“Durante un suo viaggio in America del Sud, Bruce Chatwin incontrò una anziana signora che camminava nel deserto trasportando una scala di alluminio sulle spalle. Era l’archeologa tedesca Maria Reiche, che studiava le linee di Nazca. A guardarle stando con i piedi appoggiati al suolo, le pietre non avevano alcun senso, sembravano soltanto banali sassi. Ma dall’alto della scala, le pietre si trasformavano in uccelli, giaguari, alberi o fiori.” Con queste parole e la foto dell’anziana signora sulla scala nel deserto come manifesto, Alejandro Aravena, architetto cileno creatore del Do Tank ELEMENTAL (promotore di progetti di edilizia a basso costo basati su un modello di crescita progressiva affidata agli abitanti), introduce la sua Biennale, Reporting From the Front.
In un momento di crescente scollamento tra architettura e società Aravena ci ricorda che l’architettura si occupa di dare forma ai luoghi in cui viviamo e che queste forme possono migliorare o peggiorare la vita delle persone: possono alzare barriere e moltiplicare il cemento, oppure possono costruire ponti, offrire accoglienza, sostenere l’integrazione, aver cura delle nostre risorse comuni.
E la mostra è piena di cose interessanti: opere e progetti che scrutano l’orizzonte, mostrando come l’architettura e il progetto possono fare la differenza. Anche attraverso pratiche e approcci molto diversi. Gestendo eventi straordinari come il raduno sulle rive del Gange di 100 milioni di persone in 55 giorni, mostrando abusi e violazioni dei diritti umani, o costruendo soluzioni per l’accoglienza dei migranti o per rivitalizzare una cittadina periferica invertendo il flusso dei giovani che la abbandonano.
Partendo dunque dalla selezione di Aravena, ecco la straordinaria documentazione del Kumbh Mela (realizzata da Rahul Mehrotra e Felipe Vera insieme ad un folto gruppo di professori e studenti di Harvard), pellegrinaggio Hindu che si celebra ogni tre anni a rotazione in 4 diversi luoghi sacri, richiedendo la realizzazione di una città per 5 milioni di abitanti in continuo movimento: la più grande città temporanea ed effimera che la Terra abbia conosciuto. Costruita lungo le rive del fiume su un’area coperta dall’acqua sino a tre mesi prima dell’evento e nuovamente ripresa dal fiume subito dopo, la città del Kumbh Mela ha pareti di stoffa o cartone ondulato con strutturure in bambù, mentre le strade e tutto il resto dell’infrastruttura, sono realizzati con materiali leggeri come piastre d’acciaio trasportabili a mano e assemblati da fascette metalliche pensate per un rapido disassemblaggio. I molteplici ponti sul fiume sono fatti di barche. Alla fine del festival i materiali più importanti e duraturi vengono raccolti e immagazzinati per l’evento successivo, molti materiali vengono riciclati immediatamente dalle economie locali, altri, come la paglia e il bambù vengono abbandonati e riassorbiti dalla natura del fiume che ben presto cancella ogni traccia della griglia costruita e per i successivi 12 anni, passata la stagione dei monsoni, tornerà ad ospitare terreni coltivati.
Saltando dall’India al Sud America, Medellìn (città pilota di molte buone pratiche di politica urbana) ci propone uno bellissimo progetto di trasformazione di un limite (uno spazio inaccessibile) in una risorsa per la collettività: una serie di grandi serbatoi d’acqua, per anni considerati una infrastruttura da proteggere attraverso recinzioni e divieti, sono stati trasformati in parchi, spazi pubblici ricchi di fontane e terrazze. Grazie alla visione del Grupo EPM – Departamento de intervenciones urbanas sostenibles, l’infrastruttura che raccoglie la risorsa più preziosa per la vita è così diventata una infrastruttura capace di offrie un nuovo paesaggio pubblico di gioco e aggregazione, una infrastruttura di contrasto al degrado e alla violenza.
Proseguiamo il viaggio che da Venezia ci catapulta da una parte all’altra del mondo, spostandoci in Sud Africa, dove il poliziotto Patrick Ndlovu e l’architetto Richard Dobson, dopo aver partecipato al progetto di rigenerazione portato avanti dalla municipalità di Durban per la Warwick Junction (divenuta dopo l’apartheid l’hub dell’economia informale della città con circa 4.000 venditori ambulanti disposti sopra e sotto un tratto di autostrada sopraelevata abbandonato), convinti del divario crescente tra l’agenda del governo e la vita reale della città, hanno lasciato i propri posti nella municipalità per dar vita alla Ong Asiye eTafuleni (“bring it to the table”). La Ong, oggi basata nel mercato della Warwick Junction, lavora perchè le comunità di commercianti informali (di cibo, vestiti, medicine, elettronica e ogni genere di merci e servizi) vengano coinvolte e incluse nei processi di rigenerazione, riconoscendo l’importanza di un uso libero e creativo dello spazio pubblico. Il mercato, reso più vivibile e sicuro attraverso la costruzione di una serie di scale e ponti pedonali che completano le connessioni interrotte (su progetto dello studio designworkshop:sa), è oggi uno dei mercati più importanti e vitali dell’Africa del sud.
