Fuggito da Kabul in elicottero con un paio di fedelissimi, Ghani ha responsabilità storiche nel crollo del Governo e nel ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan
La mattina di domenica 15 agosto ricevo un messaggio sul cellulare, da un vice Ministro afghano con il quale avevo frequenti rapporti, il quale mi informa che il Presidente Ashraf Ghani era fuggito da Kabul in elicottero con un paio di fedelissimi, abbandonando al suo destino la capitale afghana e il Paese. Un degno finale per un Presidente che ha responsabilità storiche nel crollo del Governo afghano e nel ritorno al potere dei Talebani, pur scontando la difficile posizione nella quale si è trovato, specie dopo gli Accordi di Doha. Verificata la notizia da altre fonti, essa è risultata vera.
L’ex Presidente Ghani era al suo secondo mandato, avendo vinto le elezioni del settembre 2019 contro il suo rivale di sempre Abdullah con il 50,64% del voto, ovvero 923.592 suffragi. Questo è già un dato che la dice lunga sulla disaffezione verso la politica e sulla sfiducia degli afghani nei confronti di Ghani, ove si consideri che le elezioni presidenziali del 2014 avevano visto più di 7 milioni di votanti (contro i circa 2 milioni 5 anni più tardi), di cui oltre 3,9 avevano votato per lui. È appena il caso di menzionare che in entrambe le votazioni le accuse di brogli sono state molteplici e feroci. È irrilevante domandarsi qui se fossero fondate o meno; la maggior parte degli afghani ci credono. E ciò ha gettato un’ombra sulla credibilità di Ghani già all’avvio del suo secondo mandato, inaugurato con grave ritardo a causa della contesa sulla conta dei voti, risolta principalmente attraverso l’intervento degli americani che optarono per lui su Abdullah.
Chi è Ashraf Ghani
Ghani non è un personaggio banale. Prima della presidenza è stato Ministro delle Finanze del suo Paese (dove ha riconosciutamene fatto bene), professore di antropologia alla John Hopkins e poi a Berkeley, funzionario della Banca mondiale. Nel 2013 venne considerato tra i 100 intellettuali più influenti a livello globale dalle prestigiose riviste Foreign Policy e Prospect. Nel 2006 il Financial Times lo inserì nella lista dei candidati alla successione di Kofi Annan quale Segretario Generale dell’Onu. Eppure un uomo di tale talento – e io stesso, pur molto critico nei sui confronti, rimasi impressionato dalle sue capacità intellettuali – è riuscito in poco tempo a condannare il suo Paese e cancellare il sistema del quale era un convinto costruttore.
Una serie di fattori hanno concorso al disastro politico che è stata la presidenza Ghani, accompagnato e sostenuto dall’inerzia della comunità internazionale che pure forniva i mezzi di sussistenza essenziali a Ghani e al suo Governo, contribuendo oltre il 60% delle entrate dello Stato afghano (poche delle quali sul bilancio statale, per la scarsa fiducia nei meccanismi di controllo e nella capacità di spesa del Governo). È pur vero che è oggettivamente difficile intervenire su di un Presidente eletto nell’esercizio delle sue funzioni, specie quando egli va sostenuto contro un nemico determinato come i Talebani e non indebolito. Tanto più arduo in quanto, e ne so qualcosa personalmente, egli ascoltava poco. Anche la sua cerchia intima trovava difficoltoso suggerire o contraddirlo, essendo il Presidente assai convinto delle proprie idee. Intellettualmente arrogante, direbbero alcuni. Dopo l’annuncio del ritiro fatto dal Presidente Biden il 14 aprile, il Presidente si distanziò visibilmente dalla Nato e dell’Occidente, rinchiudendosi sempre più. Egli si vantava di non leggere i giornali e non guardare la televisione. Alla fine ha agito in una realtà immaginata che lo ha portato a valutazioni errate in particolare sulla situazione di sicurezza e sullo stato e le capacità delle sue Forze armate.
