Libia, tre anni dopo, è di nuovo guerra!
L'assalto a Tripoli è stato preparato, passo dopo passo, durante tutto il 2018 dal generale Haftar, contando anche sull'ingenuità o incapacità dei Governi europei
L’assalto a Tripoli è stato preparato, passo dopo passo, durante tutto il 2018 dal generale Haftar, contando anche sull’ingenuità o incapacità dei Governi europei
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Nella serata fra il 3 e il 4 aprile dal cellulare di un Ministro del Governo di Tripoli arriva in Italia un messaggio preoccupante. Un messaggio che all’inizio è poco comprensibile, “estraneo” a quello che sembra essere il contesto del Paese in quelle ore. Mancano pochi giorni alla grande “conferenza nazionale” che l’Onu ha organizzato a Ghadames per il 14 e il 15 aprile. Ci sono mille speculazioni su come sarà formato il nuovo Consiglio presidenziale, come sarà la legge elettorale, sul percorso verso le presidenziali. Il dibattito, l’interesse degli osservatori è tutto per i negoziati politici, anche per i traffici, per le “congiure” che impazzano in quelle ore.
All’inizio di aprile fra mille difficoltà la Libia sembra andare avanti sulla strada della pace. Di un accordo politico: debole, confuso, controverso, ma pacifico. E invece il messaggio del Ministro di Tripoli chiede di diffondere un appello: il Governo di Tripoli sta facendo di tutto per garantire la sicurezza della città, l’unità delle forze di polizia e di quelle militari. Anche di quelle milizie che lo appoggiano e che per mesi sono state accusate di ricattarlo, imponendo la propria “protezione militare” a un Governo civile, per sua natura, senza protezione armata se non quella di una Guardia Presidenziale ancora troppo debole.
Cosa è successo? Il messaggio del Ministro è il primo allarme che riceviamo dopo che in Libia è rimbalzato l’annuncio fatto a Bengasi. Il portavoce della milizia di Khalifa Haftar, il “Libyan National Army”, avverte che il generale ha deciso di lanciare un attacco a Tripoli per entrare in città e liberarla “dai terroristi che l’hanno occupata”. Haftar presenta alla Libia e al mondo l’operazione che ha pianificato da mesi e che con attenzione quasi “sovietica” ai dettagli (non è un caso questo termine) lo stato maggiore della sua milizia ha messo a punto passo dopo passo.
Una operazione culminata in un assalto miliare a Tripoli, proveniente da varie direttrici, in particolare lungo le principali strade di accesso alla capitale da sud e da ovest. Con una particolarità: da ovest, ovvero dalla direzione del confine tunisino, Haftar ha avuto il supporto di milizie locali con cui ha costruito nei mesi alleanze e patti foraggiati con centinaia di migliaia di dollari e la promessa di una fetta ancora più grossa della ricca torta petrolifera libica.
L’assalto a Tripoli dell’aprile 2019 ha un lungo prologo. Durante tutto il 2018 la LNA aveva messo in piedi, passo dopo passo, questo progetto di espansione: da Bengasi si è spostata verso Occidente lungo la costa, poco alla volta ha preso quasi pacificamente (negoziando con tribù e milizie) il controllo dei terminal nella “mezzaluna petrolifera”, ovvero dei punti di imbarco del petrolio che proviene dal sud della Libia.
Sono i terminali di attracco per le petroliere, situati lungo la costa, nella parte centro-orientale del Paese. Di lì viene imbarcato il petrolio che viene estratto nel centro e nel sud della Libia: chi controlla i terminal possiede la chiave della ricchezza del Paese. Molto meglio che controllare le centinaia di singoli pozzi.
Le esportazioni e il bilancio della Libia si tengono in piedi al 95% grazie al petrolio. Gli idrocarburi sono l’unica cosa che la Libia produce e vende. Chi controlla i terminal di imbarco controlla le casse della Libia, anche se non gestisce direttamente il flusso di danaro generato dal passaggio del petrolio attraverso quei terminali.
Nel 2018 l’espansione della LNA verso i terminal non ha generato grande contesa, grandi battaglie militari. Perché Tripoli e Misurata non avevano percepito qual era il vero piano di Haftar. Ovvero procedere a una avanzata progressiva, discreta, in parallelo ai negoziati politici, trattative in cui poco alla volta il generale si rafforzava agli occhi del mondo.
