Giornalista e ricercatore, è autore di Come cambia l’America (con Mattia Diletti e Mattia Toaldo, 2009) e di Tea party (con Giovanni Borgognone, 2011).
L’ansia americana
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L’invasione dell’Ucraina e la visita (inopportuna) di Nancy Pelosi a Taiwan hanno contribuito a peggiorare lo stato delle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Alla radice di questo peggioramento sono l’ossessione/preoccupazione americana per l’ascesa cinese e la conseguente e inevitabile condivisione del ruolo di leader planetario, la crescente assertività di Pechino sotto la guida di Xi Jinping volta a dare alla Cina quel che considera il suo posto nel mondo. Non condannando l’invasione di un paese da parte russa, Pechino sceglie la strada dell’ambiguità, mentre gli Usa vedono nella guerra una finestra per ricostruire legami che stavano perdendo di significato e ridefinire la propria leadership di uno schieramento che si vorrebbe democratico e anti-autoritario. L’Ucraina diviene l’occasione per rilanciare la sfida e ridefinire o testare le alleanze.
Leggi anche “Cosa vogliono davvero i taiwanesi”.
La visita di Pelosi e la retorica Usa su Taiwan sono schiaffi simbolici intollerabili sul terreno della One China Policy, l’ambiguo status quo che per decenni ha consentito a Pechino di immaginare la riunificazione come di là da venire e all’isola di condurre la propria vita indipendente. L’imponenza delle manovre militari seguite alla visita di Pelosi è forse un modo per segnalare che l’assertività, la cosiddetta “wolf warrior diplomacy” non è solo sugli account Twitter di alti funzionari della diplomazia cinese. Da parte americana sembra invece esserci un gioco di azione-reazione più che una strategia di lungo periodo.
Gli ultimi mesi non ci devono far dimenticare che la competizione sino-americana non è una novità. Entrambi i Paesi (purtroppo in buona compagnia) hanno speso massicciamente in armi: Pechino ha raddoppiato la sua spesa per la Difesa tra 2011 e 2020 (da 125 a 240 miliardi secondo il SIPRI) con nuovi investimenti nei due anni successivi; gli Usa continuano a essere di gran lunga il primo paese a investire nel proprio apparato militare-industriale e spendono circa tre volte la Cina − una sproporzione in parte mitigata da costi diversi. Negli anni di Trump, il Covid definito “Kung flu” e le tensioni commerciali non hanno favorito la creazione di luoghi formali di confronto. La repressione a Hong Kong ha fornito argomenti agli assertori di un atteggiamento fermo nei confronti di Pechino.
La reazione al contraccolpo da coronavirus − combinato con la disastrosa gestione trumpiana − è stata l’occasione per un’offensiva cinese uguale e contraria a quella americana su democrazia e diritti. La Cina di Xi Jinping propone l’alternativa di un modello di successo, stabile e privo degli intralci e le farraginosità del processo democratico. Secondo un’indagine condotta annualmente dal Pew Research Center, l’offensiva cinese (anche sui social media e a mezzo stampa) non ha migliorato il prestigio del Paese tra gli alleati degli Usa in Europa, Asia e Oceania. Il modo in cui si guarda alla Cina in Asia combina invece timori per lo strapotere di Pechino e consapevolezza della sua importanza come partner. “I Paesi asiatici non vogliono essere costretti a scegliere − scriveva nel 2020 il primo ministro di Singapore Lee Hsien Loong su Foreign Affairs. E se uno dei due tenterà di imporre una scelta del genere − se Washington cercherà di contenere la Cina o se Pechino cercherà di costruire una sfera d’influenza esclusiva − inizierà un percorso di confronto che durerà decenni”.
I posizionamenti ambigui sull’Ucraina di importanti attori e alleati di Washington come l’India, indicano un disagio crescente per l’ordine mondiale uscito dalla Guerra fredda che ha visto gli Usa come potenza egemone e poliziotto del mondo. I voltafaccia di Trump su nucleare iraniano e accordi di Parigi (per citarne solo due) hanno infine minato l’idea degli Usa come di un partner affidabile.
Parlando alla conferenza annuale del Boao Forum for Asia il Presidente Xi ha lanciato la Global Security Initiative (GSI) contrapponendo al disordine dell’attuale ordine, il cammino pacifico cinese. L’iniziativa politica di Xi è un passo nella direzione di dare una qualche forma politica (e non solo economica) al ruolo di Pechino nel mondo. Leggiamo nella sintesi ufficiale: “Lavorare insieme per mantenere la pace e la sicurezza nel mondo; mantenere l’impegno per il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i Paesi, sostenere la non ingerenza negli affari interni e rispettare le scelte indipendenti dei percorsi di sviluppo e dei sistemi sociali fatte dalle persone nei diversi Paesi; mantenere l’impegno per il rispetto degli scopi e dei principi della Carta dell’Onu, rifiutare la mentalità della Guerra Fredda, opporsi all’unilateralismo e dire no al confronto tra blocchi”. Il riferimento all’ulteriore allargamento della Nato, così come alle altre iniziative americane post invasione dell’Ucraina è tutt’altro che velato, ma le scelte cinesi in questa crisi contraddicono l’idea di “rispetto della sovranità territoriale”. La coerenza non è di casa né a Pechino, né a Washington, costretta per non perdere alleati preziosi a tornare sui suoi passi, ad esempio con l’Arabia Saudita di bin Salman.
Un conflitto inevitabile?
Gli establishment di politica estera si dividono, c’è chi ritiene che un conflitto sia inevitabile e chi pensa che sia possibile individuare strumenti e meccanismi che evitino escalation. Naturalmente c’è un prima e un dopo la guerra in Ucraina e una crisi come questa produce accelerazioni, genera scelte non riflettute. I timori di perdita di egemonia da parte americana e i sospetti cinesi che gli Usa spingano per il regime change, o comunque per limitare l’influenza cinese, non producono idee su come definire una nuova coesistenza pacifica.
L’ansia americana viene anche dal crescente peso cinese nelle quote di commercio mondiale che riguardano i beni manifatturieri e, sempre di più, anche beni ad alto contenuto tecnologico. La Cina non è più solo la “fabbrica del mondo”, ma un produttore di tecnologie avanzate dal mercato interno enorme: tra 2000 e 2020 la quota di tessile esportato è scesa del 9% e quella di beni elettronici cresciuta della stessa percentuale. A questo proposito qualcuno ricorderà la lunga discussione su Huawei e il 5G, un modo per contenere l’espansione cinese su quel terreno − giunta anche in Italia con l’esercizio del Golden Power da parte del Governo Conte 2.
