Polonia, Lituania e Lettonia avranno la possibilità di sospendere alcune delle regole in materia di accoglienza e di applicare procedure semplificate per i ritorni in risposta ai flussi migratori agevolati dalla Bielorussia di Lukashenko
Di fronte al dramma umanitario in atto alla frontiera con la Bielorussia, l’Unione europea decide, in buona sostanza, di voltarsi dall’altra parte. E di cedere al pressing di Polonia, Lituania e Lettonia, i tre Paesi al confine che da mesi denunciano l’azione destabilizzatrice del regime di Aleksandr Lukashenko, impegnato ad agevolare il transito e spingere migliaia di migranti verso la frontiera con l’Ue.
Questa settimana la Commissione europea ha infatti annunciato che per i prossimi sei mesi Varsavia, Vilnius e Riga potranno sospendere alcune delle regole in materia di asilo e applicare procedure semplificate per i rimpatri. Si tratta di “una serie di misure temporanee per affrontare la situazione di emergenza”, hanno spiegato da Bruxelles. La base giuridica è la stessa (l’articolo 78.3 del Trattato sul funzionamento dell’Ue) invocata nel 2015 per avviare i ricollocamenti dei richiedenti asilo e alleviare la pressione su Italia e Grecia (e anche Ungheria, se solo avesse accettato). Le similitudini, però, finiscono qui, visto che stavolta non c’è l’ombra di solidarietà e redistribuzioni, ma solo il pugno di ferro su domande d’asilo e rimpatri e l’applicazione delle procedure di frontiera.
Nel dettaglio, si allungano i tempi per la registrazione delle domande d’asilo (a disposizione quattro settimane, anziché l’attuale intervallo di 3-10 giorni) e, nell’attesa, si potranno trattenere i migranti in appositi centri alla frontiera fino a un massimo di 16 settimane (salvo che in casi particolari per richiedenti con problemi di salute). Secondo le organizzazioni per i diritti umani, si tratta di una detenzione di fatto: così facendo “si mette la politica al di sopra delle persone”, ha commentato l’Ong Oxfam, mentre per Human Rights Watch “una disposizione di emergenza usata sei anni fa per far sì che i Paesi Ue condividessero equamente le responsabilità per i richiedenti asilo, nel 2021 è usata per giustificare la detenzione, affrettare l’esame delle domande e rimandarli indietro il prima possibile”.
Eppure, la verità è che “i numeri non sono alti”, ha ammesso la commissaria agli Affari Interni Ylva Johansson, ricordando che “8mila migranti hanno superato la frontiera bielorussa” e “si trovano in Polonia, Lituania e Lettonia, mentre altri 10mila hanno raggiunto la Germania”. Gli attraversamenti nel Mediterraneo centrale da inizio anno sono stati oltre 55mila, e quelli nella rotta balcanica 48.500.
La proposta andrà adesso approvata dai Governi dei Ventisette riuniti nel Consiglio, ma non si prevedono sorprese: la crisi con la Bielorussia ha messo infatti in luce come il contagio geografico (e di agenda politica) sia ormai avvenuto.
L’approccio rispetto agli sbarchi nel Mediterraneo ha fatto da apripista, ma il linguaggio e l’orizzonte non cambiano; anzi: la “Fortezza Europa” si ripropone anche a est. E pure quando si trova davanti migranti strumentalizzati come parte di un attacco ibrido scagliato dall’autocrazia bielorussa, la risposta di Bruxelles è una sola: più rimpatri. La stessa, a dirla tutta, contenuta nel Nuovo Patto Ue sulla migrazione e l’asilo, che infatti il vicepresidente dell’esecutivo Margaritis Schinas vuole adesso rilanciare: “Non ci sarà mai un momento migliore di questo per raggiungere un accordo. L’opinione pubblica ne vede i benefici”.
La Commissione non intende autorizzare respingimenti in conflitto con il diritto internazionale, hanno ripetuto dal podio Johansson e Schinas, ma al tempo stesso non condanna le pratiche della guardia di frontiera polacca e i provvedimenti adottati dai Paesi della regione. Gli stessi che criminalizzano anche la solidarietà: “Chi porta acqua e coperte nella zona rossa rischia la galera”, raccontano gli europarlamentari che si sono recati in missione al confine nelle ultime settimane. Confine a cui non possono accedere né gli organi di stampa né gli operatori delle Ong; e dove – lì sì, non nei documenti interni di Bruxelles – viene cancellato il Natale dell’Europa. Lì, al freddo e al gelo.