Appena terminate le elezioni di metà mandato Donald Trump ha licenziato Jeff Sessions, il procuratore generale degli Stati Uniti d’America. Sessions è stato l’artefice della politica di “tolleranza zero” dell’amministrazione Trump contro l’immigrazione, che negli scorsi mesi si era espressa anche attraverso la separazione dei migranti minorenni dai propri genitori e la loro detenzione. Nonostante una certa comunanza di vedute, tra il presidente e Sessions non correva buon sangue – Sessions si era rifiutato di supervisionare l’indagine sulle ingerenze russe –, e le dimissioni del procuratore generale erano in un certo senso attese.
Chi sarà il prossimo a venire licenziato? Se lo chiede già Politico, che ipotizza anche qualche nome: e quello di Kirstjen Nielsen, la segretaria della Sicurezza interna, è il primo. Trump l’ha già attaccata molte volte e con molta durezza, dandole la colpa per la crescita del numero di migranti fermati alla frontiera sud, tanto che lo scorso maggio il New York Times scrisse che Nielsen era sul punto di dimettersi. Ma non lo fece, forse convinta da John Kelly, il capo dello staff della Casa Bianca e suo “protettore”.
In Messico il governo entrante di Andrés Manuel López Obrador ha presentato giovedì un’iniziativa di legge per regolare la produzione e il consumo – anche a scopo ricreativo – della marijuana. Il modello di riferimento è il Canada, mentre l’obiettivo principale della proposta è quello di ridurre l’altissimo livello di violenza nel Paese. Legalizzare la marijuana è cosa buona e giusta, scrive l’analista Alejandro Hope sulle colonne di El Universal, ma non sarà di nessun aiuto contro gli omicidi: la marijuana c’entra poco con le effettive cause della violenza in Messico, anche perché negli ultimi anni il contrabbando di cannabis ha perso di rilevanza rispetto alle altre droghe. In Uruguay, inoltre, dal 2013 ad oggi il tasso di omicidi non è diminuito ma aumentato.
L’altro tema caldo per i giornali messicani – e continuerà probabilmente ad esserlo ancora per molto – è la cancellazione del progetto per il nuovo aeroporto di Città del Messico. Al referendum – non esattamente legale né ben organizzato – indetto sul tema da López Obrador, contrarissimo alla costruzione, ha vinto il no con il 70%. L’aeroporto non si farà, dunque. Nel frattempo, la moneta messicana e le borse sono crollate.
López Obrador dice adesso di voler realizzare un altro referendum, stavolta sulla costruzione del Treno Maya, la ferrovia turistica nel sud del Messico che ha promesso in campagna elettorale. E dice di volerlo realizzare ancora una volta senza l’Istituto elettorale, l’organo che vigila sulla regolarità delle elezioni. L’editorialista Luis Rubio ha scritto su Americas Quarterly che l’utilizzo strumentale del referendum e la volontà di indebolire gli organismi indipendenti avvicinano López Obrador al modello politico messicano degli anni Sessanta, quando i presidenti erano “forti” e concentravano nelle loro mani tutto il potere. Il mandato di López Obrador inizierà a dicembre.
Parliamo ora di Steve Bannon. Da quando è stato cacciato dalla Casa Bianca, l’ex-stratega capo di Donald Trump ha mostrato un interesse particolare per l’Europa e la sua schiera di partiti sovranisti. Ma non ha dimenticato il Nordamerica. Di recente è stato a Toronto, in Canada, per tenere un dibattito con David Frum – commentatore politico canadese di orientamento conservatore, che ha lavorato come scrittore di discorsi per George W. Bush – sul ruolo del populismo nella politica occidentale.
Non è andata bene, per Bannon: è stato fischiato, insultato e deriso. Mentre spiegava che Trump non può essere accusato di islamofobia perché la sua prima visita ufficiale è stata in Arabia Saudita, ad esempio, la platea si è messa a ridere.
L’opinione pubblica canadese era contraria all’evento e ne chiedeva con forza la cancellazione. Il quotidiano The Star ha spiegato però, in un editoriale, che vietare il dibattito sarebbe stato sbagliato: Bannon non era stato invitato per essere celebrato, ma per essere contestato.
Questo modo canadese di gestire l’estremismo politico – affrontarlo, non silenziarlo – emerge anche dalle linee generali di un progetto che il governo di Ottawa si appresta a lanciare per prevenire la radicalizzazione online. Il progetto si chiama Canada Redirect, avrà un costo di 1,5 milioni di dollari e funzionerà attraverso delle inserzioni mirate: ad ogni utente che cercherà contenuti estremisti su Internet– suprematismo bianco, neo-fascismo o terrorismo islamista, ad esempio – verranno mostrati degli annunci con siti “benigni”. Invece di cercare di impedire l’accesso a certe pagine web, la logica è quella di «reindirizzare» altrove i click. Il Globe and Mail entra più nel dettaglio.
@marcodellaguzzo