Ancora una volta, la Francia è al centro della storia europea, di nuovo arbitro delle sorti del processo di integrazione. Tra qualche settimana quasi sessanta milioni di francesi si pronunceranno sulla ratifica della Costituzione. L’alternativa è secca: sì o no, dentro o fuori.
Proprio come nel ’54, quando il 30 agosto il voto dell’Assemblea nazionale di Parigi fece fallire la CED, congelando per decenni l’aspirazione a una Comunità politica. Prima di allora, il progetto di unificazione europea aveva mosso alcuni passi e provocato tante discussioni e spaccature. Nel pieno del dopoguerra e della ricostruzione, attorno a quell’idea avevano preso corpo prospettive ambiziose, forse troppo rispetto al livello di maturazione che era stato nel frattempo raggiunto. Vi fu un momento, tra il 1952 e il 1953, in cui il sogno dei padri fondatori parve realizzarsi. Dietro l’angolo gli Stati Uniti d’Europa. Poi, la battuta d’arresto che conosciamo: dovendo bloccare la marcia dell’integrazione politica e della difesa, e sviluppandosi, quasi per via subordinata, attorno alle politiche industriali e commerciali, la Comunità abbandonò le ambizioni politiche puntando tutto sull’economia. Storia alla mano, quel voto non fu per l’Europa la sventura temuta. Senza, probabilmente, non avremmo potuto concentrare le nostre migliori energie sulla costruzione dell’Unione monetaria o sulla liberalizzazione del mercato interno. E magari la Comunità sarebbe oggi una sorta di Consiglio d’Europa in versione ristretta o una riedizione continentale della Nato.
Per il referendum del 29 maggio, invece, non ci saranno prove d’appello. E questo perché abbiamo sempre differito il momento delle scelte, preferendo incassare risultati importanti ma non decisivi, piuttosto che procedere a un responsabile ma pericoloso redde rationem. La realtà è che di rinvio in rinvio l’Europa è cambiata nei fatti. E oggi sarebbe irresponsabile non lanciare un forte campanello d’allarme. Partendo proprio dall’appuntamento francese. Il nodo della ratifica della Costituzione per via referendaria interesserà, infatti, altri 10 Stati, ma non è da escludere che, nel caso in cui un Paese minore o fuori dalla zona euro bocciasse il testo, la crisi conseguente sarebbe superabile. Al contrario, un eventuale no francese
avrebbe i caratteri dell’irreversibilità. Con ripercussioni traumatiche sulla sostenibilità di una costruzione politica orfana di uno dei Paesi fondatori, per di più da sempre motore dell’integrazione.
Indipendentemente dall’esito referendario, tuttavia, gli equilibri dell’attuale architettura comunitaria rischiano di saltare sotto l’urto dell’ennesima spinta contrapposta tra comunitarismo e metodo intergovernativo. A un’articolazione delle competenze condizionata
da procedure sempre più complesse e farraginose occorreva rispondere con una cornice istituzionale di riferimento, in grado di assicurare stabilità e consistenza politica alla nuova Europa allargata.
L’accordo raggiunto sul testo della Costituzione, ancorché confortante, pare giungere fuori tempo massimo. E soprattutto risente di una generale difficoltà nel comunicarne valore e contenuti ai cittadini europei. È difficile, infatti, vendere l’Europa come un successo all’operaio dell’impresa tessile colpita, alla scadenza dell’accordo multifibre, dall’invasione dei prodotti cinesi. È difficile farlo con il produttore di pomodori spagnolo o italiano in apprensione per l’arrivo di derrate da ogni angolo del mondo. Oppure con il lavoratore sloveno o polacco che pensava di diventare finalmente cittadino europeo e invece si ritrova vincolato da una moratoria che limita la sua mobilità nel territorio dell’Unione. Ma, soprattutto, è davvero difficile che tutto ciò accada in un’Europa che, pur in una fase di slancio dell’economia mondiale, ha vissuto anni di stagnazione e oggi continua a non crescere.
Di fronte a tutto questo, come comunicare il fascino di una carta costituzionale? Un referendum di ratifica su scala europea avrebbe presumibilmente contribuito ad avviare una riflessione di alto profilo su queste e altre sfide, concentrando l’attenzione sull’Europa di domani. Le consultazioni nazionali, invece, finiscono con lo svilire i termini del dibattito.
Esattamente come sta avvenendo in Francia, dove il progetto più ambizioso del XX secolo sembra esser diventato uno dei tanti terreni di scontro della campagna elettorale per le presidenziali 2007.
Chissà che, anche questa volta, come nel ’54, il voto francese alla fine non dia l’impulso giusto. Affinché ciò accada, non è il continuismo burocratico il metodo vincente. C’è bisogno, piuttosto, di una accelerazione che forse solo i Paesi fondatori possono imprimere. A patto, naturalmente, che, pur resistendo a ogni tentazione neostatalista, essi siano in grado di reinventare l’Unione, proponendo una nuova cultura di governo dell’economia e della società, in cui Stato e mercato trovino un equilibrio inedito rispetto a quello delle socialdemocrazie storiche, ma diverso anche da un modello incentrato unicamente sul mercato e sulle sue logiche interne.
Ancora una volta, la Francia è al centro della storia europea, di nuovo arbitro delle sorti del processo di integrazione. Tra qualche settimana quasi sessanta milioni di francesi si pronunceranno sulla ratifica della Costituzione. L’alternativa è secca: sì o no, dentro o fuori.
Proprio come nel ’54, quando il 30 agosto il voto dell’Assemblea nazionale di Parigi fece fallire la CED, congelando per decenni l’aspirazione a una Comunità politica. Prima di allora, il progetto di unificazione europea aveva mosso alcuni passi e provocato tante discussioni e spaccature. Nel pieno del dopoguerra e della ricostruzione, attorno a quell’idea avevano preso corpo prospettive ambiziose, forse troppo rispetto al livello di maturazione che era stato nel frattempo raggiunto. Vi fu un momento, tra il 1952 e il 1953, in cui il sogno dei padri fondatori parve realizzarsi. Dietro l’angolo gli Stati Uniti d’Europa. Poi, la battuta d’arresto che conosciamo: dovendo bloccare la marcia dell’integrazione politica e della difesa, e sviluppandosi, quasi per via subordinata, attorno alle politiche industriali e commerciali, la Comunità abbandonò le ambizioni politiche puntando tutto sull’economia. Storia alla mano, quel voto non fu per l’Europa la sventura temuta. Senza, probabilmente, non avremmo potuto concentrare le nostre migliori energie sulla costruzione dell’Unione monetaria o sulla liberalizzazione del mercato interno. E magari la Comunità sarebbe oggi una sorta di Consiglio d’Europa in versione ristretta o una riedizione continentale della Nato.