[ROMA] Giornalista, fotoreporter e autrice di I bugiardi del clima (Laterza, 2021). Collabora con testate italiane e internazionali ed è specializzata nel negazionismo del cambiamento climatico.
Climate change, le grandi menzogne su inquinamento e Green
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La responsabilità climatica delle aziende viene associata, il più delle volte, alla quantità di emissioni che producono. In sostanza, se un’azienda emette tanto, inquina tanto, e ha maggiore responsabilità. Ma la responsabilità climatica ha a che fare anche con meccanismi meno visibili, in altre parole, quello che un’azienda o un settore fa per nascondere quanto inquina e per ostacolare l’azione politica sul clima.
Con gli strumenti e le risorse giuste, arrivare a calcolare la responsabilità di un’azienda in termini di emissioni è abbastanza semplice, mentre quantificare gli sforzi negazionisti, le strategie di comunicazione, la manipolazione mediatica, la propaganda, i finanziamenti e la disinformazione, è più complesso.
Aziende e sostenibilità: i rischi climatici
Un recente rapporto pubblicato a novembre 2021 dal think tank indipendente Influence Map tenta di fare proprio questo: identifica le aziende e le associazioni industriali che più ostacolano le politiche climatiche. Criterio che, secondo il rapporto, dovrebbe essere considerato insieme alle emissioni fisiche quando si valuta il ruolo di un’azienda nella crisi climatica. Secondo lo studio, le prime cinque aziende al mondo secondo questi parametri sono ExxonMobil, Chevron, Toyota, Southern Company e Sempra. Queste conclusioni coincidono in parte con i risultati di un’altra analisi del 2018, secondo cui solo 100 aziende sono responsabili di più del 70% delle emissioni di gas serra nel mondo dal 1988, e più della metà di queste emissioni industriali globali è riconducibile a sole 25 entità aziendali e statali. Anche tra queste ci sono ExxonMobil e Chevron e altre tra cui Shell, Total, BP, Saudi Aramco, Gazprom e il settore cinese del carbone.
Molte di queste aziende sapevano dei rischi ambientali e climatici legati alla produzione dei combustibili fossili già dagli anni ’70 e ’80. Ne erano a conoscenza perché avevano scienziati interni che avevano osservato il legame tra i carburanti fossili e l’aumento delle emissioni, e avevano fatto previsioni accurate sulle conseguenze di continuare con il business as usual. Per questo, nel 2015, quando un’indagine giornalistica scoprì alcuni documenti interni di Exxon, divenne popolare l’hashtag #Exxonknew, Exxon sapeva. E così anche Shell, BP, Total e altre aziende. Eppure, invece di cambiare rotta hanno messo in campo una campagna di disinformazione sul clima attraverso propaganda, strategie di comunicazione, attacchi alla scienza del clima, lobbying e milioni di dollari di finanziamenti. Finanziamenti che, soprattutto negli Stati Uniti, spesso sono diretti verso campagne politiche e candidati politici al fine di ostacolare la regolamentazione governativa sulle emissioni al settore fossile. Solo nel 2020, questo settore ha speso più di 80 milioni di dollari in attività di lobbying dirette soprattutto, ma non esclusivamente, verso canditati repubblicani. Nei tre anni dopo l’Accordo di Parigi, solo Exxon Mobil, Shell, Chevron, BP e Total S.A. hanno speso più di 1 miliardo di dollari in attività di lobby ingannevoli sul clima.
Negazionismo e disinformazione sul clima
Oggi, il negazionismo di queste aziende, di cui il caso Exxon è il più esemplare, non è più assoluto. Al contrario di pochi decenni fa, le aziende ormai ammettono pubblicamente l’esistenza del cambiamento climatico e la responsabilità dell’attività umana, tuttavia continuano a fare pressioni “dietro le quinte” per evitare le regolamentazioni sulle emissioni e ritardare le politiche climatiche. Molte delle strategie utilizzate durante la campagna di disinformazione sul clima cominciata negli anni ’70 e ’80 vengono usate ancora oggi. Il greenwashing, forse, è tra le più conosciute e consiste nella pratica fuorviante di promuovere un prodotto o un servizio come “verde” al fine di distogliere l’attenzione dalle proprie responsabilità in termini di inquinamento e, allo stesso tempo, risultare “appetibile” ai consumatori.
