Uno scenario allarmante fa da sfondo all’aspro dialogo tra Usa e Iran e rischia di esplodere, con effetti devastanti. Urge un intervento multinazionale
Anche se non si può certo dire che nei primi tre anni del suo mandato la politica estera del Presidente Trump abbia evidenziato una esemplare continuità, vi sono stati tuttavia alcuni particolari argomenti, e primo fra tutti quello dei rapporti fra gli Usa e l’Iran, in cui l’operato del Commander in Chief Usa è sempre risultato lineare e coerente. Sin dall’inizio della sua Presidenza, Trump aveva infatti chiarito come ritenesse del tutto insufficiente l’accordo sul nucleare faticosamente raggiunto dall’Occidente con Teheran qualche tempo prima e firmato dalla precedente amministrazione. In particolare, Mister President avrebbe voluto dall’Iran una rinuncia più esplicita al nucleare estesa tra l’altro anche ai possibili mezzi di lancio e integrata da garanzie per Israele, nonché da una rinuncia alla politica di potenza che Teheran svolge da tempo nell’area sciita del Medio Oriente. Si tratta di obiezioni che hanno tutte una relativa validità, ma che non tengono assolutamente conto né di come l’accordo fosse, tutto sommato, quanto di meglio si poteva ottenere ad un tavolo negoziale, né del fatto che nel suo primo periodo di applicazione esso fosse stato puntigliosamente rispettato dagli iraniani. Un comportamento che metteva in luce, se non altro, una buona volontà da cui si sarebbe forse potuti partire per avviare una seconda tornata di trattative. Vi è da evidenziare in ogni caso come l’ostilità di Trump nei riguardi dell’Iran sia soltanto in parte ostilità ragionata.
A quanto indotto dalla ragione si affianca infatti anche il risentimento, mai sopito, per l’umiliazione che a suo tempo gli iraniani inflissero agli Stati Uniti nel corso della cosiddetta “crisi degli ostaggi” allorché, ai tempi del Presidente Carter, l’Ambasciata Usa a Teheran fu invasa da dimostranti e studenti che ne imprigionarono il personale. Da allora in poi, il fatto e il ricordo di come la vicenda si sia conclusa senza la giusta punizione dei colpevoli, sono rimasti nella memoria collettiva degli Stati Uniti come un conto in sospeso, da tener presente sino a quando non si presenterà l’occasione giusta per chiuderlo. Nel rimanere visceralmente ostile all’Iran e nella sua denuncia del trattato, Trump si ritrova quindi ad interpretare perfettamente gli umori del proprio Paese, un fatto terribilmente allarmante in quanto esso induce a pensare che se domani la tensione dovesse ulteriormente crescere, il Presidente potrebbe adottare qualsiasi misura di intervento, sicuro di essere supportato, almeno all’inizio, dalla stragrande maggioranza dell’elettorato.
Come abbiamo visto nel corso di questi ultimi mesi esistono poi anche altri fattori che possono contribuire a fare aumentare la tensione nell’area mediorientale e del Golfo Persico, portandola in breve tempo a livelli realmente rischiosi. Al risentimento degli Stati Uniti verso l’Iran si sommano infatti in Medio Oriente anche i timori, almeno in parte giustificati, di Israele e di quella parte del mondo islamico sunnita che ha l’Arabia Saudita quale principale riferimento. Sin dall’inizio del programma nucleare di Teheran e benché esso fosse, almeno ufficialmente, destinato unicamente a scopi pacifici, gli israeliani non hanno infatti mai fatto mistero della loro paura che esso potesse indirizzarsi in contemporaneità anche verso obiettivi militari. Ciò li ha indotti in più occasioni a richiedere agli Stati Uniti di associarsi a loro in uno strike preventivo, sul tipo di quelli a suo tempo compiuti dal solo Israele in Iraq e in Siria. Il rifiuto statunitense ha congelato sino ad ora la situazione, anche perché gli israeliani da soli non posseggono i mezzi sufficienti per uno strike efficace. Non è detto però che domani, nella prospettiva di nuove elezioni, le pressioni del premier Netanyahu non si intensifichino, trovando magari questa volta un orecchio più disposto ad ascoltare.
