Una maggiore collaborazione regionale è una delle conseguenze della mutata situazione in Afghanistan: i Paesi vicini evitano cautamente l’approccio bilaterale con i Talebani
Il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan modifica gli equilibri regionali dell’Asia centrale, di quella meridionale e del Sud-est asiatico. Molti Paesi della regione convivono da tempo con la consapevolezza che i Talebani sarebbero tornati a far parte delle strutture governative afghane, anche se la speranza era quella di una transizione ordinata del potere che non fosse dirompente della struttura statale afghana e dei rapporti interstatuali come invece è stata. In poche parole, che i Talebani fossero parte del Governo ma che non fossero il Governo. E ciò nonostante il fatto che tutti i Paesi della regione hanno avuto negli anni scorsi rapporti anche intensi con la leadership talebana, improntati alla pragmatica necessità di dover comunque trattare con una parte importante della futura dirigenza di un paese rilevante per storia, per posizione geografica, per il potenziale economico e per i problemi securitari che esso pone.
La vittoria talebana ha creato una situazione paradossale. Da un lato vi è la prospettiva di una reale stabilizzazione del Paese in cui non si combatte più e in cui, al netto degli attentati dell’Isis, la violenza è notevolmente calata ed è tornata la calma. Apparentemente una situazione ideale per lo sviluppo di proficui rapporti regionali. Dall’altro lato, la stabilità nel Paese e il venir meno del conflitto favoriscono il proliferare incontrollato di fenomeni criminali che preoccupano enormemente i Paesi della regione, tutti a corto di strumenti di contenimento della minaccia, molto reale, derivante dal territorio afghano: il fondamentalismo, il terrorismo, la criminalità organizzata, il narcotraffico, il traffico di armi, l’immigrazione clandestina con i suoi risvolti sociali e securitari. Aggravato dal fatto che il crollo di esercito e polizia afghane comporta un controllo del territorio sensibilmente ridotto. Senza contare che molti dei Paesi interessati hanno debolezze istituzionali interne e popolazioni di fede islamica che fatalmente risentono degli accadimenti afghani.
La regione è stata caratterizzata da sfide securitarie note e in qualche modo “istituzionalizzate”, quali i dissidi indo/pakistani e la contesa sino/indiana, oltre a tensioni di minor portata. Confronti preoccupanti ma, per così dire, tradizionali ed affrontabili con strumenti politici e diplomatici rodati. Anche il conflitto afghano, in fin dei conti, aveva creato una situazione con la quale la regione aveva imparato a convivere. I pericoli erano limitati e noti, così come le sfide. L’avvento dei Talebani e il modo in cui esso è avvenuto ha sparigliato le carte. I Paesi della regione devono ora contendere con un rafforzamento del fondamentalismo, fenomeno difficilmente controllabile, con la radicalizzazione delle popolazioni islamiche che vivono entro i propri confini e con l’incognita del terrorismo, di cui essi saranno le prime vittime. Oltre ad una serie di altri traffici criminali transnazionali come quelli menzionati. Un Afghanistan con ampi territori incontrollati e una dirigenza strutturalmente incapace a controllarli rischia di diventare una comoda e agevole centrale per ogni sorta di traffici illegali che possono minare la stabilità dei vicini.
Per essi la crisi afghana è un dejà vu. Le dirigenze centro-asiatiche, quella cinese, la pachistana e l’iraniana ricordano bene gli anni ’90, in cui il messaggio degli allora mujaheddin fece presa su consistenti fasce di quelle popolazioni destabilizzando i vari Governi. Il timore odierno delle Repubbliche centro asiatiche e del Pakistan è lo stesso di allora, che il potere di attrazione della vittoriosa rivoluzione islamica sunnita intacchi il tessuto sociale interno e che i gruppi jihadisti autoctoni siano spronati all’azione dall’esempio afghano. E ciò anche senza che i Talebani alzino un dito per esportare la propria ideologia.
L’Islam militante è una preoccupazione diffusa in tutta l’Asia. Come scrive uno studio del prestigioso istituto britannico Chatham House, negli anni ’90 “il territorio afghano divenne l’epicentro di organizzazioni terroriste internazionali e gruppi religiosi estremisti, quali il Movimento Islamico del Turkestan, ponendo una seria minaccia alla sicurezza e alla stabilità dei Paesi della regione. Via via che i governi della regione combattevano per sopprimere movimenti religiosi non autorizzati dallo Stato, le condizioni domestiche diventarono più spinose in quanto i movimenti diventarono clandestini e sempre più politicizzati”. Lo studio osserva altresì che “…senza il cuscinetto costituito dalla Alleanza del Nord, che operava sulle frontiere afghane, l’Islam militante è oggi un pericolo maggiore rispetto al passato per i Paesi centro asiatici”. Tanto più che i Talebani hanno un debito di riconoscenza nei confronti di vari gruppi estremisti che hanno assistito l’ultima fase della loro conquista. Da quelle parti i debiti di gratitudine vengono onorati, e questo i vicini lo sanno bene. Il dibattito interno in corso nella dirigenza talebana sul trattamento da riservare agli altri gruppi jihadisti presenti in Afghanistan non può che confermare i timori nutriti dai Paesi della regione.
