[TRENTO] Scrive di esteri per diverse testate europee e asiatiche. È autore di Petrolio shock e Sudafrica (Castelvecchi Editore).
Novergia: le contraddizioni della leadership green
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Anni fa il calo dei prezzi dell’energia spaventava molti norvegesi. Nel maggio del 2014 la Reuters titolava “la fine del boom petrolifero minaccia il modello di welfare della Norvegia”. A Oslo e Stavanger (la Oljebyen, la capitale del petrolio) la preoccupazione dei cittadini era palpabile: allo scrivente madri e padri di famiglia confessavano di guardare al futuro con ansia, o persino paura. Oggi le preoccupazioni dei norvegesi sono diverse. Con il Brent che nel 2022 ha superato i cento dollari al barile e i prezzi del gas che soltanto a febbraio sono scesi (dopo mesi) sotto i cinquanta euro al megawattora, il settore idrocarburico norvegese gode di ottima salute. La Equinor, la compagnia energetica a controllo statale che fa parte dell’immaginario collettivo norvegese quanto certi marchi di auto veloci di quello italiano, l’anno scorso ha registrato ricavi per quasi 75 miliardi di dollari, un record nel suo mezzo secolo di esistenza.
“Sì, noi norvegesi traiamo benefici sostanziali dai rincari dell’energia – dice un imprenditore di Stavanger che preferisce l’anonimato –. Ma, a differenza di altri paesi, non sperperiamo i soldi del gas e del petrolio. Né li usiamo per invadere altre nazioni, o per corrompere politici”.
C’è del vero nelle parole dell’imprenditore, chiaramente sulla difensiva. Il Paese si distingue da altre grandi potenze idrocarburiche per la sua solida democrazia, il suo rispetto dei diritti umani e la sua generosità come donatore internazionale. E a differenza di altri paesi ricchi di materie prime, il settore pubblico norvegese è tra i meno corrotti del mondo: nel Corruption Perceptions Index del 2022 il regno nordico è quarto, preceduto solo da Danimarca, Finlandia e Nuova Zelanda.
È anche uno dei paesi più prosperi del mondo, che punta sull’innovazione, l’alta formazione e la creatività per tenere il passo con le trasformazioni del XXI secolo. Pure nel greentech sta emergendo come un attore di rilievo, ed è in prima linea nella lotta contro la crisi climatica; il governo norvegese si è impegnato a ridurre le proprie emissioni di CO2 di almeno il 55% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990), e a diventare per allora un produttore di energia rinnovabile di primaria rilevanza.
A Oslo si vedono sempre più auto elettriche, e la città punta a sostituire l’intera flotta di bus a diesel con bus elettrici. Anche se spesso all’interno del Paese è più conveniente spostarsi in aereo che in treno, ha fatto scalpore l’annuncio che entro il 2040 dovranno volare, per le tratte domestiche, solo velivoli elettrici. In un paese dove l’elettricità per case e industrie è generata solo da rinnovabili, i trasporti sono una delle ultime roccaforti dei combustibili fossili.
Tuttavia la Norvegia è legata a doppio filo a gas e petrolio, ed è per questo – lo si vedrà a breve – che viene accusata di “ipocrisia climatica”. Produce il 2% di tutto il greggio mondiale, e il 3% di tutto il gas naturale. Secondo il SSB (una sorta di Istat locale) nel 2021 l’export idrocarburico ha rappresentato il 50% di tutte le esportazioni norvegesi.
Ancora, il 15% – 20% del Pil norvegese dipende da gas e petrolio. Non si tratta solo dei barili di greggio (a basso contenuto di zolfo) estratti dal gigantesco (e leggendario) giacimento offshore Ekofisk, o del gas che transita attraverso i gasdotti Europipe I ed Europipe II verso la Germania, ma di tutto l’indotto: delle aziende hi-tech specializzate nell’ispezione dei jacket o nella fornitura di valvole, agli studi legali o tecnici che da anni operano nel settore, ai bar dove chi ha lavorato per settimane su una piattaforma offshore si concede un whisky.
Einar Wilhelmsen è il portavoce del Miljøpartiet De Grønne (i Verdi norvegesi) per i temi dell’energia. Riconosce che l’ascendente del settore idrocarburico sul governo della Norvegia è grande. “Difficile sottostimarla. L’industria del petrolio e del gas ha una forte influenza sia sulla politica nazionale sia sui partiti. Ad esempio sull’odierna coalizione di governo”.