Altri timori riguardano l’efficace esercizio del soft power cinese soprattutto in Africa. Pechino ha lavorato a creare una propria sfera di influenza − 153 miliardi di prestiti tra 2003 e 2019 e investimenti da 74,8 milioni di US$ nel 2003 a 5,4 miliardi nel 2018. Gli Usa inseguono: il Segretario di Stato Blinken ha visitato 9 Paesi del continente e organizzato un vertice Usa-Africa per dicembre.
Il Covid e il blocco del canale di Suez hanno introdotto il tema della deglobalizzazione e del decoupling per quanto riguarda settori e interessi strategici. Facile a dirsi, ma non a farsi. Se negli ultimi mesi il deficit commerciale complessivo americano è sceso, quello con la Cina continua a crescere (200 miliardi DI US$ nei primi sei mesi del 2022, contro 353 di tutto il 2021). Al netto delle guerre di tariffe, Stati Uniti e Cina sono più che legati tra loro da filiere produttive e scambi.
A oggi l’amministrazione Biden ha mantenuto un atteggiamento ambiguo e non ha eliminato i dazi introdotti da Trump. L’oscillazione dipende dal mancato rispetto cinese degli accordi presi con il suo predecessore − Pechino non compra più Made in US come promesso − ma anche da ragioni interne: i sindacati dell’industria sono favorevoli a quelle tariffe perché rendono meno ampio il gap di costo tra merci prodotte in Cina e negli Usa. L’inflazione che corre renderebbe però utile cancellare quelle tariffe per ridurre i costi al consumo di molti prodotti importati. Allo stesso modo, la necessità per le imprese cinesi di continuare ad essere quotate a Wall Street ha condotto ad un accordo di trasparenza con Washington.
Chi guarda al mondo con razionalità ripete spesso che i due colossi sono così legati tra loro che una serie di crisi continue sarebbero un disastro per entrambi. A impedire l’escalation sarebbe la razionalità. Si tratta di una lettura rassicurante e anche convincente, se non stessimo vivendo la crisi ucraina e le sue conseguenze economiche. I sospetti reciproci, le accelerazioni e i meccanismi quasi automatici di azione-reazione, la mancanza di una “road map” che individui tappe e sedi per un confronto tra Cina e Stati Uniti come invece è stato per la Guerra fredda, sono il contrario di scelte razionali e di lungo periodo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Nato: i rischi di una missione ambigua
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Il 4 aprile 1949 dodici Paesi firmavano un Trattato che creava un’alleanza nella quale gli Stati Uniti si facevano garanti della difesa europea, segnalavano la loro intenzione di non “tornarsene a casa” dopo la sconfitta dell’Asse, cui avevano contribuito. Con la guerra di Corea e l’imporsi dell’idea che il conflitto armato per procura o diretto tra i blocchi (con il blocco socialista che fino al 1956 significava anche Cina) potesse divenire una costante, il Trattato prese progressivamente la forma di un’organizzazione. Con il tempo nascevano i comandi nei quali generali di diversi Paesi lavoravano assieme, le basi militari, la figura del Segretario generale, le esercitazioni congiunte − gli storici discutono se quel passaggio all’organizzazione fosse o meno già scritto, qui passateci questa ricostruzione. Fino al 1989 l’organizzazione nata per tenere assieme militarmente l’Europa occidentale e gli Stati Uniti svolge un ruolo importante ma non attivo e l’articolo 5, quello che chiama alla difesa comune in caso di attacco a un membro, funge da deterrente assieme agli arsenali missilistici piazzati da un lato e dall’altro della cortina di ferro.
L’idea del contenimento viene proposta per la prima volta da George Kennan, con quello che passa alla storia come il “lungo telegramma”, un dispaccio da Mosca poi divenuto un articolo su Foreign Affairs a firma “X” nel quale il diplomatico spiegava a Washington che l’Urss avrebbe mantenuto un atteggiamento aggressivo basato su un’idea di contrapposizione tra sistemi e dalla storica insicurezza. Kennan suggeriva un atteggiamento paziente: “È chiaro che l’elemento principale di qualsiasi politica degli Stati Uniti verso l’Unione sovietica deve essere quello di un contenimento a lungo termine, paziente ma fermo e vigile delle tendenze espansive russe”. L’idea di contenimento è stata uno degli assi portanti dell’attività della Nato fino alla vittoria senza guerra del 1989. Con una specifica: Kennan parlava di contenimento e non di corsa agli armamenti e deterrenza, e riteneva che una maggior conoscenza dei russi da parte degli americani avrebbe ridimensionato la paura che si era diffusa negli Stati Uniti in seguito a un discorso di Stalin − da cui lo stesso Kennan partiva nel suo dispaccio.
Paradossalmente, la Nato diviene un attore militare attivo dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia e il crollo del nemico potenziale che aveva fronteggiato per 40 anni.
Dopo il 1989 l’Alleanza atlantica prende una strada nuova e tra il 1991, quando interviene in Kuwait per rispondere all’invasione irachena, e il 2011 in Libia, è protagonista delle guerre in Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Afghanistan, di nuovo Iraq, Somalia. Parallelamente l’Alleanza allarga a est i suoi confini europei, accogliendo come membri ex Paesi del Patto di Varsavia e balcanici.
L’allargamento a est
Questo breve e approssimativo riassunto serve a portarci all’attualità e all’ultimo degli errori della Nato, quello dell’allargamento a est, figlio di una mancata comprensione delle dinamiche e della psicologia russe e di una sostituzione dell’idea che ha guidato gli Usa durante la Guerra fredda con qualcosa che gli somiglia. Chi segue da vicino la politica estera avrà anche già capito che il riferimento a Kennan è importante perché l’artefice di uno degli assi che hanno guidato la politica americana nei confronti dell’Urss fu un fiero oppositore dell’allargamento a est post 1989. “L’espansione della Nato sarebbe il più fatale errore della politica americana in tutta l’era post-bellica. Ci si può aspettare che una tale decisione accentui le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militaristiche dell’opinione pubblica russa; che abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; che ripristini l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est-ovest, e che spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento.
