Spaccatura all’interno della coalizione di governo per sciogliere il Parlamento e indire elezioni anticipate entro ottobre. Tentativi di porre fine alla contestatissima premiership di Netanyahu, che nell’ultimo sondaggio è tornato in testa alle preferenze come premier.
Benjamin Netanyahu, il premier più longevo della storia d’Israele, è in un angolo. Da vecchio pugile, incassa da tutti: la guerra con Hamas non sta portando i risultati sperati; le famiglie degli ostaggi lo accusano di perseguire propri interessi e non la liberazione degli ostaggi a Gaza; il presidente Biden lo tiene quanto più a distanza possibile; riceve critiche da tutto il mondo; il procuratore della Corte penale ha chiesto per lui l’arresto; alcuni membri del suo gabinetto di guerra lo avversano apertamente; nella politica israeliana sono ben due i tentativi di porre fine alla sua premiership che, dato il disastro del 7 ottobre, significa fine della sua vita politica.
Il fronte interno non deve essere sottovalutato, soprattutto le critiche dall’interno del suo gabinetto di guerra. Yoav Gallant, il ministro della difesa e destinatario come Netanyahu della richiesta di arresto da parte della Cpi, è dello stesso partito del premier. Ma questo non gli ha impedito di essere uno dei più critici nei confronti del primo ministro.
Non da ora. A marzo dell’anno scorso, il paese era attraversato da proteste per la riforma sulla giustizia fortemente voluta da Netanyahu. Il quale annunciò il licenziamento del capo della difesa, “colpevole” di averlo avvertito che il suo piano di riforma della giustizia (che mira a ridimensionare i poteri della magistratura) stava iniziando a rappresentare una minaccia diretta alla sicurezza di Israele.
Con un numero crescente di riservisti che avvertivano che non avrebbero prestato servizio nell’esercito di un paese che non era più da considerarsi democratico, Gallant aveva esortato Netanyahu a mettere quantomeno in stand by la riforma almeno fino alla festa nazionale del 26 aprile, dopo la pasqua ebraica, e a convocare il gabinetto di sicurezza. Un consiglio che non solo Netanyahu ha scelto di non seguire ma che lo spinse a mandare via Gallant dal Governo. Per poi farlo rientrare.
Il 7 ottobre sembrava aver sancito la pace tra i due. Ma Gallant qualche settimana fa ha criticato Netanyahu per la mancanza di un piano post Hamas a Gaza, soprattutto per la paventata presenza nella Striscia dell’esercito, ipotesi verso la quale il ministro della difesa è contrario. E non ha fatto nulla per nascondere la propria opposizione e irritazione.
L’altro ex generale e ministro della difesa, Benny Gantz, è entrato nel gabinetto di guerra, pur se in passato ha subito un forte torto da Netanyahu. Si era alleato con lui e gli accordi erano che fossero primo ministro a turno; ma quando è arrivato il momento di Gantz, Netanyahu lo ha estromesso. E’ entrato nel gabinetto di guerra per rispetto al paese, mentre gli altri dell’opposizione, come Yair Lapid, si sono rifiutati.
Questo però non gli ha impedito di essere critico nei confronti di Netanyahu. Anzi: qualche giorno fa, considerando la pochezza di visione del premier, che non ha un piano né per la guerra (il solo “distruggeremo Hamas”, non basta più) né per il dopo, ha annunciato che, persistendo l’assenza, l’8 giugno lascia l’esecutivo. Critiche al gabinetto anche dall’altro generale, Gabi Eisenkot, membro dello stesso partito di Ganzt, che a Gaza ha perso un figlio nei combattimenti.
Nel frattempo, il loro partito ‘Unità Nazionale’ ha presentato una proposta di legge per sciogliere il Parlamento israeliano e indire elezioni anticipate entro il mese di ottobre, a un anno dalla strage del 7 ottobre. Il partito non ha la maggioranza per sciogliere la Knesset, poiché la coalizione Netanyahu ha i numeri per continuare con il suo governo. Tuttavia, scrive Haaretz, ciò indica la grande spaccatura nella coalizione.
Per aggiungere altra carne al fuoco, tre membri dell’opposizione (il leader centrista Yair Lapid, il capo del partito russofono Avigdor Liberman e l’ex delfino di Netanyahu Gideon Sa’ar), si sono riuniti e hanno sottoscritto un patto per presentare un governo di alternativa a quello Netanyahu. Neanche loro hanno voti e numeri per sovvertire Bibi, ma questa è la cartina di tornasole del difficile momento politico del premier israeliano.
Che è anche oggetto delle feroci critiche di una parte dei familiari degli ostaggi detenuti a Gaza, i quali vorrebbero un accordo ad ogni costo. Netanyahu invece non vuole mettere a repentaglio la sicurezza nazionale, per cui non accetterà di ritirare le truppe.
Il consigliere israeliano per la sicurezza nazionale, Hanegbi, molto vicino a Netanyahu, parlando con le famiglie degli ostaggi ha ribadito che il governo non accetterà di finire la guerra in cambio del rilascio degli ostaggi, perché ne va della sicurezza del paese.
E così aumenta la distanza tra i familiari degli ostaggi e il governo israeliano colpevole quest’ultimo, secondo i primi, di aver deciso di sacrificare i loro cari. Le manifestazioni anti Netanyahu sono continue.
Ed è certo questo, un monito importante per Bibi, anche se nell’ultimo sondaggio è ritornato in testa alle preferenze come premier, scavalcando Gantz che, forse, paga l’ultimatum. Confusione, incertezze, veti e colpi incrociati che, in un momento difficile come questo, certo non aiutano la gestione della guerra e del paese.
Benjamin Netanyahu, il premier più longevo della storia d’Israele, è in un angolo. Da vecchio pugile, incassa da tutti: la guerra con Hamas non sta portando i risultati sperati; le famiglie degli ostaggi lo accusano di perseguire propri interessi e non la liberazione degli ostaggi a Gaza; il presidente Biden lo tiene quanto più a distanza possibile; riceve critiche da tutto il mondo; il procuratore della Corte penale ha chiesto per lui l’arresto; alcuni membri del suo gabinetto di guerra lo avversano apertamente; nella politica israeliana sono ben due i tentativi di porre fine alla sua premiership che, dato il disastro del 7 ottobre, significa fine della sua vita politica.
Il fronte interno non deve essere sottovalutato, soprattutto le critiche dall’interno del suo gabinetto di guerra. Yoav Gallant, il ministro della difesa e destinatario come Netanyahu della richiesta di arresto da parte della Cpi, è dello stesso partito del premier. Ma questo non gli ha impedito di essere uno dei più critici nei confronti del primo ministro.