Oggi al potere in Norvegia ci sono i socialdemocratici dell’Arbeiderpartiet (Partito laburista) con il Senterpartiet (Partito di centro), forza blandamente populista che si proclama “vicina al popolo”. È ovvio che i socialdemocratici, storicamente il partito del lavoro e soprattutto dei lavoratori, non hanno intenzione di minare il pilastro della ricchezza norvegese; del resto per il SSB sono oltre 160mila le persone impiegate in modo diretto o indiretto nel settore del gas e del petrolio o nel suo indotto, circa il 6% di tutta l’occupazione norvegese.
Per Wilhelmsen, la politica energetica dei socialdemocratici “è dominata dagli interessi del settore del petrolio e del gas. Riguardo le energie rinnovabili essa è orientata verso progetti con un impatto negativo sulla natura, ad esempio progetti idroelettrici o vasti parchi eolici in aree naturali, piuttosto che verso l’efficienza energetica o il solare”.
Per quanto riguarda il Partito di centro, un tempo era il Partito degli agricoltori, e anche se il suo colore è il verde, e considera “le questioni ambientali e climatiche la maggiore sfida del nostro tempo”, la sua attenzione va soprattutto all’economia, ai piccoli proprietari, al settore agricolo e alla produzione alimentare. E basta dare un’occhiata alla distribuzione dei seggi nello Storting, il parlamento monocamerale norvegese, per capire che i Verdi hanno limitato peso politico in Norvegia: appena tre seggi, contro i 18 dei loro colleghi svedesi (o i 20 degli ecologisti finlandesi alle legislative del 2019).
Wilhelmsen ammette: “Alle elezioni locali abbiamo fatto assai meglio. Probabilmente perché le nostre politiche cittadine pongono gli esseri umani al centro, e nei grandi come nei piccoli centri togliamo spazio alle auto e lo diamo ai cittadini. Strade libere da auto, piste ciclabili, limiti di velocità più stringenti, nuovi spazi pedonali, migliori trasporti pubblici sono il risultato [del nostro contributo ai governi locali]”.
In effetti i Verdi sono forti soprattutto nelle grandi città, Oslo in primis. Diverso il discorso nel Rogaland, e in generale nella Norvegia occidentale. Nella contea che ha come capoluogo Stavanger, e dove gli idrocarburi sono quasi una religione, il primo partito sono i conservatori, il terzo i populisti di destra del Fremskrittspartiet (Partito del progresso), e i Verdi prendono percentuali di voto inferiori a quelle dei loro omologhi in Italia.
“Io non voto i Verdi perché se dipendesse da loro noi qui potremmo chiudere tutto” dice, da Stavanger, una commerciante di poche parole. Kristian lavora in una libreria della Norvegia del sud. Si considera un elettore di larghe vedute. Nel 2021 ha votato i socialdemocratici, ed è preoccupato per la crisi climatica e lo scioglimento dei ghiacciai. Tiene però a precisare che “la Norvegia dà un grosso contributo per fermare il riscaldamento globale. Per esempio siamo quelli che danno più finanziamenti all’Amazon Fund. Però esportiamo petrolio e gas come l’Italia e la Francia esportano formaggio e il Brasile carne. L’agricoltura genera un sacco di CO2, ma nessuno dice che l’Italia e la Francia devono smettere di esportare il loro formaggio, o il Brasile la sua carne. Il gas e il petrolio ci hanno reso più ricchi, sì, ma solo grazie al duro lavoro di tanti norvegesi”.
Kristian cita l’iniziativa (sconosciuta fuori dalla Norvegia) per finanziare interventi in grado di ridurre le emissioni da deforestazione e degrado forestale in Amazzonia, “il polmone verde della Terra” come dicono i media; a oggi quasi il 94% delle donazioni viene dalla Norvegia. Ancora, ciò che dice è piuttosto simile a quello che spiegava nel 2021 l’allora ministra del petrolio e dell’energia, la conservatrice Tina Bru, allo scrivente (e alla giornalista norvegese Benedicte Meydel in un’intervista per il quotidiano milanese Gli Stati Generali). “L’industria del petrolio e del gas ha avuto un’enorme importanza per la Norvegia. La nostra storia petrolifera in questi ultimi cinquant’anni ha contribuito a rendere la Norvegia di oggi un paese forse completamente diverso da quello che sarebbe stato se non avessimo trovato petrolio e gas”.