Il greenwashing fossile ricalca la disinformazione delle aziende di tabacco ed è utilizzato dal settore per ingannare il pubblico e deviare l’attenzione dalla propria responsabilità. Ma queste aziende non sono le uniche a sfruttare questa strategia. Molte compagnie di cui compriamo e utilizziamo i prodotti o i servizi ogni giorno sono state accusate di greenwashing, oltre che di inquinare. Nel 2021, per il quarto anno consecutivo, la Coca-Cola e la PepsiCo si sono classificate come i principali inquinatori di plastica al mondo secondo Break Free From Plastic il cui rapporto sostiene che se il settore della plastica fosse un paese, sarebbe il quinto emettitore di gas serra al mondo.
La maggior parte delle aziende menzionate finora sono legate tra loro attraverso la filiera produttiva. Le aziende di beni di consumo come Coca-Cola, PepsiCo, Nestlé, Unilever, Procter & Gamble comprano imballaggi da produttori che si riforniscono di resina plastica dal settore fossile di ExxonMobil, Shell, Chevron e altre. Anche in questo caso, le aziende non sono solo responsabili di emettere e inquinare ma anche di aver messo in campo strategie di manipolazione comunicativa e mediatica per convincere il pubblico che la plastica non sarebbe stata un problema. L’inchiesta Plastic wars di National public radio (Npr) e Public broadcasting service Frontline del 2020 mostra come i consumatori siano stati ingannati, dall’industria petrolifera in particolare, a pensare che il riciclo avrebbe risolto il problema dei rifiuti e come i dirigenti delle aziende sapevano che non sarebbe stato possibile già negli anni ’70, eppure hanno speso milioni di dollari per comunicare il contrario. Di tutta la plastica prodotta dagli anni ’50, solo il 9% è stata riciclata.
Decarbonizzazione e deforestazione
Anche l’industria della moda e dell’abbigliamento outdoor non è esente dai legami col fossile e continua a fare molto affidamento sul carbone per alimentare la produzione. Pur impegnandosi pubblicamente per la decarbonizzazione, molti marchi continuano a ignorare le emissioni di gas serra prodotte dalla catena di approvvigionamento. Nella scheda di valutazione del rapporto Stand.earth, su più di 50 aziende, tre quarti ha ottenuto il livello più basso sull’uso di energia rinnovabile nella catena di approvvigionamento. I marchi del fast fashion pubblicizzano spesso le proprie iniziative o i propri prodotti come green, nonostante costituiscano una percentuale molto bassa dell’attività.
Il rapporto di Stand.earth, poi, ha analizzato migliaia di dati doganali e ha scoperto che marchi come Coach, Prada, H&M, Zara, Adidas, Nike, New Balance, UGG e Fendi hanno connessioni con il più grande esportatore di pelle brasiliano, JBS, noto per avere un ruolo significativo nella deforestazione in Amazzonia.
Anche le aziende di carne e latticini come JBS sono responsabili di una parte della disinformazione sulla crisi climatica. Tra le strategie più utilizzate dal settore ci sono: sminuire l’impatto degli allevamenti sul clima, promuovere i benefici della carne per la salute e trascurare l’impronta ambientale dell’industria che è pari a circa il 14% delle emissioni globali di gas serra. Oltre alle aziende, poi, vale la pena menzionare il settore delle banche che spesso finanzia attività e progetti inquinanti, dal fossile alla plastica.
Giudicare se una compagnia sia realmente sostenibile è complesso perché, come appare chiaro dal quadro delineato finora, gli elementi da tenere in considerazione sono molti. In alcuni casi, quelli di aziende che non si collocano tra i maggiori emettitori, dipende anche dai criteri di valutazione. E, anche se molte aziende emettono troppo e invece di impegnarsi per la lotta alla crisi climatica si impegnano per ostacolarne l’azione, oggi, sempre più compagnie si stanno muovendo verso modalità e prodotti più sostenibili. Uno dei motivi è che c’è una pressione maggiore da parte dei consumatori. Ma è necessario che questi movimenti dal basso siano appoggiati e guidati da un’azione politica di regolamentazione sulle industrie e sulla produzione.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.