[TRENTO] Docente di Storia e Politica del Medio Oriente presso la Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento e Ricercatore Associato ISPI. Coordina il progetto europeo Jean Monnet “North Africa and Middle East Politics and EU Security” e il corso di laurea Erasmus Mundus IMSISS. Scrive su The Economist.
Iran: la rivoluzione del nuovo millennio
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Sono ormai oltre cento giorni che in Iran è in corso un movimento di rivolta contro la Repubblica islamica. Si tratta di un movimento nazionale e trasversale che sta prendendo di mira le fondamenta dello Stato islamico iraniano, nato nel 1979 a seguito della rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini.
La morte della giovane ragazza iraniana, proveniente dalla regione curda, Mahsa (Jina) Amini, avvenuta nello scorso 13 settembre, durante il suo arresto presso la polizia morale di Teheran, è stata la miccia che ha fatto scaturire questa nuova ondata di rivolte. Mahsa era stata fermata dalla polizia morale poiché considerata violatrice del codice d’abbigliamento islamico, imposto in Iran, a seguito della rivoluzione del 1979, a tutte le donne del Paese. Questo codice d’abbigliamento prevede il velo obbligatorio e la polizia morale è incaricata di monitorare che tale codice di abbigliamento venga rispettato in pubblico.
Libertà, democrazia e pluralismo
Le manifestazioni antigovernative si sono subito espanse in tutto l’Iran e hanno coinvolto circa 150 città. Libertà, democrazia e pluralismo costituiscono le principali richieste dei manifestanti. La separazione della religione dalla politica è in effetti uno dei principali obiettivi di chi è sceso in piazza in questi mesi. Sembra che l’ingerenza della religione, in questo caso, quella islamica, nelle vite delle persone non sia più tollerata da gran parte della popolazione. La protesta contro il velo obbligatorio, quindi, è diventato solo uno dei simboli di questa rivolta, ma non il suo principale punto focale che, appunto, sembra, seguendo gli slogan e i movimenti dei manifestanti, sia quello di superare la Repubblica islamica stessa. La libertà, in persiano ‘Azadi’, insieme alla laicità dello stato, rappresentano gli obiettivi principali di queste rivolte che sono state guidate dalle giovani generazioni e dalle donne.
Una generazione ibrida
In Iran circa il 63% della popolazione, su 84 milioni, è sotto i 30 anni. Si tratta di una generazione che non ha conosciuto né l’epoca dello Shah di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, né quella dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica islamica. È, da un lato, una fascia di popolazione cresciuta e formata all’interno del sistema educativo della Repubblica islamica, ma, dall’altro, è presente in modo significativo su internet e segue i canali satellitari in lingua persiana dall’estero. Ciò ha dato vita a una generazione ibrida, la quale, avendo vissuto sia il controllo sociale della Repubblica islamica sia il pluralismo dei valori presenti nel mondo globalizzato, ha raggiunto una sintesi di pensiero, volta alla ricerca di un sistema politico libero da autoritarismi, ed è appunto questa sintesi che si sta esprimendo attraverso le proteste. È una generazione non ideologica, alla ricerca di libertà e di felicità. Non ha simpatie per le ideologie dello scorso secolo, né per quelle islamiche né per i movimenti di sinistra. I giovani nelle piazze chiedono appunto la laicità dello Stato e portano con sé un’idea patriottica importante. Tra gli slogan principali dei dimostranti ci sono “Zan, Zendeghi, Azadi” (Donna, Vita, Libertà), “Mard, Mihan, Abadi” (Uomo, Patria e Prosperità) e “Azadi, Azadi, Azadi” (Libertà, Libertà, Libertà). Il movimento di protesta non distingue tra le varie fazioni politiche, riformisti o conservatori, presenti all’interno della repubblica islamica, ma chiede un cambiamento radicale.