E, ultimo ma non meno importante, potrebbe rendere molto più difficile, se non impossibile, assicurare la ratifica dell’accordo Start II da parte della Duma russa e ottenere ulteriori riduzioni degli armamenti nucleari” scriveva Kennan sul New York Times nel febbraio del 1997. Un anno dopo, intervistato da Thomas Friedman ribadiva gli stessi concetti: “Penso che sia l’inizio di una nuova guerra fredda. Penso che i russi reagiranno gradualmente in modo abbastanza negativo e questo influenzerà le loro politiche (…) Non c’era alcun motivo per farlo (…) E la democrazia russa è tanto avanzata quanto quella dei paesi che abbiamo appena promesso di difendere dalla Russia”. Se avesse ragione Kennan o chi immaginava che la Russia avrebbe comunque avuto l’atteggiamento che ha tenuto è difficile da dire ex post, ma le previsioni del diplomatico si sono rivelate giuste.
L’errore è dunque clamoroso ma ha una giustificazione: molti Paesi dell’ex Patto di Varsavia si sono precipitati a chiedere l’ingresso nella Nato e alleanze con gli Stati Uniti perché memori della loro storia recente e più antica. Certo, gli Stati Uniti avrebbero potuto ragionare più e meglio su quali passi compiere per costruire una cornice di sicurezza europea che non somigliasse a quella pre-‘89, con la sola Russia e alleati fedeli sul fronte opposto. Sbagliata è stata pure l’idea di collocare sistemi anti-missile in Polonia e Romania emersa al vertice Nato di Praga del 2002 che pure ha fatto discutere per anni gli alleati – in origine giustificata con l’improbabile possibilità di un attacco iraniano.
Le missioni internazionali
Veniamo agli interventi attivi della Nato, tra il 1990 e il 2011 le missioni internazionali sono otto: Iraq (1990 e 1991), Bosnia, Kosovo/Serbia e Montenegro, Afghanistan, Iraq (dal 2004), Somalia, Libia. Se le guardiamo retrospettivamente verifichiamo che solo due hanno avuto un esito che potremmo definire pienamente soddisfacente: la prima missione irachena, fermatasi prima di imporre un regime change, e quella nelle acque della Somalia per limitare la pirateria. In ciascuna missione sono stati compiuti errori e nefandezze che avrebbero meritato indagini e tribunali internazionali − le bombe sull’ambasciata cinese a Belgrado, le torture in Iraq, solo per fare due esempi clamorosi e dalle conseguenze di lungo periodo in termini di ostilità nei confronti degli Stati Uniti. Naturalmente, l’insuccesso non è militare: ogni guerra è stata vinta. Ma in nessun caso si è vinta la pace in maniera compiuta e definitiva. La Kfor è ancora in Kosovo, la Kfor è stata sostituita da Eufor, una forza europea, ma sappiamo che in Bosnia cresce la tensione, l’Iraq è stato terreno di guerra per anni, è divenuto porto sicuro e di crescita dell’Isis − e oggi milizie islamiste sparano missili su Erbil, nel Kurdistan ricco di petrolio − la Libia è tutt’altro che pacificata e l’Afghanistan è in mano ai talebani dopo 20 anni di guerra.
Il problema di ciascuna missione è il suo status ambiguo. La Nato o le coalizioni occidentali hanno spesso agito per conto dell’Onu o sostituendosi ad essa e in ciascun caso senza immaginare prima un processo per il “dopo”. In Afghanistan questa mancanza di prospettive ha prodotto il disastro più fragoroso. In quanto alleanza militare la Nato non deve occuparsi del dopo, il che segnala tutta l’ambiguità del suo ruolo come agente militare attivo. In Libia la missione Nato nasce come protezione dei libici dal cielo, giustificata dalla brutalità del regime di Gheddafi contro la rivolta. Quell’obiettivo si raggiunge rapidamente ma con il passare del tempo la missione diviene di regime change de facto. Ma quando si decide di far cadere un dittatore, si hanno delle responsabilità. Quali meccanismi si individuano per creare un contesto stabile e democratico? Senza quelli, la Nato diviene un fattore di instabilità invece che il suo contrario, come per certi aspetti è stato durante la Guerra fredda. I limiti Nato e i suoi errori sono anche figli della debolezza dell’Onu e degli egoismi europei. Due esempi clamorosi sono la strage di Srebrenica compiuta sotto gli occhi dei caschi blu olandesi e le ambiguità francesi in Libia.
Nonostante l’eccesso di retorica che ha accompagnato la risposta occidentale alla guerra di aggressione russa all’Ucraina, non siamo di fronte a una nuova Guerra fredda. In quegli anni c’erano due sistemi, due idee di mondo e società a confronto che si “combattevano” anche con le armi della politica nei singoli Paesi, c’erano sfere di influenza davvero separate. Oggi, nonostante Putin ammanti di ideologia conservatrice il suo discorso, non c’è un mondo che aspira a “fare come in Russia”. Non solo, le filiere globali sono molto più integrate e il peso economico dei Paesi Nato è ben ridimensionato rispetto agli anni ’90. Questo discorso ci porterebbe da un’altra parte, ma il vertice Nato dello scorso 7 aprile, che vedeva anche la presenza degli alleati asiatici degli Stati Uniti prefigura un ruolo dell’Alleanza discutibile. O di cui, almeno, occorrerebbe discutere e riflettere in maniera approfondita e fuori dall’urgenza di una crisi pericolosa come quella ucraina.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Uk, riuscirà Johnson a sopravvivere all’ultima bufera?
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Riuscirà Boris Johnson a sopravvivere anche all’ultima bufera? O forse sarebbe meglio dire bufere, visto che il premier britannico sembra essere in una situazione di scacco su molti fronti. Il primo riguarda tutti i Governi del pianeta e va sotto il nome di variante Omicron.
Ieri una riunione del gabinetto guidato dal leader conservatore britannico ha annunciato che non ci saranno nuove restrizioni prima di Natale, anzi che non ce ne saranno a meno di colpi di scena: “Controlliamo i dati di ora in ora” è la formulazione usata per dire che qualcosa potrebbe cambiare. Sulla necessità di imporre nuove restrizioni agli spostamenti e norme di contenimento del contagio di altro tipo il Governo è diviso: il Segretario alla Salute, Javid, e quella alla Cultura, Dorris, sono a favore; contrari i grossi calibri Sunak, Cancelliere dello Scacchiere, e la Ministra degli Esteri Truss, che tra l’altro è la nuova faccia del negoziato sulla Brexit dopo che il suo predecessore David Frost si è dimesso in dissenso sulle probabili restrizioni in arrivo.