Il ritmo degli eventi e la dimensione della vittoria talebana, che ha stabilito senza equivoci chi comanda in Afghanistan, hanno spiazzato, oltre che noi, anche i Paesi della regione, nessuno escluso, che non sono pronti ad affrontare la nuova situazione. È sempre più evidente che i vicini, e tra questi annovero la Russia anche se tecnicamente vicino non è, di fronte alla complessità e alla difficoltà di trattazione che presenta il “nuovo Afghanistan” stanno trovando necessario un approccio concordato e comune al Paese, in luogo dell’approccio puramente bilaterale che ha caratterizzato le relazioni tra i Talebani ed i Paesi della regione nei primi giorni del regime.
Quella della maggiore collaborazione regionale (India esclusa, anche per la freddezza che caratterizza sia le relazioni con importanti Paesi regionali che con i Talebani) è una delle conseguenze della mutata situazione in Afghanistan. Conseguenza che ha un risvolto immediato anche sullo scenario della sicurezza, specie per le comuni preoccupazioni sociali e securitarie, sfide reali che i Paesi della regione sanno di non poter affrontare da soli. Ne sono testimonianza concreta la proliferazione di incontri in vari formati regionali a tutti i livelli: politico, militare e di intelligence, quest’ultima una relativa novità che la dice lunga sul carattere delle sfide che affronta la regione. La maggior parte di questi fori escludono per ora i Talebani, non considerati ancora un partner responsabile ma piuttosto una entità nei confronti della quale occorre trovare una linea comune.
Accanto alla crescita nella cooperazione tra i Governi vi è un ulteriore effetto, finora scarsamente menzionato ma che rischia di cambiare anche lo scenario istituzionale in Asia. Esso è il cauto ma progressivo rafforzamento delle organizzazioni regionali di sicurezza che hanno finora avuto un ruolo scarsamente incisivo e principalmente cosmetico, bloccate com’erano dalla rivalità russo-cinese e dalla scarsa propensione alla collaborazione regionale degli Stati che ne fanno parte. Ma essi hanno mandati che potrebbero ora tornare utili. Lo Shanghai Cooperation Council (o SCO), venne fondato nel 1996 per affrontare le emergenti minacce alla sicurezza in Asia Centrale, identificate nel terrorismo, nel fondamentalismo e nel separatismo (a sfondo islamico). La Collective Security Treaty Organization, o CSTO, organizzazione sovrannazionale a carattere militare ispirata da Mosca e che conta tutti i Paesi centro-asiatici, sta anch’essa trovando spazi di manovra che prima non c’erano. Ora avranno sfide concrete da affrontare, che avvicineranno i vari Paesi.
C’è, comprensibilmente, scarso appetito per un confronto con il nuovo regime talebano. C’è anzi la volontà, in particolare nei paesi della regione, di trovare le modalità di una convivenza pacifica. In poche parole, un tentativo di trasformare i Talebani da movimento di rottura a fattore di stabilità regionale. Non sarà impresa facile, data la natura del movimento e le modalità con le quali esso è giunto al potere.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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La vittoria talebana ha creato una situazione paradossale. Da un lato vi è la prospettiva di una reale stabilizzazione del Paese in cui non si combatte più e in cui, al netto degli attentati dell’Isis, la violenza è notevolmente calata ed è tornata la calma. Apparentemente una situazione ideale per lo sviluppo di proficui rapporti regionali. Dall’altro lato, la stabilità nel Paese e il venir meno del conflitto favoriscono il proliferare incontrollato di fenomeni criminali che preoccupano enormemente i Paesi della regione, tutti a corto di strumenti di contenimento della minaccia, molto reale, derivante dal territorio afghano: il fondamentalismo, il terrorismo, la criminalità organizzata, il narcotraffico, il traffico di armi, l’immigrazione clandestina con i suoi risvolti sociali e securitari. Aggravato dal fatto che il crollo di esercito e polizia afghane comporta un controllo del territorio sensibilmente ridotto. Senza contare che molti dei Paesi interessati hanno debolezze istituzionali interne e popolazioni di fede islamica che fatalmente risentono degli accadimenti afghani.