Un movimento pacifico ma radicale
Colpiscono dell’attuale protesta alcuni elementi significativi di novità. In primo luogo la sua capillarità, dovuta alla sua presenza non solo nei grandi centri urbani. Secondariamente, la grande percentuale della componente femminile, con la conseguente sottolineatura di tematiche e diritti connessi alla questione di genere. Spiccano poi i toni di radicalità del movimento attuale (pur mantenendo un aspetto fondamentalmente pacifico) e il carattere fortemente iconoclasta del suo repertorio simbolico. La fisionomia del movimento, infine, sembra avere tutti i connotati anche di una rivoluzione generazionale che però sta contagiando l’intero paese. A differenza dell’”onda verde” del 2009, non viene più esibita alcuna fiducia nella possibilità di una riforma del sistema vigente né si cercano riferimenti e interlocutori nelle fazioni moderate e riformiste. L’incendio dei veli in pubblico, il rito dei turbanti dei religiosi fatti volare via in modo impertinente, le ingiurie e le accuse plateali verso l’artefice della rivoluzione del 1979, Khomeini, e tanti altri atti dello stesso tenore, indicano sia il superamento di molti tabù sia un livello di coraggiosa spregiudicatezza da parte dei giovani, aspetti che rivelano un indubbio declino della legittimità della Repubblica islamica. Ma oltre alla pars destruens anche la pars construens presenta aspetti interessanti. In particolare l’esibizione di simboli che si rifanno alla più o meno antica tradizione persiana, come la bandiera nazionale (con il sole e il leone), che caratterizzava anche la monarchia dello Shah o il richiamo alle glorie e alle conquiste di Ciro il grande. Le sfide che dovrà affrontare questa nuova ondata di protesta sono tuttavia almeno due.
Un Paese strategico
L’Iran è un paese strategico per il sistema internazionale per almeno due motivi. Da un lato, è situato in un quadrante geopolitico di indiscutibile rilevanza e i suoi indirizzi incidono profondamente in quest’area del mondo. Dall’altro, il suo sistema rappresenta il simbolo più potente dell’islamismo politico “realizzato”, vale a dire uno stato che si regge su un vero e proprio regime teocratico basato sui precetti di questa religione. È evidente che un eventuale cambio di sistema politico potrebbe avere ripercussioni molto importanti sia sul piano degli equilibri planetari sia su quello ideologico. Le transizioni da sistemi autoritari non sono facilmente prevedibili, anche se solitamente seguono alcune regole generali che sono state analizzate e spiegate dalla letteratura scientifica specializzata in questo campo. Diversi fattori possono favorire, o, viceversa, inibire il passaggio da un’autocrazia a una democrazia. Uno di essi è rappresentato dalla specifica natura del regime autoritario, l’altro dalle caratteristiche e dalla forza delle opposizioni.
Cos’è un regime ibrido
I regimi autoritari non sono tutti uguali, alcuni sono sistemi a partito unico, altri regimi militari, altri ancora monarchie. Una categoria a parte, molto diffusa dopo la fine della Guerra fredda è quella dei cosiddetti regimi ibridi, che combinano in varia misura e diverse modalità elementi di pluralismo politico e elementi tipici di una dittatura. La Repubblica islamica è uno di questi regimi ibridi, poiché non è un sistema monolitico, e le diverse fazioni al suo interno si contendono il potere anche attraverso competizioni, come le elezioni presidenziali, che hanno per oggetto il voto popolare (sebbene a seguito di un sistema di preselezione da parte delle istituzioni islamiche). L’analisi empirica sembra dimostrare che in questo tipo di regimi risulta più probabile una transizione alla democrazia. In primo luogo, la competizione tra fazioni rivali favorisce la divisione tra “softliner” e “hardliner” del regime autoritario, indebolendo la legittimità delle istituzioni e favorendo un possibile gioco di sponda e alleanza, in vista di possibili negoziati, tra i “softliner” e le opposizioni. Secondariamente, il parziale pluralismo dei regimi ibridi in qualche misura abitua e familiarizza forze politiche e cittadini alle regole del gioco democratico, seppur in contesti nei quali tali regole sono, de rule e de facto, limitate e manipolate. Anche le opposizioni possono presentare caratteristiche diverse. Possono presentare sia un volto pacifico oppure una disposizione ad adottare forme violente di azione, sino al punto di fare ricorso alla lotta armata. Si differenziano inoltre anche in base alla struttura, alla forza organizzativa e al grado di coesione tra le loro diverse anime.
Nella fase attuale iraniana, si nota come la Repubblica islamica abbia in buona parte perso la sua ibridità, diventando sempre più un sistema rigido. Questo lo si è notato, già con le ultime elezioni presidenziali, in cui una buona parte dei cosiddetti riformisti, pragmatisti, insieme a una parte dei conservatori, sono stati esclusi dall’accesso alla carica presidenziale. Questo su input della leadership della Repubblica islamica. A seguito delle proteste di questi mesi, che appunto minano le fondamenta del sistema politico-islamico, la Repubblica islamica si è ulteriormente irrigidita. Le risposte alle manifestazioni sono state molto rigide con repressioni in piazza, arresti e condanne a morte. Secondo Iran Human Rights sarebbero 500 le persone uccise e almeno 17 condannate a morte (di cui due già impiccate). Questo irrigidimento della Repubblica islamica è un fatto importante da considerare nell’analisi di quello che potrà accadere nei prossimi mesi in Iran.
