L’agenzia ONU per i rifugiati e la svedese Ikea si sono messe insieme per dare qualcosa di meglio di tende da campo a chi, per un disastro d’un tipo o l’altro, è obbligato a fuggire dalla propria casa.
Per l’UNHCR – l’agenzia per i rifugiati dell’ONU – circa il 10% dei tre milioni e mezzo di rifugiati nel mondo abitano in tende di qualche tipo, e vi rimangono in media per dodici anni dopo l’evento che li ha costretti ad abbandonare la precedente abitazione.
“Le nostre tende si sono evolute molto negli anni” ci racconta Olivier Pierre Delarue, dell’UNHCR. “Sono ancora fatte di tela, corde e pali – e solitamente non durano più di sei mesi a causa delle avverse condizioni atmosferiche”. Sono fredde in inverno, calde d’estate, possono prendere fuoco e di solito non hanno nessuna illuminazione interna. In altre parole le tende da campo sono pessimi alloggi a lungo termine, un habitat residenziale orribile dove vivere e far crescere dei figli – o dove tentare di ricostruirsi una vita.
Molte ricerche sono in corso sul tema delle temporary shelters: strutture dove rifugiati e vittime di calamità naturali possono ritrovare riparo e talvolta un equilibrio, sia pure relativo, nell’attesa di una dimora permanente. Queste strutture, spesso associabili a tende o, nei casi migliori, a prefabbricati, rappresentano inizialmente un vero e proprio approdo dove il nucleo familiare ha modo di riunirsi sotto uno stesso tetto.
Dal punto di vista progettuale, molteplici sono i requisiti imprescindibili di questi alloggi: velocità e facilità di messa in opera; trasportabilità e predisposizione allo stoccaggio; modularità delle strutture e reperibilità in tempistiche adeguate di numeri elevati di unità.
Con il concetto di temporary shelter si intende la costruzione di abitazioni che sia pure in luoghi desolati o distrutti garantiscono servizi essenziali e talvolta comfort, e vengono considerati alloggi dove è o almeno dovrebbe essere possibile ricostruire normali abitudini di vita.
L’utilizzo di sistemi di questo tipo, di contro, conduce a problematiche ancora oggi irrisolte come l’eccessivo dispendio di materiali e manodopera, un sistema produttivo più lungo e un incremento considerevole dei costi.
Per dare un’idea in cifre, tre giorni dopo l’11 marzo 2011, a seguito del devastante tsunami che investì la costa nord-est giapponese, le autorità locali ordinarono 30.000 unità prefabbricate, cui seguì ad aprile un altro ordine di pari portata. Sono numeri che fanno trasalire quando si scopre che il costo del singolo prefabbricato, tenendo conto delle spese di costruzione e infrastrutture annesse, lievitò fino a raggiungere i 5 milioni di yen a modulo, quasi 40mila euro al cambio attuale.
Va detto che clima, standard residenziali e perfino la valuta in uso nei diversi Paesi incidono drasticamente sui prezzi; è altresì evidente che queste strutture rappresentano un vero e proprio mercato tale da generare un’attenzione crescente verso la riprogettazione fisica e concettuale a monte delle stesse – e, in ultima analisi, anche un’opportunità commerciale.
Negli ultimi tempi, una realizzazione particolarmente interessante è nata dalla collaborazione tra l’IKEA Foundation e l’agenzia per i rifugiati dell’ONU, come spiega the UNHCR’s Delarue: “Ci siamo resi conto che il tessuto plastico che stavamo usando per costruire i rifugi temporanei era praticamente lo stesso materiale usato da Ikea per le borse della spesa che vendono e che loro avevano sperimentato anche in altre aree – come la logistica e l’imballo piatto – a cui noi potevamo attingere”.
La struttura, che richiede solo quattro ore per essere assemblata, assomiglia a una capanna da giardino prefabbricata ed è formata da pannelli il laminato ultraleggero fissato su una semplice struttura in tubi, che fornisce protezione contro il sole e isolamento termico.
Come gli altri prodotti della società, i pannelli di polimero vengono imballati in una scatola piatta, insieme a un sacchetto di tubi, giunti e cavi – con ogni probabilità, ma Ikea non ha ancora confermato – con istruzioni per l’assemblaggio a fumetti e una piccola chiave a brugola.
I ripari sono stati concepiti come una scaffalatura Ikea, facili da trasportare e assemblare dove servono, a detta della Refugee Housing Unit della società. I pannelli di plastica usati possono durare fino a tre anni e il kit include una struttura di copertura con uno strato metallico che riflette il sole durante il giorno e conserva il calore durante la notte, oltre a un pannello solare per dotare il rifugio di luce e corrente.
Un ulteriore vantaggio del design è che la sua pianta quadrata con muri verticali e il tetto spiovente fa sì che la struttura possa essere perfezionata nel tempo. Muri di fango e un tetto di ferro ondulato – materiali facilmente reperibili per i rifugiati – possono essere facilmente aggiunti per prolungare la durata del manufatto. Il progetto è ancora alla fase di prototipo.
I rifugi Ikea, ognuno predisposto per ospitare cinque persone, sono attualmente in prova nel campo per rifugiati somali a Dollo Ado in Etiopia, e per i rifugiati in Iraq e ultimamente in Siria.
L’agenzia ONU per i rifugiati e la svedese Ikea si sono messe insieme per dare qualcosa di meglio di tende da campo a chi, per un disastro d’un tipo o l’altro, è obbligato a fuggire dalla propria casa.