Undici anni prima di dare alle stampe “Il Secolo Breve”, nel 1983 lo storico Eric Hobsbawn scrisse assieme al collega Terence Ranger un saggio, L’invenzione della tradizione, in cui raccolse una serie di tradizioni inventate, nate per creare delle narrative di coesione culturale (storytelling ante litteram, insomma).
Un esempio, il kilt scozzese, che non esisteva prima dell’Ottocento e fu inventato addirittura da un inglese (!). A differenza delle consuetudini, antichi modi di agire e di comunicare ancora vitali, secondo i due storici le tradizioni erano, talvolta, inventate di sana pianta, per creare un prodotto culturale che facesse da base all’agire comune, per inculcare determinati valori e certe norme di comportamento, di cui si presupponeva la continuità con il passato.
Vent’anni prima di Hobsbawn Leonardo Sciascia, in un romanzo di magnifica scrittura, “Il Consiglio d’Egitto”, aveva dimostrato come una tradizione si potesse manipolare, come un documento nuovo, e artificioso, potesse illuminare il passato di nuova luce, imponendo dei cambiamenti in materia di diritti, proprietà, condizione sociale. Adesso “Il Consiglio d’Egitto”è arrivato a teatro, al Quirino di Roma – dal 26 aprile all’8 maggio – in uno spettacolo che vira alla commedia – più spesso rispetto all’originale letterario – ma restituisce fedelmente il ritratto di una Sicilia di fine Settecento, in cui non cambia nulla, se non in superficie, e gli echi francesi sono una suggestione più erotica – “I Gioielli Indiscreti” di Diderot – che politica.
In questo universo apparentemente immutabile si inserisce l’azione del viceré Caracciolo, che prende di petto i privilegi della nobiltà, e soprattutto il colpo di genio di don Giuseppe Vella – dopo l’azzardo, abate Vella – fracappellano dell’Ordine di Malta, uomo che “ricavava il superfluo dalla professione di numerista al lotto”. Succede che sbarchi a Palermo, causa naufragio, l’ambasciatore del Marocco alla corte di Napoli. Succede che il monsignor Airoldi induca Vella ad accompagnare l’illustre ospite al monastero di San Martino, dove era custodito un antico codice arabo. Succede che il fracappellano decida di trasformare un innocua “vita di Maometto”, l’ennesima, in un testo di cui nessuno, causa barriere linguistiche, aveva mai sentito parlare, l’intera storia dei musulmani di Sicilia, creata ex nihilo.
Nascono così il Consiglio di Sicilia e, soprattutto, il Consiglio d’Egitto, dopo attento e scrupoloso lavoro di fantasia e tecnica manuale. Gli scetticismi non mancano – se ne fa espressione il canonico Gregorio – ma l’ormai abate Vella non può essere smentito apertamente. Nessuno conosce l’arabo, nessuno, tantomeno, conosce quei caratteri mauro-siculi in cui sono scritti i codici (altra creazione artificiosa del fracappellano, altro potere che nasce dall’impostura). Paradossi della Sicilia: se cambia il passato può cambiare anche il presente. Se la tradizione è diversa da quella raccontata, come è possibile continuare a preservare privilegi e diritti?
Vella sembra voler dare sostanza giuridica all’azione del Caracciolo che, malgrado avesse fallito in certe azioni di austerity, come tagliare da 5 a 3 giorni la festa di Santa Rosalia, stava tentando di incenerire tutto quel complesso di dottrine feudali che la cultura siciliana aveva elaborato a difesa degli interessi dei baroni, un corpus fino a quel momento inattaccabile. Adesso Vella può passare al viceré le carte di un’opposta impostura (“loro affermavano che re Ruggero e i suoi baroni erano stati, nella conquista della Sicilia, come soci di un’impresa commerciale, il re qualcosa di simile al presidente di una società; che i vassalli dovevano al barone la stessa obbedienza che re; ebbene Don Giuseppe avrebbe tirato fuori un codice arabo in cui le cose della Sicilia normanna sarebbero apparse, per testimonianza diretta e disinteressata degli arabi, per lettere degli stessi re normanni, in tutt’altro ordine: tutto alla Corona e niente ai baroni”.
L’abate Vella, mosso da motivazioni più letterarie che politiche – “svelata, tra qualche secolo, l’impostura o, in ogni caso, oltre la sua morte, sarebbe rimasto il romanzo, lo straordinario romanzo dei musulmani di Sicilia – scuote un ordine immutabile e diventa oggetto delle attenzioni dei baroni: da una traduzione può dipendere una rendita e il passato, pensano loro, può essere oggetto di mercimonio. Alla fine Vella confesserà l’inganno, prima di ritrattare (per accontentare Monsignor Airoldi), anche se nessuno riuscirà mai a smascherarlo compiutamente, neppure presunti esperti di origine germanica (un certo Hager). E, mentre la Sicilia giacobina finisce con la testa mozzata – gli echi della rivoluzione francese arrivano anche quaggiù – perché il momento non era opportuno, la forza non sufficiente, e la prudenza di non giusta misura, è proprio il giacobino avvocato Di Blasi a riassumere l’avventura dell’abate, prima di incorrere negli strali della “giustizia”: Vella non ha commesso un crimine, ha soltanto messo su la parodia di un crimine, quello di una cultura che è impostura, finzione, falsificazione. Il fracappellano aveva capito che per colpire il potere bisognava abbattere le sue basi ideologiche, la sua giustificazione, e che quelle basi erano sostanzialmente un costrutto artificiale. Perché, Di Blasi dixit, “ogni società genera il tipo di impostura che le si addice”.
Undici anni prima di dare alle stampe “Il Secolo Breve”, nel 1983 lo storico Eric Hobsbawn scrisse assieme al collega Terence Ranger un saggio, L’invenzione della tradizione, in cui raccolse una serie di tradizioni inventate, nate per creare delle narrative di coesione culturale (storytelling ante litteram, insomma).