[VARSAVIA] giornalista e cofondatore di Centrum Report. Segue Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia per media italiani e stranieri.
Polonia: scontro tra Governo e società civile
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In Polonia entra in vigore la legge sull’aborto che ha scatenato grandi proteste accompagnate da bandiere dell’Ue e simboli arcobaleno
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
In Polonia prosegue lo scontro fra Governo e società civile sul diritto all’aborto. La legge sulle interruzioni di gravidanza in vigore nel Paese dal 1993 resta la più restrittiva d’Europa, eppure questo non basta all’esecutivo, guidato dalla destra populista di Diritto e Giustizia (PiS). Prima nel 2016 e poi nel 2018, il governo ha appoggiato due disegni di legge regressivi sull’aborto promossi da associazioni ultracattoliche e approvati dalla conferenza episcopale polacca. E una recente sentenza della Corte costituzionale sul tema ha indispettito le donne polacche, oltre a dividere cattolici liberali e conservatori del Paese.
La legge sull’aborto
Oggi in Polonia è consentito abortire legalmente entro la venticinquesima settimana di gestazione in caso di stupro o di incesto, oppure qualora uno screening prenatale evidenzi malformazioni sul feto che mettano a repentaglio la sopravvivenza del nascituro o della madre. In una nazione a forte impronta cattolica molte donne incontrano difficoltà a denunciare violenze sessuali subite o vengono costrette dalle famiglie a portare a termine la propria gravidanza. Questo spiega la diffusione delle cosiddette ‘finestre della vita’, dove le madri possono abbandonare i figli indesiderati. Le gestisce la Caritas, si trovano in strutture religiose e ne esistono 61 in ogni angolo del Paese. Nel 2019 i neonati affidati a una di queste finestre sono stati 110.
Nello stesso anno si sono registrati 1100 aborti legali in Polonia: molto pochi rispetto alle altre nazioni europee. In Germania, ad esempio, sempre nel 2019 si sono effettuate 101mila interruzioni di gravidanza legali, un dato 50 volte superiore a quello polacco, prendendo in considerazione la popolazione femminile dei due Paesi. E proprio la Germania, assieme a Slovacchia, Lituania e Paesi Bassi, è una delle principali destinazioni delle polacche che possono permettersi di abortire all’estero. Chi, invece, non ha i mezzi economici per interrompere la propria gravidanza oltreconfine è spesso costretta a farlo illegalmente in patria, talvolta mettendo a rischio la propria salute. Secondo la Federazione delle donne e della pianificazione familiare, un’organizzazione femminista, ogni anno fra le 80mila e le 120mila polacche abortiscono illegalmente in patria o, legalmente, all’estero. Entrambi i percorsi sono quasi obbligati, dato che ottenere un’interruzione di gravidanza legale in Polonia è difficile.
Nel 2016 le proteste di massa nelle strade convinsero il governo a ritirare un primo disegno di legge voluto da associazioni pro-life e che avrebbe di fatto vietato l’aborto. Il testo di due anni dopo, che impedirebbe l’interruzione di gravidanza anche nel caso di gravi anomalie del feto, è nelle mani di una commissione parlamentare dall’aprile scorso. La legge del ’93, quindi, non è stata ancora toccata, ma il 22 ottobre del 2020 la Corte costituzionale – composta da giudici nominati dal PiS – ne ha definito incostituzionale la parte che consente l’aborto per gravi malformazioni fetali. Questa casistica ha riguardato il 97,6% degli aborti legali effettuati in Polonia nel 2019 e, qualora il pronunciamento della Corte venisse accolto, le interruzioni di gravidanza consentite diverrebbero poche decine all’anno.
Il pugno duro di Morawiecki
Per il momento il Governo del premier Mateusz Morawiecki prende tempo, non pubblicando la sentenza sulla Gazzetta ufficiale e quindi non rendendola esecutiva, ma adotta anche il pugno di ferro nei confronti delle proteste innescate dal parere della Corte. Da mesi queste manifestazioni, note come ‘blocchi’ o ‘passeggiate’, vedono centinaia di migliaia di polacchi scendere in piazza in 150 centri del Paese, sfidando i divieti di assembramento anti-coronavirus. Sono coordinate dallo Sciopero nazionale delle donne, una forza apartitica fautrice di un linguaggio combattivo inviso ai media filogovernativi, che ritengono il simbolo del fulmine scelto dal movimento simile a quello delle SS hitleriane. Gli slogan scanditi nelle strade o rilanciati sui social network, come #Infernodelledonne, e ‘Fottiti PiS’ sono rivolti soprattutto al vicepremier Jarosław Kaczyński, la cui casa è una delle mete delle ‘passeggiate’.