Nils-Henrik Mørch von der Fehr è professore al dipartimento di economia dell’Università di Oslo. Per lui “è corretto dire che le politiche energetiche di questo e del precedente governo [di centrodestra] non sono molto diverse, forse con l’eccezione della tassazione. Questo è un settore dove i principali partiti tendono a convergere, e dove le politiche hanno tipicamente un vasto supporto (benché non da tutti, specie da quei partiti che pongono molta enfasi sui temi ambientali)”. Gli fa eco il collega Halvor Mehlum. “Penso che i governi norvegesi dagli anni ’90 siano stati troppo passivi riguardo all’energia verde e troppo protettivi con il settore del gas e del petrolio”.
In generale, a destra come a sinistra, nella capitale come in periferia, in Norvegia il consenso verso il settore idrocarburico è compatto. In molte famiglie ci si ricorda ancora di quando il Paese era (relativamente) povero, la carne si mangiava di rado, e ai bambini veniva dato per pranzo pane, latte, verdure e un po’ di formaggio. Oggi lo spettro dell’indigenza è lontano: lo SPU, il fondo sovrano che è chiamato anche Oljefondet (fondo petrolifero), vale oltre 1200 miliardi di euro, ed è alimentato proprio dai cespiti idrocarburici.
Il fatto che la Norvegia continui ad arricchirsi con gas e petrolio (che in gran parte esporta: quindi a emettere CO2 sono, tecnicamente, altri paesi) non è passato inosservato. Nel 2021 una producer della CNN ha accusato la Norvegia di far parte (con il Canada e il Regno Unito) degli “ipocriti climatici”. Nel regno nordico l’accusa ha destato scalpore.
Ma come si è notato, la Norvegia non può (e non vuole) rinunciare all’export idrocarburico. E del resto senza il suo petrolio e soprattutto il suo gas, per la Ue sarebbe stato ancora più arduo sostituire gli idrocarburi russi. Non a caso nel giugno del 2022 Oslo e Bruxelles hanno deciso di rafforzare ulteriormente la già stretta collaborazione nel campo dell’energia, con buona pace di chi accusa i norvegesi di approfittare della guerra in Ucraina per continuare ad arricchirsi.
È anche vero che Oslo sta cercando di essere più verde, e produrre più energia attraverso eolico e idroelettrico, in modo da diventare la “batteria verde” dell’Europa. L’eolico, offshore e non, è ciò su cui puntano i socialdemocratici (molto sensibili ai temi ambientali sono, in particolare, i giovani dell’AUF, l’organizzazione giovanile del partito). Tuttavia non è facile. “Attualmente il governo vuole spingere gli investimenti nelle rinnovabili, ma sta accadendo molto poco – osserva Nils-Henrik Mørch von der Fehr –. La ragione principale sembra essere l’opposizione dei governi locali a nuovi parchi eolici; su questo hanno molta voce in capitolo. Ancora, i recenti cambiamenti alla tassazione sull’energia eolica sembrano aver giocato un ruolo di rilievo”.
La tassa sull’eolico, spiega poi il macroeconomista Danial Ali Akbari, è stata concepita per “compensare le comunità locali e mantenere un po’ del valore aggiunto laddove sono installate le turbine. Se questa politica ridurrà la resistenza locale agli impianti, però, è da vedere. Le persone che vivono in aree remote tipicamente menzioneranno la vicinanza alla natura come loro principale ragione per vivere laggiù”.
Lo ha dimostrato di recente il caso Fosen. Nel 2021 la Corte suprema norvegese ha dichiarato nulle le licenze con cui lo Stato norvegese aveva consentito la costruzione di 151 turbine nella penisola di Fosen: ciò perché, spaventando le mandrie di renne e interferendo con le pratiche delle popolazioni locali di pastori sami, violavano i diritti degli stessi. Poiché il verdetto non ha sortito effetto, a cavallo tra il febbraio e il marzo del 2023 attivisti sami hanno manifestato in modo eclatante. Alle proteste si è unita Greta Thunberg, e le foto della celebre ambientalista svedese rimossa di peso dalla polizia di Oslo hanno fatto il giro del mondo. Il 4 marzo il governo norvegese si è scusato con i sami di Fosen.