La divisione nel Governo segnala un malessere diffuso nel partito di BoJo che prende varie forme e ha spinte diverse. Da un lato c’è chi, come appunto il Ministro alla Salute, deve occuparsi di contenere il virus e tenere in piedi il National Health Service (NHS), il sistema sanitario pubblico, dall’altro le esigenze dell’economia. Una divisione e dei dubbi che attraversano tutti i Governi europei incerti su quale delle medicine sia meno amara per i Paesi che governano e il consenso che ricevono. Ma che in Gran Bretagna è aggravata dalla retorica anti-statalista e anti regole conservatrice di cui Johnson è un campione – pieno di contraddizioni – e su cui molti eletti del suo partito non transigono. “Per una volta il Governo ha respinto l’allarmismo dei fanatici dell’isolamento”, ha detto al Guardian Esther McVey, una deputata Tory. I parlamentari della maggioranza contrari all’ipotesi di restrizioni sono almeno cento. Molti esponenti conservatori sono però preoccupati dalla mancanza di risposte chiare da parte del Governo e si dicono preoccupati per il piccolo commercio, i ristoranti, i pub che nelle ultime settimane dell’anno incassano fiumi di sterline (in cambio di fiumi di birra).
I party natalizi
Johnson è anche nei guai per le continue rivelazioni sulle feste e gli incontri avvenuti durante il lockdown. Dopo le notizie su una festa al 10 di Downing Street cui hanno partecipato membri del suo staff, il Guardian ha pubblicato una foto del party nella quale si vede anche il Primo Ministro. La linea difensiva è quella di una riunione di lavoro, la foto e le notizie trapelate suggeriscono altro. In questo caso il tema non è solo se e cosa fosse quella festa, ma che dopo la fuga di notizie sulla violazione delle regole del lockdown da parte dei membri dello staff di Johnson, ai giornali siano arrivate una foto e un video in cui si scherza sulla festa vietata (Allegra Stratton, l’ex addetta stampa di Johnson, si è dovuta dimettere). È evidente che anche all’interno del Governo c’è chi rema contro. I media britannici hanno dato notizia di diverse altre feste.
Tra i nemici di Johnson c’è probabilmente Rishi Sunak, il Cancelliere dello Scacchiere che tende a frenare gli ambiziosi piani di spesa johnsoniani con l’idea di annunciare un taglio delle tasse per il prossimo anno – taglio possibile solo senza un aumento della spesa – e per posizionarsi come il possibile nuovo leader di un partito che dopo la sbornia da Covid torna a essere thatcheriano, meno stato, meno regole, meno tasse.
Calo di consensi per i Conservatori
Non è finita: la scorsa settimana il Partito conservatore ha perso le elezioni suppletive del seggio Chesham e Amersham, vinto dai Liberal-Democratici. Si tratta di un segnale davvero preoccupante perché capita in un seggio che è un bastione conservatore e perché segnala un problema con la strategia conservatrice. Alcune promesse di Johnson hanno infatti consentito al suo partito di guadagnare consensi e voti al nord, nei bastioni laburisti, con il difetto di aver fatto calare i consensi nelle aree più ricche e tradizionalmente conservatrici. I danni di immagine, le incertezze, gli scandali non hanno aiutato.
Il partito di Johnson è secondo nei sondaggi per la prima volta dopo molto tempo nonostante il Partito laburista di Keir Starmer non goda di particolare buona salute. Per anni Johnson ha surfato sulle sue gaffes, ha avuto l’abilità di farsi eleggere leader grazie a una gestione scaltra delle alleanze interne e dopo aver fatto la fronda a May. Quello stile e la sua capacità di essere spiritoso, tipici di una ruling class britannica che si sente sopra e oltre le regole che valgono per gli altri (come i party dimostrano) lo rendeva simpatico. Ora quello stile e quel modo di fare politica gli si ritorcono contro.
Build Back Better, Biden negozia fino allo sfinimento per trovare un compromesso
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Joe Biden ha spesso ripetuto di voler riportare il compromesso nella politica americana. Un anno dopo l’inaugurazione della sua presidenza la volontà di negoziare con il Partito repubblicano e l’ala moderata del suo partito – rappresentata in primis dai senatori Manchin e Sinema – ha prodotto qualche risultato: negoziando fino allo sfinimento, la Casa Bianca è riuscita a portare a casa due leggi di spesa importanti, una relativa al sostegno agli americani durante la pandemia, l’altra di spesa per le infrastrutture. Quelle leggi sono però uscite fortemente ridimensionate rispetto alla proposta iniziale fatta da Biden.
Oggi siamo alla probabile fine della illusione bideniana di poter negoziare con chi di negoziare non ha nessuna voglia. Non il Partito repubblicano, non il senatore della West Virginia Joe Manchin, che ha annunciato sulla conservatrice FoxNews di non poter votare per la più importante proposta di Biden a oggi, il Build Back Better plan (BBB) che prevede enormi investimenti in termini di spesa per il welfare e la lotta al cambiamento climatico.
La principale motivazione usata da Manchin, che nasce come imprenditore del carbone, è la paura per l’inflazione. Troppe risorse pubbliche rischierebbero di surriscaldare l’economia e far aumentare i prezzi più di quanto non è già successo nel corso del 2021. L’argomento “inflazione” non riscuote particolari consensi tra gli economisti. In una dichiarazione molto dura rilasciata dalla portavoce della Casa Bianca Jen Psaki si fa riferimento a un rapporto pubblicato poche ore prima dell’annuncio di Manchin, quello del non partisan Penn Wharton Budget Institute (PWBI), dal cui sommario traduciamo: “PWBM prevede che la spesa e le tasse nel Build Back Better Act (H.R. 5376), come è oggi, aggiungerebbero fino allo 0,2% all’inflazione nei prossimi due anni e ridurrebbero l’inflazione di importi simili più avanti nel decennio”.