Ai timori di Israele si associano poi, sempre in funzione anti-iraniana, le preoccupazioni dell’Arabia Saudita, un altro alleato dell’area che il Presidente Trump considera con particolare simpatia. Presentandosi quale campione della movenza sunnita dell’Islam, Riad ha infatti in questo momento più di un contenzioso in atto con Teheran, capofila riconosciuto degli sciiti. In Bahrein la monarchia Saudita sostiene infatti una dinastia sunnita che opprime la maggioranza sciita della popolazione, mentre in Libano appoggia le forze contrarie a Hezbollah. In Yemen infine è alla guida di una coalizione che da tempo combatte una guerra sanguinosa contro una minoranza tribale di religione sciita.
Ce ne è abbastanza per temere che prima o poi l’influenza e la pressione congiunta esercitata da Israele e dai Sauditi sulla Casa Bianca riescano ad indurre il Presidente Trump a decidere di intervenire nell’area.
Altresì da temere è il possibile verificarsi di episodi che finiscano con il configurarsi come casus belli, innescando una spirale di violenza che poi risulterebbe difficilissimo fermare. I recenti confusi episodi di attacchi a petroliere nel Golfo Persico, casi in cui non è stato possibile individuare una responsabilità precisa anche per la successiva indisponibilità delle parti ad accettare un’inchiesta internazionale sull’accaduto, hanno dimostrato come possa essere facile dare fuoco ad una miccia senza assumersene la responsabilità. Essi hanno però anche rammentato alla comunità internazionale, e in special modo all’Occidente, come l’area del Golfo sia per noi quasi una vena giugulare, da cui passa la maggior parte del flusso destinato a soddisfare i nostri bisogni energetici. Già una volta nel 1987, ai tempi del conflitto fra Iran e Iraq, noi ci ritrovammo con un’analoga situazione di insicurezza da gestire nella medesima area. Allora la reazione fu quella di inviare in loco una forza navale multinazionale, cui anche noi italiani ci associammo, destinata a garantire la libertà e la sicurezza della navigazione nel Golfo Persico e nelle aree contermini. Quella missione ebbe successo, anche e soprattutto perché la decisione di iniziarla fu presa al momento giusto, prima cioè che fossero accaduti fatti di una gravità tale da renderne impossibile la messa in opera.
È quindi forse già giunto il momento per tutti noi di muoverci in quella direzione. E del resto le più recenti fra le dichiarazioni del Presidente Trump lasciano intravedere una disponibilità statunitense a riguardo. C’è così una window of opportunity (una finestra di opportunità) che si è aperta e per di più gli eventi che si susseguono giorno dopo giorno potrebbero anche, oggi o domani, contribuire ad allargarla. Non lasciamoci sfuggire l’attimo favorevole: agiamo sinché siamo in tempo!
@romanoprodi – @sangiuit
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Uno scenario allarmante fa da sfondo all’aspro dialogo tra Usa e Iran e rischia di esplodere, con effetti devastanti. Urge un intervento multinazionale
Anche se non si può certo dire che nei primi tre anni del suo mandato la politica estera del Presidente Trump abbia evidenziato una esemplare continuità, vi sono stati tuttavia alcuni particolari argomenti, e primo fra tutti quello dei rapporti fra gli Usa e l’Iran, in cui l’operato del Commander in Chief Usa è sempre risultato lineare e coerente. Sin dall’inizio della sua Presidenza, Trump aveva infatti chiarito come ritenesse del tutto insufficiente l’accordo sul nucleare faticosamente raggiunto dall’Occidente con Teheran qualche tempo prima e firmato dalla precedente amministrazione. In particolare, Mister President avrebbe voluto dall’Iran una rinuncia più esplicita al nucleare estesa tra l’altro anche ai possibili mezzi di lancio e integrata da garanzie per Israele, nonché da una rinuncia alla politica di potenza che Teheran svolge da tempo nell’area sciita del Medio Oriente. Si tratta di obiezioni che hanno tutte una relativa validità, ma che non tengono assolutamente conto né di come l’accordo fosse, tutto sommato, quanto di meglio si poteva ottenere ad un tavolo negoziale, né del fatto che nel suo primo periodo di applicazione esso fosse stato puntigliosamente rispettato dagli iraniani. Un comportamento che metteva in luce, se non altro, una buona volontà da cui si sarebbe forse potuti partire per avviare una seconda tornata di trattative. Vi è da evidenziare in ogni caso come l’ostilità di Trump nei riguardi dell’Iran sia soltanto in parte ostilità ragionata.