Una rivoluzione culturale e sociale
D’altro canto, le forze delle opposizioni sono principalmente costituite in Iran da queste nuove generazioni che, sostenute anche dalle altre fasce d’età, sembrano essersi guadagnate un ruolo di leadership importante. Si nota, al momento, un atteggiamento pacifico da parte di questi giovani che sono in una fase costruttiva di nuovi network e gruppi organizzati all’interno del Paese. Vi sono poi personalità di spicco, provenienti dal mondo dello spettacolo, dello sport e del giornalismo, che, a livello mondiale, stanno dando voce alle proteste in sedi internazionali quali l’Onu e l’Ue. Tra questi spicca l’ex campione di calcio, il Maradona dell’Iran, Ali Karimi, l’attrice Nazanin Boniadi e la giornalista Masih Alinejad. Inoltre, anche il Principe ereditario, Reza Pahlavi, sta svolgendo un ruolo di facilitatore, a sostegno della protesta, all’estero. Ciò che sembra importante è che le forze politiche della vecchia opposizione all’estero non suscitino interesse nelle nuove generazioni, che non trovano rappresentanza in quegli ormai obsoleti format politici del secolo scorso.
Pertanto, ciò che sta accadendo in Iran non è solo un movimento di protesta, ma una rivoluzione culturale e sociale.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
Iran, Raisi l’ultraconservatore
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Il diciotto giugno del 2021 Ebrahim Raisi (1960) è stato eletto Presidente della Repubblica islamica dell’Iran. Raisi, entrato in carica il 3 agosto del 2021, rappresentata il fronte conservatore iraniano ed è molto vicino all’ufficio della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Raisi ha un passato importante trascorso all’interno della magistratura iraniana in cui ha svolto vari ruoli chiave come procuratore generale e come Capo della Magistratura. È considerato come uno dei fedelissimi dell’ayatollah Khamenei ed è anche ben visto da una buona parte dell’élite militare dei Guardiani della Rivoluzione (i Pasdaran). Inoltre, appartenendo al clero sciita, riesce ad attrarre il sostegno di una parte della gerarchia clericale presente nelle rispettive città sante di Mashhad (da cui proviene) e di Qom. Tuttavia, è molto criticato da gran parte dell’opinione pubblica iraniana per il suo ruolo svolto nell’eliminazione “illegale” di centinaia di prigionieri politici negli anni ’80. Si è infatti notata, durante le ultime elezioni, l’affluenza più bassa alle elezioni presidenziali con il 49%. Questa bassa affluenza è stata, da una parte degli analisti, interpretata come un boicottaggio e quindi come una critica strutturale alla Repubblica islamica. Mentre altri studiosi hanno visto, in questo dato, una importante voce critica nei confronti delle politiche economiche e sociali del sistema politico iraniano.
Raisi diventa Presidente in uno dei momenti più difficili della storia contemporanea iraniana. Il nuovo Presidente dovrà affrontare varie sfide sia sul fronte interno sia su quello estero.
La politica interna
Sul fronte interno, deve affrontare l’alto livello di malcontento tra i cittadini nei confronti del sistema politico iraniano. Questa disaffezione di gran parte della popolazione iraniana è il risultato del ciclo di speranza e disillusione che molti elettori hanno vissuto negli ultimi decenni. La fiducia nell’élite al potere nella Repubblica islamica non è mai stata così bassa come oggi.
Le ragioni principali di questa diffusa disaffezione sono: il disagio economico provocato dalle sanzioni internazionali; l’alto livello di corruzione tra l’élite al potere; la disuguaglianza sociale; l’inefficace gestione della pandemia e la repressione dei movimenti di protesta antigovernativi.
Tutti questi fattori hanno provocato un disincanto nei confronti di tutte le fazioni politiche attive all’interno della Repubblica islamica, compresi i riformisti, i pragmatisti e i conservatori. Questo è stato notato soprattutto durante le manifestazioni antigovernative del 2017, del 2019 e del 2021 (le c.d. dimostrazioni per l’acqua). I manifestanti hanno espresso la loro insoddisfazione per l’intera classe politica, come indicato dallo slogan “Riformisti e conservatori, è tutto finito” (Eslahtalab, Osoulgara, dige tamoum-e majara), ma anche dalla bassa affluenza alle elezioni parlamentari del 2018 e di quelle presidenziali del 2021.
