Nello Stato democratico sono state raccolte quasi due milioni di firme per destituire Gavin Newsom. Ad animare il dibattito ci sono anche il possibile ritorno di Trump e la legge anti aborto in Texas
Martedì si vota per la possibile destituzione del governatore democratico della California Gavin Newsom. Il voto di recall per il governatore non è una novità né una stranezza: negli Stati Uniti si possono destituire attraverso la raccolta di firme e un voto popolare successivo quasi tutte le cariche elettive locali (non quelle federali).
In California sono state raccolte quasi due milioni di firme dopo che un giudice ha consentito al prolungamento della durata della petizione. Si tratta di un referendum Sì o No e, poi, della possibilità di scrivere il nome del sostituto; i candidati sono un centinaio e il paradosso di un regolamento mal scritto è che in caso di vittoria dei Sì, il primo tra questi, qualsiasi numero di voti prendesse, diverrebbe governatore. La discussione sul come modificare la legge è uno dei temi di questa campagna: solo nell’anno in corso l’avvio di petizioni in altri Stati ha riguardato 20 eletti, ma il basso numero di firme necessario in California ha reso questa l’unica petizione a giungere al passo successivo, quello del voto.
Le motivazioni dietro il voto di recall
Grazie a questo prolungamento e alla stanchezza da misure anti Covid prese da quello che è stato uno dei primi a imporre chiusure e lockdown, la raccolta delle firme è andata a buon fine. Poi sono venuti gli incendi estivi, la crisi abitativa nelle grandi città, una questione endemica accentuata dalla pandemia e le difficoltà per le piccole imprese della ristorazione e non solo, la variante Delta. E così quello che per i democratici doveva essere un voto importante ma tranquillo è divenuto problematico.
Intendiamoci, Gavin Newsom è il favorito a rimanere governatore dello Stato più ricco e popoloso, i sondaggi danno un ampio margine di vantaggio ai No. Ma comunque i dem non dormono sonni tranquilli. Queste sono le settimane dell’Afghanistan e del primo scivolone di Joe Biden nei sondaggi; l’agenda economica del Presidente è bloccata dalle rimostranze del senatore della West Virginia Joe Manchin, che con il suo voto è in grado di bloccare ogni iniziativa legislativa, la variante Delta ha reso la ripresa meno sostenuta di come si prevedesse. Una sconfitta nello Stato democratico per eccellenza sarebbe un terremoto politico. Per tutte queste ragioni i pezzi da novanta del partito, a partire dalla vicepresidente Harris, che viene dalla California, sono corsi a fare campagna. Il Presidente Biden è atteso oggi (lunedì). Il voto californiano apre una breve stagione elettorale che prevede anche la scelta dei governatori di Virginia e New Jersey, voto previsto il 2 novembre con un lungo periodo di voto in anticipo e per posta. In entrambi gli Stati il governatore uscente è un democratico. Si tratta di elezioni importanti perché sono in qualche modo un test sulla tenuta del partito di Biden dopo un anno di Governo e a un anno dalle elezioni di metà mandato.
Il dibattito elettorale
Ad animare il dibattito elettorale ci sono naturalmente le questioni locali, ma anche i grandi temi nazionali. Per i democratici la parola d’ordine è parlare di Trump e del suo possibile ritorno e la nuova crociata anti-abortista, che in uno Stato liberale come la California è certo un argomento forte. Il partito di Biden userà, non a torto, la legge medievaleggiante approvata in Texas e la sua validazione da parte della Corte suprema come uno spauracchio. Funzionerà per mobilitare quelle donne che nel 2020 hanno votato in larga maggioranza per il Presidente in carica?
Sul fronte opposto, i repubblicani mettono le mani avanti: se Newsom dovesse vincere “è perché i democratici truccano le elezioni”, ha detto Larry Elder, il repubblicano con più gradimento nei sondaggi che testano i candidati a un’eventuale sostituzione di Newsom. Usando l’argomento “elezioni rubate” persino prima di perdere, Elder, un radio host conservatore con una storia di uscite infelici su donne, ambiente e Covid, ricalca il modus operandi di Trump e contribuisce ulteriormente a screditare il processo elettorale e democratico. Ma è un messaggio che funziona? Forse colpisce e mobilita una parte della società statunitense, ma non pare un argomento in grado di conquistare consensi. Allo stesso modo non sembra funzionare l’argomento “se verrò eletto cancellerò tutte le restrizioni e gli obblighi da Covid imposti da Newsom”.
Dopo l’introduzione del vaccino obbligatorio per alcune categorie deciso a livello statale, la popolarità del governatore è cresciuta, non diminuita. A fidarsi dei sondaggi, tutto dovrebbe andare liscio per i democratici. Per sapere se le rilevazioni a campione hanno funzionato non resta che osservare quanta gente si recherà alle urne e, poi, martedì a notte fonda (o mercoledì mattina) conoscere il risultato di questo test elettorale americano.
In California sono state raccolte quasi due milioni di firme dopo che un giudice ha consentito al prolungamento della durata della petizione. Si tratta di un referendum Sì o No e, poi, della possibilità di scrivere il nome del sostituto; i candidati sono un centinaio e il paradosso di un regolamento mal scritto è che in caso di vittoria dei Sì, il primo tra questi, qualsiasi numero di voti prendesse, diverrebbe governatore. La discussione sul come modificare la legge è uno dei temi di questa campagna: solo nell’anno in corso l’avvio di petizioni in altri Stati ha riguardato 20 eletti, ma il basso numero di firme necessario in California ha reso questa l’unica petizione a giungere al passo successivo, quello del voto.