Piuttosto chiaro: BBB non farebbe aumentare l’inflazione se non di poco e per soli due anni. La legge prevede molta spesa ma spalmata su dieci anni e prevede anche diverse entrate – che non compensano tuttavia le uscite. Gli economisti che concordano con il PWBI sono la maggioranza ed è noto che un’inflazione mai così alta da decenni è generata dal prezzo dell’energia, dai problemi nelle filiere produttive globali. Una ragione “americana” aggiuntiva è da ricercarsi nelle leggi di spesa che hanno distribuito soldi a pioggia ai cittadini americani colpiti dalla pandemia, legge che sia il senatore Manchin che qualche senatore repubblicano ha votato. Anche l’ex segretario al tesoro di Clinton, Larry Summers, che ha messo in guardia contro l’inflazione, concorda con l’idea che BBB non sia pericolosa. Il tema del No del senatore, insomma, non è l’inflazione e neppure il deficit, ma la volontà di Manchin di rispondere agli interessi che lo finanziano e che sono anche quelli della sua famiglia: il figlio è l’attuale padrone dell’impresa di intermediazione di carbone avviata dal senatore di cui lo stesso Joe possiede azioni per un valore che oscilla tra il milione e i cinque milioni di dollari (qui i suoi dati finanziari resi pubblici dallo stesso senatore).
La reazione della Casa Bianca all’uscita pubblica e non preannunciata di Manchin è stata furiosa. Abbiamo nominato il testo diffuso dalla portavoce Psaki senza citarlo. Eccone alcuni passaggi: “Le parole del senatore Manchin sono in contrasto con le discussioni avute questa settimana con il presidente, con lo staff della Casa Bianca, e con le sue stesse dichiarazioni pubbliche. Settimane fa, il senatore Manchin si è impegnato con il Presidente, nella sua casa di Wilmington, a sostenere una versione di Build Back Better (…) Martedì di questa settimana, il senatore è venuto alla Casa Bianca e ha presentato al Presidente, di persona, direttamente, una bozza scritta per una legge Build Back Better che era della stessa dimensione e portata della struttura del Presidente, e copriva molte delle stesse priorità. Anche se mancavano delle priorità chiave, credevamo che si potesse giungere a un compromesso accettabile per tutti. (…) Se i suoi commenti su Fox e la dichiarazione scritta indicano la fine di questo sforzo, rappresentano un’improvvisa e inspiegabile inversione della sua posizione, e una violazione dei suoi impegni nei confronti del Presidente e dei colleghi del senatore alla Camera e al Senato”.
La reazione della sinistra del Partito democratico è naturalmente ancora più rabbiosa, ma il punto, adesso, è capire se e come il Presidente possa portare a casa qualcosa. La speranza dei democratici è che quello di Manchin sia l’ennesimo bluff e che riscrivendo la legge si possa portarlo a votarla. Lo stesso è avvenuto con il testo che finanzia le infrastrutture. Ma come riscrivere e ridimensionare quel testo senza deludere gli elettori che si aspettano grandi cose e non far infuriare la sinistra? L’operazione è difficile. Certo è che se a Biden dovesse riuscire l’impresa, potrebbe dire di aver prodotto tre misure importanti in termini assoluti. Se le pressioni su Manchin non dovessero bastare, Biden dovrà affrontare le elezioni di metà mandato da perdente e con la base militante delusa. Non solo: nelle leggi che la Casa Bianca propone ci sono anche misure che aiuterebbero gli Stati Uniti a rispettare gli impegni sulla riduzione di emissioni presi alla Cop26. Se il piano BBB non dovesse farcela, Biden si troverebbe a fare una brutta figura planetaria. E la Cina avrebbe un altro argomento per dire che in fondo la democrazia non funziona perché non produce i risultati promessi.
Cosa c’è dietro la partita Ue-Russia
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Era una notizia attesa, ma la sentenza di condanna contro il marito della leader dell’opposizione bielorussa Sviatlana Tsikhanouskaya a 18 anni di prigione è davvero dura. La sentenza è infatti tra le più dure inflitte all’opposizione dal Presidente-dittatore Lukashenko. Syarhei Tsikhanouski era stato arrestato nel 2020 mentre faceva campagna per candidarsi alla presidenza contro Lukashenko e l’accusa era di aver organizzato disordini di massa e incitamento all’odio. Altri cinque appartenenti all’opposizione al leader bielorusso sono stati condannati a pene tra i 14 e i 16 anni.
Tsikhanouskaya, che si trova in esilio in Lituania, ha parlato di vendetta del dittatore e ha raccontato nei giorni scorsi di avere poche informazioni sulle condizioni del marito, tenuto in una cella di isolamento per 10 mesi.
La reazione internazionale all’ennesima prova di forza del regime bielorusso non si è fatta attendere. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha detto: “Né questi individui, né il popolo bielorusso, giustificano una repressione tanto dura”, mentre un portavoce Ue ha parlato dei verdetti come “parte della brutale e sistematica repressione in corso” nel Paese. Il nuovo Ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha definito “scandalose” le sentenze.
La partita Ue-Usa-Russia
La partita bielorussa si associa naturalmente a quella ucraina. In fondo, in entrambi i casi il problema sono le relazioni tra Mosca da una parte e Stati Uniti ed Europa dall’altra. Tra oggi e domani i leader europei si riuniscono per un vertice con i Paesi dell’est (il partenariato orientale) e per un Consiglio. Le crisi che riguardano i due Paesi più occidentali dell’ex blocco sovietico non entrati nell’Ue (assieme alla Moldavia) saranno naturalmente oggetto di discussione con l’Armenia, l’Azerbaijan, la Georgia, la Moldavia e la stessa Ucraina. Sempre oggi, al quartier generale dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles, il Presidente della Georgia Garibashvili incontrava il Segretario Generale Jens Stoltenberg. Ucraina e Georgia sono membri in attesa di entrare nella Nato dal 2008. La Russia, comprensibilmente, non vuole avere due Paesi Nato ai confini (tra l’altro due confini lontani tra loro).
A segnalare quanto le vicende che si svolgono ai confini dell’Unione europea siano importanti, c’è un nuovo vertice a tre che riunisce il Presidente ucraino Zelenskiy, il francese Emmanuel Macron e il nuovo Cancelliere tedesco Olaf Scholz. I tre si erano già visti venerdì scorso a Parigi, in occasione del primo viaggio all’estero del leader socialdemocratico tedesco.
