Bibi vince, ma poi?
Con l'aiuto dello stallo palestinese e della crescita economica ha vinto ancora l'uomo forte, che però ora non riuscirà a governare, forse...
Con l’aiuto dello stallo palestinese e della crescita economica ha vinto ancora l’uomo forte, che però ora non riuscirà a governare, forse…
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Quello che, più di una elezione politica, sembrava un referendum sull’uomo che per quattro mandati, tre consecutivi, ha guidato Israele, è terminato con il risultato probabilmente meno certo: la vittoria netta di Benjamin Netanyahu. Già perché il risultato elettorale dello scorso 9 aprile che ha consegnato Israele di nuovo a Bibi per il quarto mandato consecutivo (solo David Ben-Gurion ha fatto meglio di lui, guidando il Paese dalla sua nascita per cinque mandati consecutivi come premier), non sembrava così sicuro, per una serie di fattori. In primo luogo gli scandali e le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto lui e sua moglie Sara, per poi passare alle sue posizioni intransigenti nei confronti della Palestina e dei vicini (basti pensare al riconoscimento dell’annessione del Golan, i raid in Siria e le promesse di nuove annessioni), il suo strizzare l’occhio agli estremisti di destra, soprattutto religiosi, il suo ricevere pesanti endorsment da Trump, Putin e Bolsonaro.
In Israele è successo quello che si è visto in molti Paesi, Italia compresa: ha vinto l’uomo forte, quello che parla alla pancia del Paese, quello che assicura ricchezza e stabilità e, soprattutto, sicurezza. Anche se tutto questo è a discapito di una consistente parte della popolazione, di accordi internazionali e, a sentire le Nazioni Unite, anche delle leggi e regolamenti internazionali sui diritti umanitari.
Netanyahu ha vinto nettamente, anche se molti erano però convinti che votare Netanyahu o il suo antagonista, l’ex capo di stato maggiore dell’esercito, nominato proprio da Netanyahu, Benny Gantz, sarebbe stata la stessa cosa. Non si esclude, in queste ore, la possibilità che formino una Große Koalition.
L’elezione o, meglio, il referendum su Netanyahu, è stato vinto proprio dalla pancia del Paese. Dopotutto Bibi è il leader i cui Governi, hanno assicurato una stabilità e crescita economica notevole. Secondo i dati della Banca Mondiale, negli ultimi 5 anni è stata registrata una crescita media annua del 3%. Nel 2017, i dati pubblicati dall’Ufficio Centrale di Statistica israeliano (CBS – Central Bureau of Statistics), mostrano un Pil in crescita del 3,3%, lievemente più basso del dato del 2016 che era il 4%. Per il 2018, il tasso dovrebbe essere del 3,8%, con un Pil pro-capite in crescita: nel 2015 era 35.200 dollari, nel 2016 di 25.900 Usd e nel 2017 di 36.400 Usd, ponendo Israele al 55mo posto tra i 228 Paesi presi in esame (l’Italia è al 50mo posto con poco più di 38.000 Usd pro-capite). Il dato certamente più significativo è quello dell’occupazione: in una forza lavoro di poco più di 4 milioni di persone, solo il 4,2% degli israeliani nel 2017 erano senza lavoro, in discesa rispetto al 4,8% del 2016. Praticamente nel Paese tra la popolazione israeliana, sia essa araba o ebraica, non c’è disoccupazione, ponendo il Paese al 55mo posto insieme alla Norvegia (l’Italia è al 156 posto). Scende anche il debito pubblico: se nel nostro Paese, che è al quinto posto del ranking mondiale, il dato è del 131,80% del Pil, in Israele è meno della metà, il 61,30% del Pil nel 2017 in discesa di 2 punti percentuali rispetto al 2016. Basso anche il tasso di inflazione, che nel 2017 è stato registrato allo 0,20, oltre un punto percentuale meno che in Italia, grazie anche a tassi di interesse ai minimi.
Ovviamente non è tutto oro quello che luccica: studi recenti, in particolare uno condotto dalla Ong israeliana Latet, riferiscono che 2.345.000 israeliani (1.041.000 bambini pari al 36,5% del totale e 1.304.000 adulti pari al 22%), il 26,5% della popolazione, si trova in difficoltà economiche di vario genere e vive sotto la soglia della povertà (fissata a 7,30 dollari al giorno). La maggioranza di questi sono membri delle comunità non ebraiche, in particolare arabe, le stesse che con la loro astensione al voto hanno spinto Netanyahu alla vittoria condannando invece la sinistra.