In altri termini, la presidenza Raisi dovrà misurarsi sia con le nuove generazioni e le donne che chiedono maggiori libertà civili e politiche sia con una vasta gamma di classi lavoratrici che chiedono maggiore giustizia sociale. La diseguaglianza sociale in Iran, negli ultimi anni, è cresciuta in modo considerevole. Spesso si nota una minoranza della popolazione, affiliata all’élite della Repubblica islamica, con livelli di ricchezza straordinari, mentre una parte della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta. Questo fatto contraddice i principi rivoluzionari del khomeinismo del 1979 che sosteneva di voler dare dignità e potere ai c.d. ‘diseredati’ della terra. Pertanto, una buona parte di quei cittadini iraniani che credevano di poter vivere in condizioni di eguaglianza sociale oggi si vedono frustrati e critici nei confronti dell’élite al potere. Il vero compito e la sfida di Raisi, in politica interna, saranno quelli di essere all’altezza di affrontare queste situazioni critiche presenti all’interno del tessuto sociale del Paese.
La politica estera
Sul fronte estero, invece, Raisi si trova di fronte a quattro situazioni importanti: il ripristino dell’accordo JCPoA, la gestione del rapporto con le potenze globali tra cui Cina, Russia e Stati Uniti e il posizionamento di Teheran all’interno del c.d. triangolo sciita e, infine, il regolamento dei rapporti con i Talebani in Afghanistan.
Per quanto riguarda l’accordo nucleare, sicuramente Raisi ha a disposizione tutto l’appoggio del ‘deep state’ iraniano al fine di riprendere i colloqui con più efficacia rispetto al suo predecessore, l’ex Presidente Hassan Rouhani. Considerate le difficili condizioni economiche del paese, insieme al grande disagio sociale, è probabile attendersi una maggiore flessibilità da parte di Raisi sul caso nucleare allo scopo di ridurre le sanzioni internazionali in vigore verso Teheran.
Per quanto concerne i rapporti con le potenze globali, è da aspettarsi un rafforzamento dell’alleanza tra il governo di Raisi e Pechino e pertanto una maggiore presenza economica e anche militare cinese nel Golfo persico. Sul fronte mediorientale, Raisi manterrà la politica di presenza sul campo di Teheran nello scacchiere sciita, ma probabilmente dimostrerà qualche disponibilità nei confronti dei Paesi occidentali a diminuire l’influenza di Teheran in Yemen e in Siria, in cambio, però, di aperture economiche occidentali verso l’Iran.
Il caso dei Talebani, invece, a differenza di quanto possa sembrare, potrebbe diventare un problema spinoso per il Governo di Raisi. In prima analisi può sembrare che un Governo islamico, sebbene sunnita, come quello dell’Emirato islamico dei Talebani, possa comunque essere di gradimento a Teheran. Invece, secondo una diversa analisi, l’ascesa dei Talebani in Afghanistan potrebbe creare maggiore instabilità in Iran, fungendo da supporto ad alcune fazioni interne ribelli antigovernative presenti, ad esempio, nella regione del Sistan e Balucistan in Iran. Queste fazioni possono essere supportate dai Talebani in chiave anti repubblica islamica. O comunque la presenza di un Emirato islamico sunnita di etnia Pashtun al potere in Afghanistan può stimolare rivolte etniche sia in Iran sia in Pakistan. Pertanto, Raisi inizia il suo mandato con un nuovo problema da risolvere in politica estera, quello dei Talebani.
Ciò che Raisi riuscirà a ottenere in politica estera, sarà fondamentale per la gestione della crisi interna iraniana. Pertanto, la vera scommessa di Raisi sarà focalizzata nella politica estera dell’Iran, in quanto i principali disagi interni sono, direttamente o indirettamente, in connessione con le relazioni internazionali di Teheran.
Una maggiore apertura verso la comunità internazionale offrirebbe a Raisi la possibilità di avviare un risanamento economico e sociale del Paese. Tuttavia, non va dimenticato che l’Iran oggi, più di prima, deve tenere conto della sua alleanza con la Cina. Se Rouhani era propenso più verso il mondo occidentale, Raisi predilige il mondo orientale diviso tra Mosca e Pechino.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.