Tornando in Europa, Forensic Architecture è un gruppo di architetti, filmaker, avvocati, scienziati, basati alla Goldsmiths University di Londra, che utilizza gli strumenti dell’analisi spaziale per costruire mappe interattive, modelli e animazioni che possano servire come prove di violazione di diritti o della verità in situazioni di conflitto come la Palestina. A partire dalla nuova disponibilità di dati, immagini, riprese, spesso condivise online in tempo reale nelle città campo di battaglia, Forensic Architecture ri-costruisce eventi dinamici così come si sono dispiegati nello spazio e nel tempo (per esempio la caduta di una bomba su una casa), fornendo evidenze ad organizzazioni come Amnesty International, il Bureau of Investigative Journalism, Human Rights Watch, il Centro para la Acción Legal en Derechos Humanos/ Guatemala.
Passando ai padiglioni nazionali, la proposta più interessante viene forse dalla Germania che, con Making Heimat. Germany Arrival Country ci offre una riflessione sull’arrivo delle centinaia di migliaia di migranti che il paese ha accolto, fronteggiando la sfida più grande dopo la riunificazione. Molte di queste persone rimarranno a lungo, molte diverranno parte del paese. C’è bisogno di case ma anche e soprattutto di strategie di integrazione. E l’architettura può contribuire ma anche ostacolare l’inclusione. Può faciliare o negare la vitalità dello spazio pubblico. È così che se la Germania mostra una selezione straordinaria di progetti di varie tipologie di residenze per rigugiati, la Danimarca dedica parte del suo padiglione ad una interessante installazione video sulle ricerche sullo spazio pubblico di Jan Gehl.
Ancora sul tema dell’accoglienza il padiglione austriaco che con Places for People dedica la maggior parte del suo budget a 3 progetti reali commissionati ad altrettanti studi in collaborazione con delle Ong che gestiscono 3 spazi per rifuggiati a Vienna, presentando nel padiglione idee e risultati di sei mesi di lavoro sul campo. Grandi ombrelloni con tende girevoli per creare spazi di intimità all’interno delle stanze comuni; un manuale per l’auto-assemblaggio di “mobilia comunitaria” (cucine, tavoli, scaffali, mensole) ad uso non solo di comunità di rifugiati; un modulo abitativo minimo e chiudibile come un armadio per trasformare uno spazio per uffici abbandonato in uno spazio abitabile ed una serie di soluzioni per riconnettere l’edificio al quartiere (attraverso aperture nelle recinsioni, scale e rampe); queste in sintesi le proposte raccontate nel padiglione attraverso alcuni dispaly, un giornale e dei grandi poster con foto dei rifugiati da portare a casa.
Anche l’Italia con Taking Care – Progettare per il bene comune a cura di TAMassociati, oltre a mostrare una selezione di progetti di rigenerazione urbana attivati con strategia collaborative (tra cui lo straordinario caso di Favara, cittadina siciliana sino a qualche anno fa perlopiù sconosciuta agli stessi siciliani e che in sei anni, grazie alla creazione del centro di produzione artistica FARM, è diventata una delle attrazioni del turismo culturale in Sicilia, nonchè un centro di ritrovo per giovani creativi), ha immaginato una operazione innovativa per andare oltre la mostra realizzando, attraverso un crowdfounding civico, 5 architetture mobili da far viaggiare nelle periferie italiane: 5 presidi di ascolto e di diritto al gioco, alla cultura, alla legalità, alla salute e alla qualità ambientale. Si può donare sino al 30 Novembre!
http://www.periferieinazione.it/
“Durante un suo viaggio in America del Sud, Bruce Chatwin incontrò una anziana signora che camminava nel deserto trasportando una scala di alluminio sulle spalle. Era l’archeologa tedesca Maria Reiche, che studiava le linee di Nazca. A guardarle stando con i piedi appoggiati al suolo, le pietre non avevano alcun senso, sembravano soltanto banali sassi. Ma dall’alto della scala, le pietre si trasformavano in uccelli, giaguari, alberi o fiori.” Con queste parole e la foto dell’anziana signora sulla scala nel deserto come manifesto, Alejandro Aravena, architetto cileno creatore del Do Tank ELEMENTAL (promotore di progetti di edilizia a basso costo basati su un modello di crescita progressiva affidata agli abitanti), introduce la sua Biennale, Reporting From the Front.