Insistiamo ancora sulla domanda?
Rientra tra le manovre economiche espansive questa del 2019, come quella del 2018. Ancora niente investimenti pubblici invece
Rientra tra le manovre economiche espansive questa del 2019, come quella del 2018. Ancora niente investimenti pubblici invece
La manovra di bilancio che è uscita dal Parlamento italiano è molto diversa da quella che vi era entrata, sebbene ciò sia avvenuto senza alcuna possibilità di discussione – anzi, senza alcuna possibilità di conoscenza – da parte dello stesso Parlamento eletto dal popolo. Ma è molto diversa, a conti fatti, da quelle dei precedenti Governi? Per tirare le linee di continuità e discontinuità rispetto al passato recente bisogna seguire tre parole-chiave: clausole di salvaguardia, interessi, investimenti. Le prime sono una specialità italiana, cucinata per la prima volta nel 2011, ultimo Governo Berlusconi, e rinnovata di anno in anno dal Governo tecnico di Monti, i tre di centrosinistra di Letta, Renzi e Gentiloni, e quello di destra Salvini-Di Maio. Le altre due sono spese importanti, comuni a tutti i bilanci pubblici ma cruciali per quello italiano, Paese ai primi posti in Europa nel debito pubblico e agli ultimi negli investimenti pubblici.
Le clausole di salvaguardia, alias tagliole – il cui meccanismo è pronto a scattare se non si trovano i soldi in altro modo – sono una costante della finanza pubblica italiana dall’anno 2011. Inventore, Giulio Tremonti, Ministro delle Finanze del Governo Berlusconi nel pieno della tempesta dei debiti sovrani europei. Le clausole di Tremonti erano un po’ diverse da quelle dei suoi successori, poiché prevedevano due possibilità alternative, entrambe dolorosissime: un taglio lineare delle spese oppure l’aumento dell’Iva.
Dal 2015 la tagliola diventa a senso unico, e prevede solamente l’aumento dell’Iva. Vale come garanzia per la Commissione Europea e il rispetto dei paletti mobili del rapporto deficit/Pil, e vincolo per il Governo nazionale. Che così da sette anni dedica la maggior parte delle proprie manovre al disinnesco delle clausole. E da allora questo è sempre avvenuto ricorrendo almeno in parte al deficit, cioè aumentando l’indebitamento dello Stato. È un paradosso: metto le clausole per garantire che non sforerò il deficit e poi faccio deficit per disinnescarle. Solo che nei Governi del centrosinistra il “disinnesco” è avvenuto concordando la quota di deficit consentita, contrattando la flessibilità. Stavolta, con la prima manovra del primo Governo populista d’Europa, la contrattazione è avvenuta dopo la manovra, con una sua versione-bis, mentre la versione originaria era un’aperta sfida agli stessi paletti europei. La differenza può sembrare solo psico-politica, ma poiché l’economia si nutre di aspettative il suo effetto non è stato da poco, per la lievitazione dello spread e dunque delle spese per interessi sul debito che ha peggiorato la situazione contabile.
Non è però questa l’unica differenza. L’altra è nel timing della tagliola. Anche il Governo Conte, come i precedenti, ha limitato l’intervento di disinnesco delle clausole al primo anno (una prassi criticata, perché fonte di incertezza, dall’Upb nei suoi rapporti annuali). Ma stavolta il Governo attuale non solo si è limitato ad annullare la tagliola solo per il breve periodo – un anno – ma ha fatto di più: l’ha ingigantita per i due anni successivi. Così che, adesso ci si trova con un aumento programmato di Iva e accise per 23 miliardi nel 2020 e quasi 29 nel 2021 (rispettivamente, 9,4 e 13 miliardi in più di quanto già lasciato “in eredità” delle programmazioni dei precedenti Governi). Il solo scattare delle clausole porterebbe la pressione fiscale al 43-44% (cifre date, come stima, dal presidente dell’Upb Giuseppe Pisauro in Parlamento rispondendo a domande dei deputati), facendola salire di 1,2 e 1,5 punti di Pil. Qualora invece le clausole venissero disattivate senza coperture alternative, il rapporto tra deficit e Pil salirebbe alla fatidica soglia 3% per il 2020 e il 2021.