Gli errori sul piano politico e sociale
Sul piano politico e sociale, Ghani non aveva capito il suo stesso Paese. L’Afghanistan è uno Stato che si regge su un equilibrio molto delicato, sia etnico che religioso, ed è stato in pace quando il centro era debole e le periferie largamente autonome. L’annoso problema afghano è il rapporto tra i pashtun, etnia dominante maggioritaria sia tra i Talebani che nella leadership “democratica” del Paese, e i tagiki, gli uzbeki, i turkmeni, gli Hazara. La Costituzione afghana è spiccatamente accentratrice e lascia al Presidente poteri molto estesi di nomina anche delle autorità locali.
Laddove quei poteri sono utilizzati per perseguire un’agenda accentratrice ed etnica, quale quella dell’ex Presidente Ghani, piuttosto nazionale, se ne pagano le conseguenze con un’opposizione sempre più marcata verso il centro e la frammentazione del tessuto del Paese. Ghani si era altresì inimicato buona parte delle personalità di spicco nella società afghana, colpendone gli interessi economici e politici e con molte di esse ha disatteso accordi formali, minando la fiducia dei suoi interlocutori; ciò ha portato a una parcellizzazione della leadership afghana e all’isolamento politico del Presidente, disorientando popolazione e istituzioni, tra cui le Forze armate. Quando invece avrebbe dovuto tentare di riunire attorno a sé un fronte compatto anti-talebano, che di fatto non c’è mai stato.
L’amministrazione Ghani ha svuotato sia le amministrazioni locali che quelle centrali di ogni vero potere. Buona parte dei Ministeri di peso a Kabul venivano controllati da commissioni ad hoc create dal Presidente, in particolare sugli introiti e la spesa. Mala gestione e corruzione erano all’ordine del giorno, e in alcuni casi toccavano direttamente la persona del Presidente e i suoi familiari. Ed è, in fine dei conti, il malgoverno e l’estesa e pervasiva corruzione che hanno minato alle basi qualsiasi credibilità il Presidente avesse accumulato nel suo primo mandato, tra la popolazione afghana e le Forze armate. Una parte della popolazione ha pertanto accolto i Talebani con molti timori, ma con la convinzione che non sarebbero stati peggio dell’amministrazione Ghani, mentre le Forze armate non sono state motivate a combattere per la sopravvivenza di un sistema corrotto e di un Presidente la cui reputazione generale era quella di essere un leader inefficace, disattento e corrotto.
La mattina di domenica 15 agosto ricevo un messaggio sul cellulare, da un vice Ministro afghano con il quale avevo frequenti rapporti, il quale mi informa che il Presidente Ashraf Ghani era fuggito da Kabul in elicottero con un paio di fedelissimi, abbandonando al suo destino la capitale afghana e il Paese. Un degno finale per un Presidente che ha responsabilità storiche nel crollo del Governo afghano e nel ritorno al potere dei Talebani, pur scontando la difficile posizione nella quale si è trovato, specie dopo gli Accordi di Doha. Verificata la notizia da altre fonti, essa è risultata vera.
L’ex Presidente Ghani era al suo secondo mandato, avendo vinto le elezioni del settembre 2019 contro il suo rivale di sempre Abdullah con il 50,64% del voto, ovvero 923.592 suffragi. Questo è già un dato che la dice lunga sulla disaffezione verso la politica e sulla sfiducia degli afghani nei confronti di Ghani, ove si consideri che le elezioni presidenziali del 2014 avevano visto più di 7 milioni di votanti (contro i circa 2 milioni 5 anni più tardi), di cui oltre 3,9 avevano votato per lui. È appena il caso di menzionare che in entrambe le votazioni le accuse di brogli sono state molteplici e feroci. È irrilevante domandarsi qui se fossero fondate o meno; la maggior parte degli afghani ci credono. E ciò ha gettato un’ombra sulla credibilità di Ghani già all’avvio del suo secondo mandato, inaugurato con grave ritardo a causa della contesa sulla conta dei voti, risolta principalmente attraverso l’intervento degli americani che optarono per lui su Abdullah.