“Il caso Fosen ha evidenziato temi importanti, che altrimenti non avrebbero forse ricevuto l’attenzione che meritavano. La popolazione sami e i suoi diritti sono stati spesso trascurati, non solo in passato ma anche oggi, chiaramente – nota Ingrid A. Medby, lecturer di Geografia umana all’Università di Newcastle –. I lavori a Fosen non dovevano andare avanti, e quando è stato formalmente dimostrato il torto, qualcosa andava fatto molto prima. Gli attivisti sami non avrebbero dovuto occupare un Ministero e avere l’attenzione dei media internazionali per ottenere che qualcosa venisse fatto. Però è andata così. Se l’energia è importante, lo sono pure i diritti dei sami”. Anche per la ricchissima Norvegia non ci sono scelte facili.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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La geopolitica dell’Artico tra Ue, Russia e Cina
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Nella Comunicazione congiunta al Parlamento europeo, al Consiglio ecc. del 13 ottobre 2021 la Commissione europea e l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza prospettano “un impegno rafforzato della Ue per un Artico pacifico, sostenibile e prospero”.
Una necessità geopolitica
Per essere un documento ufficiale, l’incipit è forte: “L’Unione europea è presente nell’Artico. In quanto potenza geopolitica, ha interessi strategici e a breve termine sia nell’Artico europeo che nella regione artica nel suo insieme”. Pochi paragrafi dopo si legge: “un interesse accresciuto per le risorse e le vie di trasporto dell’Artico potrebbe trasformare la regione in uno spazio di concorrenza locale e geopolitica e di possibili tensioni, che potrebbero nuocere agli interessi della Ue […] Il pieno impegno dell’Ue sulle questioni relative all’Artico è una necessità geopolitica”.
Per capire meglio, la prima persona con cui parlare è Michael Mann, inviato speciale dell’Ue per le questioni artiche. “La nostra politica artica aggiornata riflette il nostro desiderio di accrescere il già considerevole impegno nell’Artico della Ue – spiega Mann –. Vogliamo contribuire a preservare un Artico pacifico, prospero e sostenibile; dovrebbe essere una regione di cooperazione internazionale, con poche tensioni”. Tra le priorità di Bruxelles la lotta al cambiamento climatico, lo stimolo a uno sviluppo economico sostenibile, l’attenzione alle comunità artiche, incluse quelle indigene.
Una delle azioni concrete della Ue per rafforzare la sua presenza nell’Artico è l’apertura di un ufficio permanente a Nuuk, capitale della Groenlandia, territorio autonomo all’interno del Regno di Danimarca; la più grande isola del mondo non fa parte della Ue ma è membro del club dei Paesi e territori d’oltremare (PTOM). “Speriamo di essere in grado di aprire l’ufficio nel maggio o nel giugno del 2022” dice Mann.
L’ufficio a Nuuk, secondo la Comunicazione congiunta, “favorirà l’ulteriore rafforzamento e approfondimento del partenariato tra la Commissione europea e il governo della Groenlandia, in particolare attraverso la cooperazione e il dialogo in settori di interesse comune” (già oggi, per esempio, la Ue sta sostenendo con forza il sistema educativo groenlandese, e nel 2021 è stato rinnovato l’accordo di partenariato per una pesca sostenibile).
A Nuuk hanno sede il consolato islandese, e quello Usa, guidato da una diplomatica che parla danese, svedese, cinese e ha lavorato in Afghanistan (nel maggio 2021 il segretario di stato Antony Blinken ha fatto tappa nell’isola: un’opportunità per definire meglio le relazioni tra Nuuk e Washington, dopo che nel 2019 il presidente Trump aveva ipotizzato un acquisto della Groenlandia, quasi alla stregua di un “affare immobiliare”).
Il focus dell’Ue nell’Artico
Analisti occidentali concordano su un punto: Bruxelles è in linea con la forte attenzione dei groenlandesi per l’ambiente. Nell’aprile 2021 ci sono state le elezioni nell’isola; il nuovo governo è dominato dall’Inuit Ataqatigiit (socialista), che è riuscito a bloccare le attività di esplorazione ed estrazione di uranio, e la ricerca di giacimenti petroliferi. Nella Comunicazione congiunta si legge: “la Ue si impegna a garantire che il petrolio, il carbone e il gas rimangano nel suolo, anche nelle regioni artiche”.
In linea con lo European Green Deal, il focus di Bruxelles è valorizzare le risorse rinnovabili della regione: energie pulite come il geotermico, l’idroelettrico, l’eolico, nonché il pesce, che a causa del riscaldamento globale si sposta sempre più a nord. Anche se non ha accesso diretto al Mar Glaciale Artico, la Ue vuole rafforzare la governance su quel mare e sui mari subartici adiacenti: per esempio sostenendo il regime giuridico internazionale che disciplina le isole Svalbard e le loro acque.
