Washington e Bruxelles dovranno riaffermare la propria presenza con azioni e concessioni concrete. Nelle condizioni attuali, infatti, una revisione della presenza cinese non conviene a nessun governo latinoamericano
Dai latifondi a monocoltura di soia alle miniere per l’estrazione di litio e rame, passando per una base militare in Patagonia o un porto affacciato sull’Antartide, la Cina ha incrementato la propria presenza in America Latina in modo sorprendente. Pechino è attualmente il secondo partner commerciale della regione, con un volume di scambi che supera i 450 miliardi di dollari all’anno. Diversi studi mostrano che il suo ruolo è destinato a crescere, diventando il primo partner della regione nel 2035 con 700 miliardi di dollari di interscambi, e controllando di fatto un quarto del commercio regionale e le ambite materie prime dell’America Latina.
La presenza della Cina: dall’energia alla soia…
Il processo è in atto da tempo. Tra il 2000 e il 2020 Pechino ha moltiplicato 26 volte il volume di investimenti diretti nella regione, la maggior parte concentrati nei paesi produttori di gas, petrolio, energia elettrica e soia. Il Venezuela conserva la maggior parte degli investimenti cinesi, con 60 miliardi di dollari concentrati nel settore petrolifero e virtualmente bloccati a causa delle sanzioni imposte al governo di Nicolás Maduro. Segue il Brasile, con 31 miliardi di dollari frutto di accordi presi soprattutto nel periodo precedente la presidenza di Bolsonaro (2019-2023). In Ecuador, paese con cui Pechino ha recentemente siglato un accordo di libero scambio, i capitali cinesi ammontano a circa 18,2 miliardi di dollari, viene poi l’Argentina con 17 miliardi. Nel caso argentino spiccano i 36 accordi di finanziamento stipulati con l’Industrial and Commercial Bank of China, e la China Development Bank per il sostegno al governo nel settore trasporti, energia e agricoltura.
A questo bisogna aggiungere i più di 200 progetti in infrastruttura ed energia in cui le aziende cinesi appaiono come appaltatrici e non come fonti dell’investimento. Si tratta di iniziative attive in 20 paesi del continente per un valore approssimato di 98 miliardi di dollari, e la grande maggioranza concentrate nel settore minerario e dell’infrastruttura per il trasporto. Molti di questi progetti hanno causato seri conflitti in America Latina e nei Caraibi. Il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali dell’Onu ha emesso a marzo di quest’anno una serie di raccomandazioni dirette al governo cinese circa le violazioni dei diritti umani delle popolazioni latinoamericane legate ai progetti minerari ed energetici commesse da aziende cinesi nel continente. Una coalizione di organizzazioni per la difesa dei diritti indigeni ha documentato 14 casi di violazioni dei diritti delle comunità locali, a cui Pechino ha risposto con un breve documento che indica che prenderà provvedimenti a riguardo.
Secondo un recente rapporto della Commissione Economica per l’America Latina dell’Onu però, i tratti dell’investimento cinese nella regione potrebbero cambiare decisamente nei prossimi anni. Il 14º piano quinquennale per gli investimenti del periodo 2021-2025 infatti prevede un’espansione nel settore automobilistico (44% degli investimenti totali), energie rinnovabili (17%) e servizi finanziari (11%), approfondendo comunque la dipendenza latinoamericana dai capitali del gigante asiatico.
…alla politica estera
A forza di accordi e investimenti, Pechino è anche riuscita a ottenere drastici cambiamenti nella politica estera di diversi paesi centroamericani, tradizionalmente ostili alla “politica di una sola Cina”. Dal 2007 a oggi, i governi di Costa Rica, Panama, Repubblica Dominicana, El Salvador, Nicaragua e Honduras hanno rotto le relazioni con Taiwan per stabilire rapporti con la Repubblica Popolare. L’isolamento di Taipei, riconosciuta oggi solo da 13 paesi al mondo di cui 7 in America Latina, è una delle strategie geopolitiche più rilevanti per il governo cinese, e apre al contempo le porte per lo sbarco delle proprie aziende in luoghi strategici come l’istmo centroamericano. E impone anche dibattiti nei paesi che non vi si piegano: la recente campagna elettorale in Paraguay per le elezioni generali del 30 aprile è stata segnata dalla discussione intorno alla possibilità di rompere i legami con Taiwan, retaggio dell’antisocialismo furioso imposto dalla dittatura di Alfredo Stroessner (1954-1989). Un viraggio che potrebbe avere ripercussioni anche sui partner del Mercosur (Argentina, Brasile e Uruguay): le relazioni Taipei-Asunción infatti impediscono al principale blocco commerciale dell’America Latina di poter stabilire accordi con Pechino. Che a sua volta ha già lanciato una politica di pressione sui paesi del Cono Sud col lancio della fase preliminare di un accordo di libero scambio col governo uruguaiano, decisione che secondo i governi di Brasilia e Buenos Aires potrebbe “distruggere” il Mercosur.
