L’uomo forte ha fallito, il Paese è contro Netanyahu. È un periodo di estremi cambiamenti, di riflessioni e di riaggiustamenti di rotta per Israele, che deve ripensare priorità, alleanze e strategie, sia interne che nei rapporti internazionali.
Lo Stato ebraico, dopo il 7 ottobre, è dovuto necessariamente entrare in una fase di ricalibrazione sia interna che esterna, rivedendo capisaldi e alleanze, mutando non poco obiettivi, modi, istanze.
Il massacro perpetrato da Hamas nel sud di Israele, la conseguente risposta dell’esercito di Gerusalemme con il suo pesante fardello di vittime, certamente rappresentano un momento centrale nella storia del paese. Una storia che oggi deve necessariamente fare i conti con i cambiamenti della società sia israeliana che dall’esterno, che spingono a rivedere rapporti, relazioni anche di forza, e priorità.
Il 7 ottobre ha scalfito una delle certezze israeliane: il paese è vulnerabile. E questa considerazione è arrivata nel momento in cui il governo era presieduto da “Mister sicurezza”, da chi ha fatto della difesa del paese una bandiera e una condizione di vita talmente forte, da essere il premier più longevo nella storia d’Israele. Eppure, nonostante questo, è avvenuto nel paese ebraico l’impensabile, con l’attacco fin dentro le case della gente, il rapimento di civili, molti dei quali uccisi in cattività, sono morti oltre un migliaio tra ragazzi che partecipavano ad un rave e civili che vivevano o si trovavano ai confini con Gaza.
L’uomo forte ha fallito e lo sa bene. Anche molte strategie messe in campo durante la guerra o dichiarazioni hanno contribuito a questo fallimento, hanno aperto le porte ad inchieste internazionali, a richieste di arresto. Pure la scelta di non mostrare, a differenza di quanto fatto e continua a fare Hamas quotidianamente, gli orrori del massacro, ha messo Netanyahu, e quindi Israele, in un angolo, relegandolo al ruolo di pariah all’interno della comunità internazionale, di fatto facendogli perdere un asset importante della guerra che è quello comunicativo.
Il paese è contro Netanyahu. Lo è da sempre, anche prima del 7 ottobre. La sua alleanza governativa con gli esponenti estremisti Ben Gvir e Smootrich, la sua decisione di andare avanti e approvare la riforma della giustizia nonostante l’opposizione della piazza, l’ha allontanato sempre più dall’opinione pubblica israeliana. Non la guerra, su questo gli israeliani sono d’accordo. Il sabato, ancora oggi, il paese scende in piazza per protestare contro Netanyahu, per chiedere elezioni anticipate, per ottenere qualsiasi accordo per la liberazione degli ostaggi, la coscrizione degli ultraortodossi, ma non di fermare il conflitto.
Proprio le manifestazioni anti Netanyahu per la riforma della giustizia, un esercizio democratico in un paese tale, sono state viste dagli oppositori, in particolare Hamas, come momenti di crisi e debolezza, utili per sferrare l’attacco che avrebbe dovuto distruggere le fondamenta dello Stato ebraico e farlo implodere. Invece ne ha saldato il caposaldo dell’appartenenza.
Anche l’uscita di Benny Gantz, generale ex capo di stato maggiore dell’esercito, dall’esecutivo speciale nato per portare avanti la guerra ad Hamas, non ha cambiato l’assetto istituzionale israeliano. Ha avuto un valore politico anche serio e nessun valore pratico. È venuta sicuramente meno una presenza importante sia per esperienza, sia come auriga che possa tenere strette le briglie del “cavallo” Netanyahu, evitando che faccia fughe in avanti. Insomma, l’unico che metteva pressione a Netanyahu dall’interno, visto che quelle esterne di Usa e altri, pare non funzionino.
Il gabinetto di guerra è una sorta di struttura governativa parallela all’esecutivo uscito vincitore dalle elezioni del 2022. E che, nonostante le dimissioni di Gantz, continua ad esistere, perché il partito di Unità Nazionale non concorre all’attuale maggioranza di 64 parlamentari, uscita vincitrice dalle ultime urne.
Gantz entrò nel gabinetto di guerra, mentre l’altro capo dell’opposizione Yair Lapid si rifiutò, sia su spinta americana che della sinistra israeliana e della piazza. Finita l’onda emotiva del massacro, chiedevano una presenza moderata e di esperienza nell’esecutivo che doveva decidere la direzione della guerra.
Il gabinetto nacque pochi giorni dopo il massacro di Hamas. In verità, Netanyahu e i suoi non avevano bisogno di allearsi con altri, visto che avevano la maggioranza assoluta. Ma il momento lo esigeva, l’azione impensabile di Hamas necessitava di una risposta politica che unisse un paese che aveva visto poderose manifestazioni antigovernative in piazza, per la riforma della giustizia voluta dall’esecutivo.
I rapporti tra Netanyahu e Gantz non sono mai stati buoni. A maggio 2020 i due giurarono in un governo di coalizione nel quale dovevano essere premier a rotazione. Ma Netanyahu, dopo il suo turno, venne meno al patto. Ad aprile, Gantz ha chiesto elezioni anticipate, mentre a maggio il suo partito ha presentato una legge di scioglimento della Knesset che, ovviamente, non ha i voti per essere approvata.