La vittoria di Bibi non è solo dovuta all’economia. Gli ultimi quattro anni, come ha fatto notare un editoriale di Haaretz, sono anche stati quelli di maggiore tranquillità nel Paese. E in Israele, dove la maggior parte delle case e comunque tutti i quartieri hanno le safe rooms dove ripararsi in caso di attacchi missilistici o simili, la sicurezza è un argomento molto sensibile.
I rapporti con i palestinesi non sono tra i migliori, sicuramente per colpa di un Governo che continua a ignorare coloro che vivono dentro e fuori Israele e che continua a minacciare di prendere loro territori, ma complice anche un Governo palestinese che deve sostenere importanti sfide interne e che non pare rappresentare tutti.
Netanyahu è stato capace di andare oltre, aprendo nuove rotte di dialogo internazionale. Oltre a cementare la santa alleanza con gli altri uomini forti come Donald Trump, Vladimir Putin, Jair Bolsonaro e Narendra Modi, il premier israeliano ha guardato verso i Paesi arabi, verso i Paesi del Golfo. Attualmente Israele ha rapporti diplomatici solo con due stati arabi, Giordania ed Egitto, ma il premier, che per gran parte del suo ultimo mandato è stato contemporaneamente anche Ministro della Difesa e, soprattutto, degli Esteri, si è recato in visita in Oman, ponendo le basi per ottime relazioni. Ha incontrato i leader del Chad, gli è stato permesso di volare sul Sudan, ha detto di voler tessere relazioni con l’Arabia Saudita che, di contro, ha riaperto lo scorso mese lo spazio aereo a un volo israeliano che arrivava dagli Emirati Arabi. Alla conferenza internazionale di Varsavia lo scorso febbraio, Netanyahu era seduto a cena con i rappresentanti dei Paesi arabi. Restano certamente i nodi Iran, Siria e Libano, ma molto è legato alle questioni di politica interna, soprattutto al rapporto tra i palestinesi di Ramallah e quelli di Gaza.
È qui che si può giocare il prossimo futuro di Israele. La tornata elettorale è stata preceduta da attacchi missilistici da Gaza verso Tel Aviv con conseguente forte risposta da parte dell’esercito israeliano. Da oltre un anno (da marzo 2018) ogni venerdì gli abitanti di Gaza manifestano lungo il confine di Israele in quella che chiamano la marcia del ritorno, per chiedere di riottenere le terre a loro sottratte dagli israeliani. Una sola volta si sono fermati: quando sono partiti il mese scorso i razzi verso Israele. Il motivo è semplice: Hamas ha voluto prendere le distanze da questo lancio di razzi, accusando altri gruppi.
La situazione nella Striscia è particolarmente disperata. Non a caso, in uno dei pochi esercizi di democrazia nell’area, migliaia di abitanti di Gaza sono scesi in piazza per protestare contro Hamas e i suoi leader che, a detta loro, si arricchiscono mentre chi vive nella Striscia patisce letteralmente la fame.
La sopravvivenza a Gaza è garantita da una elemosina del Qatar a 94.000 famiglie che ricevono 100 dollari a settimana. Dal 2012 al 2018 l’Emirato ha inviato oltre 1,1 miliardi di dollari a Gaza, 200 milioni solo l’anno scorso. Soldi che arrivano grazie all’accordo tra Israele e Hamas, in cambio di calma al confine. Anche l’elettricità o, meglio, il carburante con il quale vengono alimentati i generatori che fanno funzionare gli ospedali nelle decine di ore nelle quali la corrente è tagliata. Carburante che arriva grazie alla mediazione egiziana e all’autorizzazione di Israele.
Ma se per gli abitanti della Striscia gli israeliani sono colpevoli di aver occupato il loro territorio e di uccidere i manifestanti, in quelle che le forze israeliane chiamano operazioni di difesa contro gli attacchi al confine (attacchi spesso effettuati con palloni e aquiloni che trasportano bombe), per gli stessi abitanti il colpevole della situazione Gaza è la Palestina, è Al-Fatah, è Mahmud Abbas (Abu Mazen).