Le reazioni degli Usa
Ma se l’approdo cinese nel continente può generare attriti tra i paesi latinoamericani, ancora più fragorose sono le reazioni dell’egemone tradizionale nella regione, gli Usa. Dopo aver apertamente declassato i rapporti con l’America Latina a un “problema di sicurezza nazionale” durante i governi di George W. Bush, la Casa Bianca si è ritrovata a fronteggiare serie difficoltà per riaffermare il proprio primato nel continente. Le crisi sociali provocate dal Washington Consensus avevano portato al governo movimenti di sinistra ostili alle politiche storicamente volute dagli Usa, e in molti casi la massima geopolitica applicata in America Latina fu semplice: puntare sulla potenza geograficamente più lontana per alleviare il peso della presenza di quella più vicina. Dal 2010 le aziende cinesi investivano annualmente l’equivalente del totale dei 20 anni precedenti. Nonostante una certa distensione raggiunta negli ultimi anni di governo di Obama, la presidenza Trump non ha fatto che acuire le distanze tra i governi latinoamericani e gli interessi Usa, e l’insistenza dell’amministrazione Biden nel ridurre i rapporti con la regione alla questione migrazione e al compimento degli standard democratici Made in Usa aumenta oggi le possibilità cinesi di un inserimento sempre più profondo nell’emisfero. 21 dei 33 paesi della regione hanno siglato il loro ingresso nella Belt and Road Initiative, Huawei è presente nella maggior parte dei bandi lanciati per la creazione della tecnologia 5G e i piani proposti da Washington per contrastare l’avanzata cinese riscuotono sempre meno successo.
Sembrerebbe però che la risposta a stelle e strisce bisogna cercarla nello spazio di influenza cinese, e non in America Latina. L’intenzione di Usa e Cina di ampliare la propria influenza nel “giardino di casa” dell’avversario geopolitico si è particolarmente espressa durante l’emergenza Covid. Il Dipartimento di Stato infatti ha distribuito nel continente americano 73 milioni di dosi di vaccini, contro i 134 milioni donati ai paesi del sudest asiatico e i 230 milioni inviati in Asia Centrale e Meridionale. Molto più complesso invece quantificare l’ingente e rapidissimo invio di materiale sanitario da parte di Pechino in America Latina, che ha però superato decisamente quello degli Usa: mentre Washington dibatteva ancora sulla politica da adottare per affrontare il virus, il governo di Xi Jinping distribuiva migliaia di respiratori, test e mascherine, oltre ai prestiti a basso costo concessi a Brasile, Venezuela e Messico.
E l’Europa resta a guardare
Anche l’Alto appresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Ue, Josep Borrell, ha preso nota delle serie difficoltà che rappresenta l’aumento della presenza cinese in un’area tradizionalmente legata all’Occidente. E ha affidato alla presidenza spagnola del consiglio dell’Unione, prevista nel secondo semestre 2023, la creazione di una strategia volta a ripristinare l’influenza europea nella regione in esplicita concorrenza con la Repubblica Popolare. Ma Washington e Bruxelles dovranno dimostrare di voler riaffermare la propria presenza con azioni e concessioni concrete. Nelle condizioni attuali, una revisione della presenza cinese non conviene a nessun governo latinoamericano, e la scommessa già fatta da Trump per favorire il ritorno dei partiti liberal-conservatori al potere non sembra aver sortito effetto nell’ultimo quinquennio.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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Dai latifondi a monocoltura di soia alle miniere per l’estrazione di litio e rame, passando per una base militare in Patagonia o un porto affacciato sull’Antartide, la Cina ha incrementato la propria presenza in America Latina in modo sorprendente. Pechino è attualmente il secondo partner commerciale della regione, con un volume di scambi che supera i 450 miliardi di dollari all’anno. Diversi studi mostrano che il suo ruolo è destinato a crescere, diventando il primo partner della regione nel 2035 con 700 miliardi di dollari di interscambi, e controllando di fatto un quarto del commercio regionale e le ambite materie prime dell’America Latina.
Il processo è in atto da tempo. Tra il 2000 e il 2020 Pechino ha moltiplicato 26 volte il volume di investimenti diretti nella regione, la maggior parte concentrati nei paesi produttori di gas, petrolio, energia elettrica e soia. Il Venezuela conserva la maggior parte degli investimenti cinesi, con 60 miliardi di dollari concentrati nel settore petrolifero e virtualmente bloccati a causa delle sanzioni imposte al governo di Nicolás Maduro. Segue il Brasile, con 31 miliardi di dollari frutto di accordi presi soprattutto nel periodo precedente la presidenza di Bolsonaro (2019-2023). In Ecuador, paese con cui Pechino ha recentemente siglato un accordo di libero scambio, i capitali cinesi ammontano a circa 18,2 miliardi di dollari, viene poi l’Argentina con 17 miliardi. Nel caso argentino spiccano i 36 accordi di finanziamento stipulati con l’Industrial and Commercial Bank of China, e la China Development Bank per il sostegno al governo nel settore trasporti, energia e agricoltura.