Ma Bibi ha problemi anche all’interno della stessa sua maggioranza. I due sodali estremisti, Ben Gvir e Smootrich, non vogliono saperne di nessun accordo con Hamas. Vorrebbero riprendersi Gaza e installarci colonie. Vorrebbero cancellare la Palestina, i palestinesi e i loro sogni e legittime aspirazioni per uno stato. Una evenienza che, seppur in una sua parte non marginale, lo stesso Netanyahu appoggia, anche se per ragioni istituzionali non può esprimerlo pubblicamente, per evitare un ancora ulteriore allontanamento di opinione pubblica interna ed esterna e l’appoggio di stati a Israele. Senza contare che l’unica opposizione interna a Netanyahu è rappresentata dal suo ministro della difesa. Già critico quando c’era da approvare la legge sulla giustizia, tanto da essere prima licenziato e poi riassunto nel governo, Gallant si oppone alla proposta di evitare il servizio di leva agli haredim, i puri, i religiosi.
E la gestione dell’ultima proposta di cessate il fuoco e liberazione ostaggi, avanzata da Israele e resa pubblica da Biden, è un altro segno di malumori interni ed esterni. Il presidente americano ha fatto una fuga in avanti, mettendo Netanyahu dinanzi al fatto compiuto avanzando clausole, come la fine della guerra, che Israele non vuole sentir nominare fino a quando non ci sia l’annientamento di Hamas o la sicurezza che il gruppo di Gaza non possa può nuocere. Un’ipotesi, quella della fine della guerra, che non trova concordi Ben Gvir e Smootrich che hanno minacciato di uscire dall’esecutivo. Cosa che potrebbe comportare elezioni anticipate.
Del resto, in questa prospettiva, il premier aveva detto al Comitato per gli Affari Esteri e la Sicurezza della Knesset, il Parlamento israeliano, che “l’affermazione secondo cui abbiamo concordato un cessate il fuoco senza che le nostre condizioni fossero soddisfatte non è vera”, con riferimento, molto probabilmente, all’ipotesi di cessate il fuoco permanente che invece è fortemente auspicato da Biden e compagni. Il portavoce di Netanyahu ha detto ai giornalisti in un briefing che Biden aveva presentato solo uno schema “parziale” dell’accordo offerto da Israele a Hamas, spiegando che “La guerra verrà fermata allo scopo di restituire gli ostaggi e poi procederemo con ulteriori discussioni”.
Se gli sforzi di Netanyahu di convincere i ministri di destra a evitare di scegliere tra un accordo e la sopravvivenza del suo governo, dovessero fallire, c’è già chi si offre come alternativa. Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, ha fatto sapere di essere pronto ad aiutare il governo almeno a raggiungere l’accordo, fornendo una stampella a tre insieme ad Avigdor Liberman, capo del partito russofono, e all’ex delfino di Netanyahu Gideon Sa’ar. Per loro, la promessa di elezioni anticipate, anche se non subito.
In questo isolamento israeliano un ruolo importante lo gioca sicuramente l’alleato americano. Il quale, se da un lato non fa mancare il suo appoggio economico e di armamenti, dall’altro critica Israele per la gestione della guerra. Ma la tara della questione sono le elezioni americane. E’ indubbio che Biden ha necessità di non perdere consensi. Le manifestazioni nei campus universitari, per quanto legittime e denuncia di un massacro che senza possibilità di smentita va avanti a Gaza a causa delle armi israelo-americane (e con la complicità di Hamas i cui leader hanno più volte detto che il sangue delle donne e dei bambini è necessario), dall’altro lato hanno dimostrato non solo che spesso chi manifesta non conosce bene i fatti (si sono uniti ad esempio alle proteste gruppi LGTBQ+ che, in Cisgiordania come a Gaza rischierebbero la morte), ma che sono state eterodirette, con bandiere di Hamas e di Hezbollah consapevolmente e inconsapevolmente esposte, con l’intervento di paesi arabi che finanziano le università americane. Biden sulla proposta di tregua ha fatto una fuga in avanti, obbligando Israele ad accettare un accordo con clausole che non riconosce del tutto.
La strategia di Gerusalemme verso Washington è chiara: aspettare e sperare che alla Casa Bianca salga Trump, più vicino a Netanyahu. E intanto, la guerra anche al nord, dove si sta facendo sempre più intensa, oltre che a Gaza, può continuare.
Lo Stato ebraico, dopo il 7 ottobre, è dovuto necessariamente entrare in una fase di ricalibrazione sia interna che esterna, rivedendo capisaldi e alleanze, mutando non poco obiettivi, modi, istanze.
Il massacro perpetrato da Hamas nel sud di Israele, la conseguente risposta dell’esercito di Gerusalemme con il suo pesante fardello di vittime, certamente rappresentano un momento centrale nella storia del paese. Una storia che oggi deve necessariamente fare i conti con i cambiamenti della società sia israeliana che dall’esterno, che spingono a rivedere rapporti, relazioni anche di forza, e priorità.