E poi perché per le milizie, gli eserciti di Tripoli e Misurata, mobilitare le loro armate militari, mandarle avanti per centinaia di chilometri per bloccare la lenta avanzata di Haftar non sembrava essere così strategico. Era economicamente e politicamente poco sostenibile. Anche perché Haftar nel frattempo continuava appunto a trattare, a negoziare, a parlare, rilasciare interviste. Tutto per accrescere politicamente il suo status.
Un esempio di questo “negozia e conquista” di Haftar è stata la sceneggiata con cui alla fine ha accettato di partecipare alla conferenza di Palermo nel novembre 2018. Alternando il suo “si” a un viaggio a Palermo al “non voglio sedermi a quel tavolo”. Ancora una volta Haftar alza il prezzo del suo assenso, alza il livello dell’aspettativa per le sue decisioni, persino lo standing della sua figura politica.
Si chiude la riunione di Palermo, e il premier italiano Giuseppe Conte tira un sospiro di sollievo perché Haftar è arrivato, non gli ha fatto fallire la conferenza. L’Italia è grata ad Haftar, invece del contrario (un capo milizia invitato ai tavoli con Ministri e Presidenti).
Apriamo una parentesi importante per noi italiani. Il 2018 è stato l’anno del grande cambiamento: le elezioni che portano al Governo Lega e 5 Stelle sono una profonda novità se non per le linee strategiche della politica italiana verso la Libia, di sicuro per la tattica adottata e per i protagonisti che la interpretano. Finisce fuori gioco la coppia Gentiloni-Minniti che nei due anni dell’ultimo Governo di centrosinistra aveva gestito con forza il dossier Libia.
Comunque possiate pensarla politicamente, qualunque sia il vostro giudizio sui due personaggi, Gentiloni e Minniti avevano costruito una squadra efficace. Il primo per due anni era stato Ministro degli Esteri di Matteo Renzi. Aveva appreso le arti della politica verso la Libia sul campo. In coppia con il segretario di Stato americano John Kerry era stato protagonista di una azione politica della comunità internazionale di primo livello. Conferenze internazionali, riunioni, summit sulla Libia giravano tutte attorno a Roma, anche con la forza che l’amministrazione Obama offriva al ruolo italiano.
Il secondo dei due “consoli” di Libia, Marco Minniti, portava nel suo incarico di Ministro dell’Interno tutta l’esperienza di gestione del dossier Libia che aveva accumulato in tre anni da coordinatore politico dei servizi di sicurezza. Da anni iniziato a conoscere e incontrare leader politici, capi-milizia, capi delle tribù di Libia. La promozione a Ministro dell’Interno lo metteva in posizione di attuare, per esempio, quella politica di contenimento dell’immigrazione illegale che tante critiche ha provocato innanzitutto nel suo stesso Pd.
Bene. Nel 2018 l’Italia cambia Governo, cambiano i Ministri. E inevitabilmente cambia qualcosa anche verso la Libia. La prima esigenza che si sente è quella di aprire appunto al generale Haftar. Per mesi nella sua ascesa politica, Haftar aveva utilizzato gli attacchi pubblici all’Italia come uno strumento per rafforzarsi sul piano interno e internazionale. Un capo milizia libico che si permette si sbeffeggiare l’ex potenza coloniale deve essere uno tosto, pensano i libici anche a Tripoli.
Molti indizi dicono che perfino un’autobomba esplosa nei pressi dell’ambasciata italiana a Tripoli da poco riaperta fosse stata innescata proprio da due manovali di Haftar.
Il nuovo Governo decide di aprire al generale e in estate offre in sacrificio al signore della Cirenaica la testa dell’ambasciatore a Tripoli, Giuseppe Perrone. Il diplomatico per mesi aveva interpretato la linea di Roma, apertura e sostegno al Governo di Tripoli, al Presidente libico scelto dall’Onu e arrivato a Tripoli in motovedetta dalla Tunisia nel marzo 2016. Il pretesto che darà al Governo Conte della possibilità, prima di congelare, e poi di sostituire, Perrone è una intervista concessa a una tv araba.
Non placherà Haftar, che anzi alla fine fa pure finta di essere dispiaciuto.