Ce lo ha ricordato il commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici: spendiamo ogni anno più in interessi che per l’istruzione. La spesa per onorare i debiti con i detentori dei titoli pubblici italiani (il 30% dei quali residente all’estero, una quota in riduzione ma tuttavia significativa) era di 83,6 miliardi nell’anno 2012, all’apice della crisi dei debiti sovrani; ed è pian piano scesa, fino ai 65,5 del 2017. Merito della riduzione dei tassi di interesse e dello spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi, due fattori a loro volta determinati dal quantitative easing della Bce e dalla linea di negoziazione aperta tra Governo italiano e autorità europee.
Entrambe le condizioni sono mutate nel corso del 2018, per l’avvicinarsi della fine del Qe e per l’iniziale sfida portata dal Governo italiano alla Commissione Europea. La spesa per interessi ha ripreso a crescere nella seconda metà dell’anno, nei mesi della cavalcata dello spread e dell’aumento dei tassi dei titoli pubblici italiani. I conti li ha fatti Bankitalia nella sua audizione conoscitiva sulla manovra: nella seconda parte del 2018, il solo cambiamento delle aspettative ha fatto aumentare la spesa per interessi di 1,5 miliardi (mesi giugno-novembre). Secondo le stime di Bankitalia, se non si invertiranno le tendenze sui tassi la spesa per interessi salirà di 5 miliardi nel 2019 e 9 nel 2020. Dopo il patto con Bruxelles, le tensioni si sono ridotte, ma potrebbero riesplodere a breve, anche per l’effetto collegato di tutto ciò sulla stabilità delle banche italiane, il cui patrimonio potrebbe essere indebolito da ulteriori deprezzamenti dei titoli pubblici nazionali.
L’ultima Nota tecnica del Mef ha ancora una previsione di spesa per interessi in leggero calo, ma con tutta probabilità sarà rivista nei conti finali. E, nel rapporto con il Pil, le previsioni ufficiali già danno per certa l’inversione di rotta per i prossimi anni: una risalita della spesa, dal 3,7% previsto nel 2018 al 3,8 nel 2020 al 4% nel 2021. Si è invertita dunque una tendenza alla riduzione del rapporto tra servizio del debito e Pil iniziata nel 2013 (quanto era al 4,8%). Ed è questa probabilmente la più sostanziale discontinuità della politica economica dell’ultimo periodo: aumentano le risorse – già notevoli – che dobbiamo spostare ogni anno dal bilancio pubblico ai titolari di rendita.
L’incertezza non agisce solo sullo spread. Ma, ha detto il Presidente dell’Upb Pisauro nell’audizione prima citata, influenza anche lo stesso impatto espansivo della manovra. Il moltiplicatore della spesa pubblica o della riduzione delle tasse, quel numeretto sul quale si sono intoppati gli economisti di punta nel mondo (al punto che il Fmi ha fatto autocritica, per non aver previsto bene l’impatto devastante che le politiche di austerity avrebbero avuto nel tempo della crisi), dipende anche dalla credibilità del Governo che mette in atto le misure stesse. E ovviamente dal tipo di spesa: per quanto incerte possano essere le stime sui moltiplicatori, è pressoché unanime l’idea che la spesa per investimenti “renda” di più di quella corrente.
Altrettanto unanime però è la tendenza dei Governi a preferire la spesa corrente. Lo hanno fatto le manovre espansive del centrosinistra (dagli 80 euro alla decontribuzione, fino agli ultimi rinnovi nel pubblico impiego) e lo fa, in misura più forte, la manovra 2019 con i fondi appostati in bilancio per reddito di cittadinanza e pensioni. La spesa per investimenti pubblici in Italia è scesa dal 2008 a un ritmo medio del 4% all’anno; in dieci anni, si è ridotta di un punto di Pil. Nella prima versione della manovra del popolo c’era un piccolo aumento, poi cancellato per ridurre il ricorso al deficit e rientrare nei parametri europei – nonostante proprio la Commissione avesse denunciato un “deficit” di investimenti pubblici in Italia. Un deficit di cui nessuno, al momento, si cura.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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