“Ci batteremo per assicurare che anche le gravidanze molto difficili, quando il bambino è sicuro di morire in seguito a malformazioni, si concludano in un parto, per permettere al neonato di essere battezzato, seppellito e avere un nome”, affermava Kaczyński nel 2016. E il 27 ottobre scorso colui che resta l’eminenza grigia del governo, ha condannato le azioni dimostrative compiute dalle donne all’interno delle chiese cattoliche, lanciando un appello video a difendere gli edifici di culto. Da allora il messaggio è stato raccolto dai nazionalisti di estrema destra, assiepatisi assieme a poliziotti in tenuta antisommossa sui sagrati lungo i percorsi dei cortei, per proteggere le chiese da una teorica minaccia. Simili scene, al pari dell’atteggiamento spesso intimidatorio e violento tenuto dalle forze dell’ordine verso i manifestanti, sono il risultato degli atteggiamenti divisivi adottati dal Governo.
Cosa pensa il sindaco di Varsavia
Anche per questo, i cortei hanno assunto un significato più ampio della causa che li ha resi necessari. Come spiega Aneta Wielgosz, una manifestante, “questa protesta è diversa da quella del 2016, che rimase concentrata sul diritto all’aborto. Adesso si chiede esplicitamente anche una riforma dell’intero sistema politico”. Eppure in parlamento come nelle piazze, una singola forza fuori dal governo ha appoggiato in modo coeso le proteste: Lewica (Sinistra). Il principale partito d’opposizione Coalizione Civica (Ko), invece, non ha saputo intercettare il dissenso della società civile, forse per paura di inimicarsi una parte del proprio elettorato cattolico, nonostante i sondaggi evidenzino come il consenso del PiS stia calando. Ha fatto eccezione il sindaco di Varsavia, Rafał Trzaskowski, che è stato fra i primi a sostenere lo Sciopero nazionale delle donne.
Candidato di Ko a presidente della Repubblica, nel luglio scorso Trzaskowski venne sconfitto per 400mila voti al ballottaggio da Andrzej Duda – sostenuto dal PiS – sfiorando una vittoria impensabile alla vigilia. Oggi il sindaco della capitale, resta il volto nuovo di un’opposizione polacca che stenta a convincere molti milioni di polacchi. Ex parlamentare europeo, europeista convinto, pro-choice, vicino alla comunità Lgbt+ attaccata dal governo, Trzaskowski rappresenta l’antitesi di quanto promosso dal PiS. Il sindaco ha fatto scelte importanti, per esempio aderendo al Patto delle città libere, un gruppo promosso dal suo omologo a Budapest, Gergely Karácsony, e del quale fanno parte anche i primi cittadini di Praga e Bratislava, Zdeněk Hřib e Matúš Vallo. Insieme, difendono i valori europei dall’attacco dei rispettivi governi e chiedono finanziamenti a Bruxelles per investire su lavoro, economia e ambiente. “Vogliamo lottare per avere un accesso diretto ai fondi europei, perché le capitali sono i motori della crescita dei nostri Paesi”, assicurava Trzaskowski nel dicembre del 2019. Da allora, le frizioni fra il Governo polacco e l’Unione europea si sono moltiplicate fra stato di diritto, battaglia sull’aborto e veto iniziale al Recovery Fund.
Il sindaco di Varsavia, invece, è cresciuto. Ha perso le presidenziali per un soffio e presentato un proprio movimento, Polonia condivisa, nell’ottobre del 2020. Di fatto, a due anni e mezzo dalle parlamentari del 2023, rimane lui la principale speranza di sconfiggere il PiS per un’opposizione polacca frammentata e in crisi identitaria. Potrebbe essere Rafał Trzaskowski l’erede dell’ex premier liberale ed ex presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. A patto che gli elettori vogliano cambiare rotta all’insegna del rispetto dello stato di diritto e dei diritti delle donne, oltre che di un ritrovato europeismo. Le manifestazioni di questi mesi paiono suggerirlo, ma le divisioni interne al Paese sono tutt’altro che risolte.