Torniamo ad Haftar e alle sue mosse militari all’inizio del 2019, dopo aver preso il controllo dei famosi terminal sulla costa, la sua milizia inizia a scendere verso sud. Verso il Fezzan. La situazione della sicurezza nel Fezzan è caotica, milizie, tribù, gruppi armati non riescono a mettersi d’accordo. Ci sono scontri, criminalità incursioni dei gruppi jihadisti che si sono rifugiati nel ventre molle della Libia dopo la disfatta dell’Isis a Sirte nell’estate del 2016.
Le truppe di Haftar spesso vengono accolte come pacificatrici, una milizia militare che mette d’accordo gli altri, impone in qualche modo le sue regole.
Chi non è d’accordo trova i kalashnikov del generale: le accuse di stragi, di devastazioni di villaggi che non si sottomettono sono ripetute, ma rimangono relegate ai margini delle notizie internazionali.
Haftar va avanti e a questo punto dichiara di voler mettere in sicurezza anche i pozzi petroliferi nel sud, oltre che alcuni villaggi. La Francia di Emmanuel Macron e soprattutto di Jean-Yves Le Drian è entusiasta. L’arrivo della LNA al sud, alle frontiere con Ciad e il Niger è visto come una grande operazione antiterrorismo che Parigi, protettrice di Ciad e Niger, non può che salutare con interesse.
Da gennaio in poi la marcia sui pozzi petroliferi continua: dopo la città di Sebha, il generale prende i pozzi di Sharara, il giacimento più importante del Fezzan, fermo da alcuni mesi per contese con alcune milizie locali. Piccoli problemi che la forza militare del generale sembra poter risolvere in maniera rapida.
Haftar si allarga ancora, verso il giacimento di El Feel, ribattezzato “Elephant” e il nome spiega molto. La milizia LNA non interferisce per nulla con la sicurezza, con l’operatività dei pozzi, che anzi dove possibile riprende: e il petrolio che affluisce verso i terminal della costa (controllati da Haftar) entra nelle casse della Banca Centrale che ancora viene gestita da Tripoli.
La grande discesa verso sud appare come un’azione di responsabilità di Haftar: la responsabilità di riportare sicurezza nei pozzi, in centri abitati percorsi da bande criminali e da terroristi. Il GNA (Government of National Accord) di Serraj non si accorge che perdere il sud è molto grave per la sua credibilità ma anche perché il sud diventa il trampolino di lancio per l’affondo finale, la risalita verso Tripoli.
Nella capitale, il Governo di Fayez Serraj, con l’appoggio convinto e leale delle Nazioni Unite guidate da Ghassan Salamè, è impegnato in una lotta quotidiana per far sopravvivere una città di 3 milioni di abitanti. Innanzitutto, l’economia: Serraj e il suo vice Presidente addetto alle questioni economiche, il misuratino Ahmed Maitig, stano provando in ogni modo a invertire la rotta di un Paese ricco di petrolio, che ha a diposizione ogni mese miliardi di dollari ma che non riesce a trasferirli ai suoi cittadini. Bande criminali e milizie armate intercettano il flusso di danaro in uscita dalle casse dello Stato e lo dirottano verso conti privati: i sussidi clamorosamente alti al prezzo della benzina fanno sì che milioni di litri di benzina a bassissimo costo ogni mese vengano dirottati di contrabbando verso Tunisia, Ciad, Niger, persino su petroliere fantasma che riescono a solcare il Mediterraneo per vendere il loro carico.
L’altro problema che fra gennaio e febbraio il GNA deve affrontare è quello della progressiva riduzione del potere delle milizie. Il nuovo Ministro dell’Interno, Fathi Bishaga, prova a mettere in atto il “Security Plan 2019-One” messo a punto con l’Onu. Ed è a questo punto, mentre siamo arrivati all’inizio di aprile, che la milizia di Haftar sorprende tutti e si presenta alle porte di Tripoli.
La battaglia per la capitale è iniziata, il Governo di Tripoli resiste, contrattacca e rilancia. È partita la Terza Guerra civile di Libia. Durerà a lungo è sarà assai dolorosa.
L’assalto a Tripoli è stato preparato, passo dopo passo, durante tutto il 2018 dal generale Haftar, contando anche sull’ingenuità o incapacità dei Governi europei
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