Nel frattempo il Consiglio dei Ministri degli Esteri europei ha messo in lista nera il gruppo mercenario russo Wagner e sottoposto a sanzioni otto dei suoi comandanti e tre società collegate e l’ambasciatore di Mosca presso l’Unione europea, intervistato da EUobserver, ha garantito che non c’è nessuna invasione in programma.
La partita Europa-Nato-Russia è davvero molto intricata. Ci sono le violazioni per i diritti umani e la repressione in Bielorussia (e anche in Russia), c’è l’ammassare truppe al confine ucraino, c’è la richiesta di Mosca che la Bosnia-Erzegovina non sia più sotto tutela internazionale – proprio mentre la Repubblica Sprska, a maggioranza serba minaccia di secedere, cosa che farebbe saltare gli accordi di Dayton del 1995. Molto importante è anche la vicenda del Nord Stream 2, il gasdotto tra Russia ed Europa che aggira l’Ucraina.
Il gas, asso nella manica della Russia
Ciascuna partita è diversa, ma al fondo c’è la volontà di Mosca di esercitare la propria influenza sul mondo ex sovietico e il fastidio per le interferenza nella propria politica interna. Più che le armi e la minaccia di guerra (impopolare tra i russi), l’asso nella manica del Cremlino, specie durante questo inverno di Covid e inflazione che è in parte generata dall’innalzamento dei costi energetici, è il gas.
Il campo europeo è relativamente diviso tra i grandi Paesi preoccupati per l’aumento del prezzo del gas (Germania, Francia e Italia tra questi) e quelli più preoccupati per il dinamismo russo ai loro confini (i Baltici, la Polonia, ad esempio). In un’intervista con Politico, la Prima Ministra estone Kallas ha sostenuto che non sta a Mosca decidere chi ha diritto a entrare nella Nato e chi no. La preoccupazione a est sembra essere quella di un’Europa che non prende abbastanza sul serio le minacce di Putin.
Il punto non sarà mettersi d’accordo in caso di escalation, che produrrebbe per forza di cose una reazione dura da parte europea, ma come lavorare per evitare che dallo sfoggio dei muscoli al confine ucraino Mosca passi all’azione. Il nuovo Governo tedesco sembra voler abbassare i toni e lavorare a una mediazione tra Biden e Putin. Il clima non è dei migliori, ma come spesso accade sono le crisi a produrre grandi sforzi diplomatici capaci e costringere le cancellerie a immaginare soluzioni per evitare conflitti.
Usa: i tornado in Kentucky, e non solo, ci devono far riflettere
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Decine, se non centinaia di morti, piccoli centri rasi al suolo, alcune contee in ginocchio a causa dei danni alle infrastrutture e alla rete elettrica. I danni fatti dai tornado che hanno colpito Illinois, Missouri, Kentucky, Arkansas e Tennessee verranno quantificati in queste ore, ma nel frattempo il passaggio delle trombe d’aria ha fatto strage di persone e lasciato migliaia di persone al freddo e senza casa.
Il tornado ha percorso 250 miglia (400 chilometri) attraverso il nord-est dell’Arkansas, il sud-est del Missouri, il nord-ovest del Tennessee e il Kentucky occidentale, per più di tre ore consecutive. Una foto proveniente dal Kentucky è stata ritrovata in Indiana, a circa 220 chilometri di distanza. A volte, i detriti hanno raggiunto un’altitudine di quasi dieci chilometri.
I morti potrebbero essere più di cento e in due casi si tratta di operai morti in fabbrica. Il bilancio non è chiaro perché l’area colpita è molto grande e la popolazione non concentrata. Il governatore del Kentucky, il democratico Andrew Beshear, ha chiesto la dichiarazione dello stato di emergenza alle autorità federali, richiesta accolta dal Presidente Biden. La macchina degli aiuti, che si tratti di quelli federali, statali o da parte di donatori e volontari è in moto. Certo, per ricostruire questi centri serviranno anni.
Il caso più drammatico è quello della fabbrica di candele di Mayfield, Kentucky, cittadina completamente rasa al suolo, dove le prime notizie parlavano di 70 dispersi su 110 operai che erano al lavoro in un turno straordinario per fare fronte alla domanda natalizia. Per fortuna le prime notizie sulla probabilità che quasi tutti fossero morti sono state smentite. Il lavoro dei soccorritori ha infatti estratto dalle macerie più di 90 lavoratori, una scoperta che solleva le speranze che il bilancio delle vittime del disastro possa essere inferiore a quello inizialmente temuto.
Le testimonianze dal posto segnalano una certa rabbia della comunità locale: la fabbrica era aperta e al lavoro nonostante le autorità avessero dato l’allarme per il pericolo imminente.
Molte delle vittime potrebbero essere ispaniche, perché negli ultimi anni c’è stato un discreto afflusso di manodopera latina venuta a lavorare nella fabbrica di candele o negli allevamenti intensivi di polli. Da segnalare, ma si tratta di una costante in tutti gli Stati Uniti, che la maggior parte delle case e degli edifici è costruita con tecniche e materiali assolutamente inadatti a resistere a eventi climatici estremi – che si tratti di inondazioni, incendi, trombe d’aria.
L’altro posto di lavoro dove ci sono stati morti è un centro di smistamento di Amazon in Illinois. Non sappiamo quante persone fossero sul luogo al momento perché la maggioranza dei dipendenti del colosso dell’e-commerce è in realtà dipendente di piccole compagnie di trasporto, di persone assunte pare ce ne fossero solo sei, tante quante le vittime accertate nel crollo di uno dei due capannoni. Come in quello della fabbrica di Mayfield, anche nel deposito Amazon si lavorava a pieno ritmo per rispondere alla domanda natalizia.
Il numero di eventi meteorologici estremi è in crescita costante negli Stati Uniti e nel mondo. Sul sito del National Center for Environmental Information abbiamo provato a contarne il numero in diversi anni a partire dagli anni ’80. Tra il 1980 e il 1981 le inondazioni, incendi estremi, cicloni, siccità, gelate furono 5, nel biennio ’90-’91 furono 7, tra il 2020 e oggi, 40. Se prendiamo i decenni scopriamo che negli anni ’80 gli eventi estremi furono 29, 53 nei ’90, 63 nei 2000, 123 nei 2010. Se volessimo proiettare quanto successo negli ultimi due anni (i soli 2020 che abbiamo vissuto), si arriverebbe a 400. Si tratta di dati spaventosi perché se è vero che un anno o due di caldo estremo o di piogge estreme possono essere un caso, la dinamica degli ultimi 40 anni non appare affatto casuale.
