Con la piena unanimità, Xi ottiene il terzo mandato come Presidente della Repubblica Popolare Cinese. Nelle sue mani si concentra il controllo del Partito, delle forze armate e dello Stato. È il leader cinese più potente dai tempi di Mao Zedong
Le “due sessioni” ribadiscono quello che era stato già affermato al XX Congresso di Ottobre: la Cina è nell’era di Xi Jinping. Dopo aver rotto una delle più solide consuetudini dalla morte di Mao Zedong, ricevendo un terzo mandato da Segretario Generale del Partito, Xi è appena stato eletto dall’Assemblea Nazionale del Popolo – anche in questo caso per la terza volta – Presidente della Repubblica Popolare Cinese. 2952 voti a favore, nessuno contrario; è stata una pura formalità. Continuerà, almeno per i prossimi 5 anni, a mantenere i tre scettri del potere – controllo del Partito, dell’esercito e dello stato – senza nessun rivale o potenziale successore in vista.
L’altra grande nomina di questo weekend è quella di Li Qiang come nuovo premier, prendendo il posto di Li Keqiang. Anche in questo caso non ci sono sorprese rispetto a quello che ci si aspettava, tutto era già stato predisposto durante il XX Congresso. La sua nomina ci dice tanto sulla Cina di Xi Jinping, dove la lealtà è tornata ad essere privilegiata sulla competenza. Li Qiang è un fedelissimo di Xi e questo è il motivo principale per cui è diventato prima numero due del partito e, adesso, Primo Ministro. Non ha esperienze di governo a livello nazionale e la gestione della Pandemia a Shangai, dove era capo del partito, è stata caotica. Ciononostante, la sua fedeltà a Xi lo ha premiato. Dovrà guidare la politica economica del Paese e raggiungere il modesto target del 5% di crescita che è stato individuato durante le “due sessioni”. Se da un lato la situazione economica che dovrà gestire è un puzzle molto complesso – tra crisi del mercato immobiliare, rallentamento delle esportazioni, aumento del debito, disoccupazione giovanile elevata e la minaccia di sanzioni economiche paralizzanti da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati – è molto probabile che si ritrovi, principalmente, a portare avanti le idee di Xi Jinping.
Un’inversione di tendenza
Oggi, a posteriori, si può notare come l’accentramento dei poteri sia qualcosa che Xi ha portato avanti fin dal primo anno in cui salì al potere. Poco dopo essere diventato leader nel 2012, dichiarò che il Partito Comunista era pericolosamente corrotto dal denaro e sempre più lontano dalla vita quotidiana e dalle necessità della massa. Ha iniziato così un graduale processo per riaffermare l’autorità del partito su ogni aspetto della vita pubblica. Lo ha fatto invertendo delle tendenze che, sempre sotto il velo autoritario, erano state avviate dopo i duri anni di Mao, quando la fedeltà al leader e il fervore ideologico avevano avuto la precedenza sul buon governo. Dal 1976, si lavorò per separare, almeno parzialmente, il partito dallo Stato. Venne dato maggiore spazio alle imprese, agli agricoltori e ai dirigenti delle fabbriche. L’artefice di questo cambiamento fu Deng Xiaoping che, pur non essendo decisamente un liberale, avvertì pubblicamente che “l’eccessiva concentrazione del potere può dare origine a un dominio arbitrario da parte degli individui”. Agli inizi degli anni ‘90, i riformatori cinesi parlavano di “partito d’avanguardia”, un partito più piccolo e agile volto a stabilire una linea ideologica generale, senza cercare di controllare tutto. Il potere fu decentralizzato ai governi locali e gli imprenditori ammessi nel Partito, per essere cooptati piuttosto che esclusi. Questo processo è stato alla base del “capitalismo con caratteristiche cinesi” che ha portato la Cina in vetta al mondo, trasformandola in meno di 50 anni in un polo di potere concorrenziale agli Stati Uniti. Poi è arrivato Xi, e le cose sono cambiate. Dopo 11 anni sotto la sua leadership, il ritorno di un completo controllo del Partito sulla società e l’economia cinese.