Per Ingrid A. Medby, lecturer di geografia umana all’Università di Newcastle, “in quanto Unione multi-stato, con vicini e stati membri artici, ha senso che Bruxelles cerchi un impegno diretto nella regione artica. Potrebbe non essere la principale preoccupazione di politica estera per la Ue, ma il nord circumpolare è vasto, i cambiamenti che accadono lì influenzeranno di certo pure gli Stati membri”.
“Nell’Artico si gioca una delle partite chiave del futuro. Il potenziale commerciale, energetico e industriale è enorme: basti pensare alle terre rare. Dato l’interesse di attori come la Russia e la Cina, a Bruxelles si è compreso che non basta affidarsi alle grandi imprese europee, alla Nato o alle azioni di singoli stati membri” commenta un politico danese che non può parlare a titolo ufficiale. E sull’atteggiamento cauto dell’Italia nella regione, aggiunge: “A volte sembrate più sensibili alle preoccupazioni russe che a quelle di altri Stati membri”.
Gli interessi di Russia e Cina
La crescente attenzione europea per l’Artico non piace troppo ad altre potenze, in primis Russia e Cina. Questo è vero soprattutto per la svolta verde di Bruxelles. Del resto la Ue importa l’87% del gas naturale liquefatto prodotto nell’Artico russo, ma nella Comunicazione congiunta si legge che la Commissione “collaborerà con i partner per instaurare un obbligo giuridico multilaterale di non autorizzare alcun nuovo aumento delle riserve di idrocarburi nell’Artico o nelle regioni contigue, e di non acquistare tali idrocarburi laddove vengano prodotti”.
Mosca, da parte sua, vuole sviluppare l’Artico russo a tutti i costi. Nel 2021 Putin ha ribadito che il gas dall’estremo nord può contribuire in modo significativo alla sicurezza energetica europea (e asiatica). È anche in corso un rafforzamento massiccio del dispositivo militare russo nella regione; in un rapporto sull’Artico approvato dalla Commissione per gli affari esteri del Parlamento europeo (relatrice la polacca Anna Fotyga) si legge che “gli investimenti economici e militari della Federazione russa nell’Artico superano di gran lunga quelli del resto degli Stati artici”, che Mosca “ha installato nuove basi militari e modernizzato le basi esistenti nelle regioni settentrionali” e che “la regione del Mare di Barents è stata il principale banco di prova per sistemi missilistici balistici e da crociera, mentre l’area a est di Novaja Zemlja è stata il principale teatro dei test nucleari”. Nel medesimo rapporto i progetti e le iniziative della Cina (che com’è noto insiste a definirsi “stato quasi-artico”) sono “fonte di profonda preoccupazione”, e si sottolinea come Pechino ambisca a divenire una “potenza polare”.
Andreas Raspotnik, senior research fellow del Fridtjof Nansens Institutt di Oslo, osserva: “In merito al riarmo della Russia, è un fatto e non lo si può negare. Il punto con la Russia è che l’Artico è collegato così tanto alla loro identità, e da un punto di vista strategico si tratta di un’area immensamente importante per loro”. Il ricercatore nota: “Non mi ha mai convinto del tutto la narrativa dell’Artico così pacifico. Ha un qualche fondamento, ma è pur sempre costruita sull’esclusività artica. Si dà per scontato che qualsiasi cosa accada, l’Artico rimarrà sempre pacifico e cooperativo, ma non si può mai sapere, specie nella relazione est-ovest”.
Le partnership con l’Ue
Lo scenario non è facile, ma la Ue può contare sulle partnership con Paesi come il Canada e come la Norvegia e l’Islanda (entrambi nello Spazio economico europeo), e sull’attivismo di Svezia e Finlandia, che nelle loro strategie nazionali per l’Artico hanno riconosciuto il ruolo chiave di Bruxelles negli affari artici. Del resto è stato il Primo Ministro finlandese Antti Rinne, nel 2019, a dichiarare: “Ci dovrebbe essere più Ue nell’Artico e più Artico nella Ue”.
Per Timo Koivurova, research professor al Centro Artico dell’Università della Lapponia (Finlandia), il coinvolgimento europeo nell’Artico come necessità geopolitica “è molto in linea con quanto scritto nella recente strategia artica della Finlandia. In quanto Stato membro, la Finlandia considera positivo che la Ue riconosca che si sta intensificando la competizione geopolitica nella regione, la quale si sta riscaldando tre volte sopra la media globale”. La Ue, nota, è una formidabile potenza economica, ed “esercita molta influenza sulla regione, specie in virtù del suo ruolo economico. Perciò necessita di essere riconosciuta come un attore nella regione”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.