In dieci anni questi eventi sono costati più di mille miliardi di dollari, segno che gli investimenti possibili in lotta al cambiamento climatico, oltre a essere necessari, nel lungo termine produrrebbero risparmi.
Caso Khashoggi, buco nell’acqua per il fermo francese
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Le autorità francesi hanno fermato e rilasciato un signore di nome Khalid Aedh al-Otaibi, ovvero un omonimo di una delle persone processate in contumacia dalla Turchia per l’omicidio brutale del dissidente saudita Jamal Khashoggi ucciso nel consolato di Riad a Istanbul nel 2018.
Secondo quanto ricostruito da Agnès Callamard, attuale segretaria generale di Amnesty International ed ex Relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, Al-Otaibi è una ex guardia della Guardia Reale, l’unità d’élite delle forze armate dell’Arabia Saudita ed era nella sede diplomatica al momento dell’assassinio.
Ma la persona fermata a Parigi non era lui, il procuratore di Parigi ha concluso che si è trattato di un caso di errore di identità: “Controlli approfonditi sull’identità di questa persona ci hanno permesso di stabilire che il mandato di cattura internazionale non si riferiva a lui”, si legge in una dichiarazione del procuratore generale parigino.
Le autorità saudite avevano reagito all’arresto chiedendo l’immediato rilascio di al-Otaibi, spiegando che si tratta di un errore di persona e che, inoltre, gli assassini di Khashoggi sono già stati condannati. In effetti, i sauditi hanno processato e condannato otto persone per quella morte, sostenendo che si è trattato di un incarico finito male: le Guardie reali avrebbero dovuto convincere il giornalista dissidente a tornare in Arabia Saudita con le buone o con le cattive e le cose sono sfuggite di mano. Piccolo particolare: il processo si è svolto a porte chiuse e l’identità dei condannati è sconosciuta. A settembre dello scorso anno un giudice ha commutato la pena dei condannati invisibili dalla morte a 20 anni.
Le autorità francesi avevano immediatamente risposto ai dubbi spiegando che avrebbero fugato i dubbi. La procedura in questi casi prevede cuna detenzione giudiziaria che può durare fino a 48 ore. Le autorità francesi ci hanno messo molto meno a fare gli approfondimenti necessari per verificare l’identità della persona fermata.
Se si fosse trattato di al-Otaibi le cose sarebbero state diverse e una pagina nuova si sarebbe aperta nella vicenda dell’omicidio Khashoggi. Nel suo rapporto Callamard includeva al-Otaibi tra gli arrestati in Arabia Saudita ma aggiungeva che prima del processo questi era stato prosciolto. Nello stesso rapporto si segnala la presenza della Guardia reale a Istanbul il 2 ottobre 2018, aggiungendo che questi si trovava nella residenza del console e non nel consolato al momento dell’omicidio.
Callamard ha però spesso insistito sul fatto che l’omicidio non è il frutto di un’operazione finita male ma di un mandato e che per fare giustizia occorre indicare “la mente”. In un tweet la segretaria di Amnesty scriveva: “Questo potrebbe essere un importante passo avanti nella ricerca di giustizia per Jamal Khashoggi, ma sono necessarie ulteriori conferme. Se è davvero la stessa persona, allora era nella residenza del consolato”. Il senso è insomma che al-Otaibi potrebbe essere parte dell’operazione, anche se non uno tra coloro che hanno ucciso, fatto a pezzi e trasportato in una valigia il corpo di Khashoggi. Ma dovremo ancora aspettare per avere notizie, il fermo francese è stato un buco nell’acqua.
La azione della polizia francese ha comunque assunto un significato particolare perché nei giorni scorsi il Presidente Macron è volato a Gedda per incontrare il principe della corona Mohamed bin Salman (che in Italia conosciamo bene) per rinsaldare i rapporti con il regno saudita. Macron è stato molto criticato per il viaggio nonostante abbia sostenuto che nei colloqui si sia parlato anche di diritti umani. Il Presidente francese è tra i primi capi di Stato occidentali a incontrare bin Salman dopo la morte di Khashoggi. In un’intervista a Le Monde, Callamard ha detto tra le altre cose: “Questo viaggio fa parte di una politica di riabilitazione del principe ereditario saudita, che questo sia voluto o meno. Mi rattrista che Emmanuel Macron presti la sua aura di capo di Stato a una tale impresa. Mi addolora che sia la Francia, il Paese dei diritti umani, lo strumento di questa politica. Negli ultimi mesi, bin Salman ha cercato di ripulire la sua immagine attraverso molteplici iniziative, come l’acquisto della squadra di calcio del Newcastle. Ma questa è la prima volta che una grande potenza è stata così direttamente coinvolta nella sua riabilitazione”.
La verità è che questi sono tempi difficili per i diritti umani: i Paesi della penisola araba svolgono un ruolo internazionale crescente per molte ragioni, investono soldi nelle capitali d’Occidente, avviano iniziative diplomatiche e i palazzi del potere occidentali giocano l’improbabile gioco dei paladini del diritto da un lato e dei soci in affari dall’altro. Si chiama realpolitik e c’è sempre stata, ma nell’era di Internet, di notizie che circolano e dopo un ventennio di retorica sulla centralità della democrazia, è molto scomoda da praticare.
Ucraina, l’America avverte sul pericolo imminente della Russia
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Gli Stati Uniti sembrano essere riusciti a convincere l’Europa sul pericolo che la Russia invada nuovamente l’Ucraina come nel 2014. Per settimane funzionari americani hanno fatto la spola tra le capitali europee e Bruxelles per presentare le prove raccolte e insistere sul fatto che il pericolo sia reale.
La quantità di materiale condivisa con gli alleati è fuori della norma. La ragione per questo anormale passaggio di segreti si trova nei dubbi espressi dagli europei per settimane. Diplomatici ed esperti di intelligence ritenevano che l’allarme americano fosse esagerato e coincidesse almeno in parte con una volontà muscolare di Washington nei confronti del Cremlino. “Molti alleati non erano convinti che stessero accadendo cose serie – ha detto un funzionario di un Paese europeo al Financial Times – Eravamo sorpresi di questo divario, come e perché gli Stati Uniti vedevano cose che noi non vedevamo?”.