La politica estera assertiva
La Cina di Xi ha ormai, un po’ per scelta sua e un po’ per scelta degli altri attori internazionali, abbandonato il suo basso profilo. A livello internazionale Pechino è assertiva, non abbassa la testa, traccia linee rosse invalicabili e rivolge accuse aperte agli Stati Uniti. Dalle “due sessioni” non emergeranno cambi di postura, anzi, i toni usati da Xi e dal neo-designato Ministro degli Esteri Qin Gang sono tutt’altro che proni ad una de-escalation: “Se gli Stati Uniti non frenano ma continuano ad accelerare sulla strada sbagliata, ci saranno sicuramente conflitti e scontri. Chi ne sopporterà le conseguenze catastrofiche?” ha detto Qin. Sono parole molto dure ed inusuali per la leadership cinese, che generalmente preferisce mantenere dei toni più pacati. In un discorso ai delegati della Conferenza Politica Consultiva del Popolo Cinese, la sessione che si svolge in parallelo a quella dell’Assemblea Nazionale del Popolo, Xi ha criticato il “contenimento, l’accerchiamento e la soppressione della Cina” messa in atto dagli Usa. Ha detto che la Cina deve “avere il coraggio di combattere mentre il Paese si trova ad affrontare profondi e complessi cambiamenti nel panorama interno e internazionale”.
Xi ha chiarito anche che non intende fare passi indietro sulla questione Taiwan, considerata da sempre solo ed esclusivamente interna, ma che è al centro delle tensioni con gli Stati Uniti. La riunificazione con Taiwan è una priorità della sua leadership e per ottenerla, non si esclude l’uso della forza. L’opzione di un’invasione della Cina Repubblicana non è più vista come improbabile da Washington; il mese scorso William Burns, capo della CIA, ha dichiarato di essere a conoscenza “per una questione di intelligence” che Xi abbia ordinato all’esercito di tenersi pronto a invadere Taiwan entro il 2027.
La questione economica
Il contesto internazionale e i rapporti di Pechino con gli Stati Uniti non sono solo una questione politica, ma anche, soprattutto, economica. La rivalità con gli Usa e la crisi dell’integrazione economica in risposta al deterioramento della sicurezza globale, rende tutto più complicato per la Cina. La globalizzazione è stata il motore della crescita cinese per oltre 30 anni, ma il clima ostile che si è creato con l’Occidente obbliga il Dragone a dei profondi ripensamenti. Per ridurre al minimo le vulnerabilità esterne della Cina, nei suoi discorsi di questa settimana, Xi ha ri-sottolineato la necessità di ridurre la dipendenza dalle tecnologie e dalle competenze occidentali e di rafforzare il Paese contro le minacce alla sua sicurezza alimentare ed energetica. Alle pressioni ed i sabotaggi esterni, però, si uniscono i problemi interni dell’economia cinese, tra questioni non affrontate in passato – come un mercato immobiliare fragile, sorretto a suon di incentivi statali, e un debito in continuo aumento – e problemi emersi più recentemente, come la crescente disoccupazione giovanile. Le proteste del 2022 durante il Covid e quelle più recenti dei pensionati avvertono che per mantenere la stabilità sociale interna è fondamentale dare ai cinesi delle buone prospettive, che tengano in vita il contratto sociale che lega Partito e popolo: fedeltà in cambio di benessere. Zeng Xiangquan, direttore del China Institute for Employment Research di Pechino, aveva affermato a fine 2022 che “l’aggiustamento strutturale che l’economia cinese sta affrontando in questo momento ha bisogno di un maggior numero di persone che diventino imprenditori e si impegnino”. Ovvero, per compiere la transizione in atto nel Paese – da un’economia fondata sulle industrie low skill ad una fondata sull’innovazione tecnologica, i servizi e il consumo – serve un settore privato forte e fiorente. Al contrario Xi, continua ad intensificare il dirigismo statale sull’economia. Dalle “due sessioni” è emersa l’istituzione di una nuova amministrazione nazionale di regolamentazione finanziaria – che rafforzerà il controllo del Partito sulle politiche finanziarie del Paese e sulle holding, come il gigante fintech Ant Group – e di una nuova agenzia governativa per centralizzare la gestione dei dati. Il tutto è coerente con un approccio che prosegue ormai da diversi anni, che ha visto un progressivo inasprimento della regolamentazione dei settori dominati dai privati e il sanzionamento di diverse grandi aziende, come Didi Chuxing e Alibaba, diventate troppo potenti. Nella Cina di Xi il settore privato deve servire le priorità del partito. L’economia rimane una priorità, ma al di sotto dell’ideologia.