Nel 2005 Abbas diventa Presidente dell’autorità palestinese succedendo all’interim di Rawhi Fattuh e al regno di Yasser Arafat. Alla scadenza del suo mandato quattro anni dopo, lo ha prorogato ancora di un anno e poi fino ad oggi. Nel 2006 Hamas vince le elezioni parlamentari e l’anno dopo occupa militarmente la Striscia. Da allora, i rapporti tra Al-Fatah e Hamas sono ai minimi storici ed è lo stesso Abbas a imporre sanzioni a Gaza, evitando di pagare salari e impoverendo la gente. L’idea di Abu Mazen è chiara: la Palestina da anni chiede il riconoscimento internazionale. Attualmente all’Onu siede in uno seggio speciale come paese non membro osservatore creato apposta, anche se dal gennaio di quest’anno è Presidente del Gruppo 77 + Cina, un insieme di 134 Paesi in via di sviluppo più la Cina (tra i quali anche India, Brasile, Indonesia), che rappresenta l’80% della popolazione mondiale. Per diventare Paese membro, deve ottenere il placet anche dai Paesi che siedono nel Consiglio di Sicurezza, tra i quali gli Usa, che chiedono le distanze dal terrorismo e Hamas è catalogata come organizzazione terroristica. Pertanto, secondo il leader palestinese, imponendo sanzioni a Gaza e portando i residenti della Striscia all’esasperazione, questi non dovrebbero più sostenere Hamas ma Fatah. Nell’attesa di questo, cambia Governi (l’ultimo è appena stato formato da premier incaricato oltre un mese fa), non indice elezioni. E gli ultimi sondaggi, danno Fatah perdente contro Hamas.
E questa è una gatta da pelare anche per Netanyahu, che si trova tra due fuochi. Da un lato infatti non vuole cedere territorio e sovranità (anzi, annuncia sempre nuovi insediamenti in barba alle indicazioni internazionali), dall’altro vuole garantire sicurezza. Ma si trova degli interlocutori senza peso. La mediazione egiziana è più volte servita a limitare i danni, ma anche gli egiziani sono stanchi dei giochi di Ramallah.
Tutto questo, spiega sia lo stallo del processo di pace, sia del riconoscimento palestinese, sia della grande astensione elettorale degli arabi israeliani che, pur avendo gli stessi diritti degli ebrei, si sentono emarginati. E spiega anche la scomparsa della sinistra israeliana, soprattutto quel Labour Party che ha fondato il Paese, che l’ha guidato per i suoi primi 30 anni, che ha avuto leader come Ben Gurion, Golda Meir, Ytzhak Rabin e Shimon Peres. E anche questo risultato riguarda la questione di sicurezza. Anche se lo Stato d’Israele è nato storicamente sull’idea socialista, se i laburisti si sono spesi sempre per la politica dei due Stati, verso l’integrazione delle minoranze arabe e il dialogo con i palestinesi, il Paese non crede più a questo modo di concepire la sua vita.
Complice anche il fatto che l’interlocuzione palestinese, come dicevamo, non è rappresentativa, gli israeliani hanno deciso fermamente di lasciarsi alle spalle l’idea di uno stato bi-nazionale (arabi ed ebrei) e di due Stati (Israele e Palestina). Proprio alla sinistra che li ha voluti e ottenuti vengono imputate le responsabilità degli Accordi di Oslo, bloccandone la timeline di attuazione, e per questo è stata punita, perdendo sonoramente (6 seggi ottenuti contro i 19 della passata legislatura). Ma non solo: secondo un sondaggio di Haaretz, organo certamente non vicino alla destra israeliana, il 42% degli israeliani è a favore dell’annessione di una parte (60%) della Cisgiordania occupata. Tra questi anche molti di coloro che si dicono a favore della soluzione di due stati per due popoli.
Netanyahu ha promesso nuove annessioni, dovrebbe restare in carica riuscendo anche ad ottenerle, sempre che non venga giudicato colpevole in uno o più dei tre casi di corruzione per i quali a febbraio scorso il procuratore generale ha chiesto l‘incriminazione.
Con l’aiuto dello stallo palestinese e della crescita economica ha vinto ancora l’uomo forte, che però ora non riuscirà a governare, forse…
In Israele è successo quello che si è visto in molti Paesi, Italia compresa: ha vinto l’uomo forte, quello che parla alla pancia del Paese, quello che assicura ricchezza e stabilità e, soprattutto, sicurezza. Anche se tutto questo è a discapito di una consistente parte della popolazione, di accordi internazionali e, a sentire le Nazioni Unite, anche delle leggi e regolamenti internazionali sui diritti umanitari.
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