet ed “elevato a terreno di scontro” tematiche come la reincarnazione del Dalai Lama. Una tematica che diventerà fondamentale nei prossimi anni, visto che già si dibatte sulla successione, con il Governo tibetano in esilio (tra l’altro per una prima storica volta ricevuto alla Casa Bianca poco prima che venisse lasciata da Donald Trump) che non vuole lasciare a Pechino il diritto di scelta.
Anche in previsione di una sfida retorica molto accesa, Pechino sta già facendo capire in che modo vuole affrontare la vicenda, cioè facendo capire che non intende arretrare di un millimetro come su tutti gli altri dossier ritenuti interni. In questo senso, significativa la nomina di Wang Junzheng a nuovo segretario del partito in Tibet. Wang, 58 anni, è stato bersaglio negli scorsi mesi di sanzioni occidentali per la repressione dei diritti umani nello Xinjiang. Sì, perché era proprio lui l’ufficiale del partito ad aver amministrato la regione autonoma uigura. Nominarlo in Tibet fa capire che Pechino approva il suo operato e che soprattutto lo vuole comunicare al mondo esterno. Contestualmente, nelle scorse settimane è stata approvata una nuova legge sui confini terrestri che rafforza la sicurezza delle frontiere cinesi, che prevede tra le altre cose prevede la costruzione di strutture per rafforzare i blocchi al confine. L’innovazione normativa viene indicata dagli analisti come un’innovazione normativa fatta soprattutto col pensiero rivolto alle tensioni con l’India, anche perché è stata approvata subito dopo il naufragio dei negoziati bilaterali tra i rispettivi ufficiali militari delle due potenze asiatiche.
Presto si tornerà a parlare di Tibet. O di Xizang.
Fino a qualche tempo fa, prima delle Olimpiadi di Pechino del 2008, il Tibet era il grande tema legato alla Cina e ai diritti umani, con Governi internazionali e star di Hollywood a rivendicare l’autonomia di un luogo che ha sempre ispirato una forte mitologia, anche per il suo significato a livello storico e religioso: basti pensare alla figura del Dalai Lama. Un dossier che però è sceso nella lista delle priorità esterne, superato da Hong Kong, Xinjiang e da ultimo Taiwan. Anche perché nel frattempo, la situazione tibetana è molto cambiata. Non è più tempo di rivolte come quella del 1957, che portò alla fuga del Dalai Lama in India e all’esilio che dura tuttora. All’autorità religiosa fu offerto il ritorno in Cina dopo la morte di Mao, offerta rifiutata.