La stessa persona ha spiegato al quotidiano britannico che dopo la condivisione dei documenti il punto di vista europeo è cambiato. Le informazioni americane riguardano tra le altre cose il movimento di truppe e i preparativi logistici per ammassare uomini e armi al confine con l’Ucraina. Movimenti simili e senza conseguenze si erano verificati lo scorso aprile. Certo è che dopo il 2014 e l’invasione della Crimea a Kiev non dormono sonni tranquilli. Stati Uniti, Europa e Gran Bretagna stanno lavorando a un pacchetto di nuove eventuali sanzioni.
La partita tra Mosca, i vicini europei e gli Stati Uniti attorno a Ucraina e Bielorussia riguarda molte cose diverse. C’è il timore della Russia per la volontà della Nato (e di Kiev) di aumentare la propria presenza in Ucraina fino a invitarla a far parte dell’Alleanza atlantica – cosa che, come notava sabato Marco Dell’Aguzzo su eastwest, non sarebbe tollerabile per Mosca che vede il Paese come un’area cuscinetto tra sé e il blocco già nemico.
Naturalmente a Washington sanno anche che questo sfoggio muscolare da parte russa non è sempre o necessariamente una vera volontà di guerra. C’è da coltivare con il nazionalismo un’opinione pubblica meno compatta che in passato – che però non vuole la guerra – e c’è da usare la minaccia militare come arma a qualsiasi tavolo. Domani il Presidente degli Stati Uniti e quello russo si parleranno ed entrambi hanno usato toni aspri nel commentare i movimenti di truppe, l’uno, la minaccia di nuove sanzioni, l’altro. Naturalmente la riluttanza europea a credere all’intelligence americana riguarda anche gli interessi: da mesi parliamo del prezzo dell’energia e dell’uso politico del gas fatto da Putin. Nuove sanzioni contro la Russia colpirebbero Putin ma non sarebbero un bene per la bolletta energetica europea.
Per preparare la telefonata tra Presidenti, giovedì scorso si sono incontrati il Ministro degli Esteri russo Lavrov e il segretario di Stato Blinken. La conferenza stampa finale non è stata amichevole, ma anche questo sembra far parte dello schema dei rapporti tra i due Paesi. Blinken ha parlato di “serie conseguenze” in caso di conflitti mentre Lavrov ha spiegato che non c’è nessuna volontà di intraprendere azioni militari da parte di Mosca ma che la Russia non vuole la presenza della Nato lungo i propri confini.
Ma non è solo la Nato il problema. Come racconta in una lunga analisi il capo dell’ufficio di corrispondenza di Mosca del New York Times, Anton Troianovski, c’è un problema simbolico e culturale enorme. “La convinzione di Putin che i russi e gli ucraini sono ingiustamente e artificialmente divisi è ampiamente condivisa nel suo Paese, anche dagli avversari… I russi spesso considerano Kiev, un tempo il centro della medievale Rus’ di Kiev, come il luogo di nascita della loro nazione. Famosi scrittori di lingua russa, come Nikolai Gogol e Mikhail Bulgakov, venivano dall’Ucraina, così come Leon Trotsky e il leader sovietico Leonid Brezhnev”. Simboli, interessi e preoccupazioni geopolitiche, insomma, si sommano in un cocktail non rassicurante – e certe forme di nazionalismo estremo ucraino alimentano queste tensioni.
L’America è davvero in crisi?
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L’assalto del 6 gennaio a Capitol Hill è forse il momento più basso toccato dalla democrazia Usa, ma ha una storia che lo precede e non finisce dopo il giorno della certificazione della vittoria di Joe Biden da parte del Congresso − che era in corso mentre le falangi trumpiane sfasciavano le finestre dell’edificio che ospita Camera e Senato.
Gli Stati Uniti sono nel pieno di una crisi del proprio sistema democratico. Non si tratta di una questione che tocca solo la prima potenza mondiale ma di una crisi di sistema che proprio negli Usa sembra aver toccato un punto particolarmente alto.
La crisi della democrazia americana
Mettiamo in fila i sintomi. Negli ultimi 12 anni gli States hanno avuto tra le altre cose un Presidente che non riconosce l’esito del processo elettorale, una parte dell’opinione pubblica e diversi media molto seguiti che hanno messo in dubbio la legittimità del primo Presidente nero della storia utilizzando una teoria secondo la quale Obama non sia nato in America, due processi di impeachment verso lo stesso Presidente, una serie di ricorsi e cause portati avanti da membri del Partito repubblicano per sovvertire o annullare l’esito del voto del novembre 2020 in alcuni Stati. Le ultime battaglie legali si sono naturalmente concluse con le richieste di illegittimità del voto respinte dai tribunali e con i riconteggi che hanno certificato le vittorie di Biden. I repubblicani hanno condotto queste campagne alimentando e facendo crescere una base estremista convinta che chi non è con loro sia anti-americano e che, dunque, la loro sconfitta elettorale rappresenti un punto di non ritorno per il loro Paese. “Una democrazia liberale non può durare a lungo se un grande partito crede che la sconfitta sia illegittima e debba essere resa impossibile” ha scritto un preoccupato Martin Wolf, uno dei più lucidi columnist del Financial Times.
Nel periodo che va dall’elezione di Obama ai nostri giorni gli americani hanno assistito per tre volte al rischio che il Governo federale dichiarasse default a causa della mancata volontà del Congresso di votare l’innalzamento del tetto del debito. Durante il corso del XX° secolo la legge che autorizza il Governo federale a fare più debito dell’anno precedente è stata votata 90 volte e una sola volta, prima delle tre recenti sotto Obama e Biden, si era arrivati al rischio default. A non voler votare la misura sono i repubblicani e l’obiettivo non è quello del rigore fiscale, ma quello di far deragliare la locomotiva avversaria: sotto Trump il tetto del debito è stato aumentato due volte.
Passiamo al processo elettorale. Laddove i repubblicani controllano le assemblee statali sono in corso battaglie legali per modificare le regole del voto, scoraggiarlo, impedirlo alle minoranze. Al Congresso, invece, due misure votate dalla Camera per facilitare e omogeneizzare il diritto di voto vengono bloccate. Gli ostacoli sono soprattutto al voto di quelle minoranze che votano a larghissima maggioranza democratico. Le minoranze, a dire il vero, qualche dubbio sulla democrazia americana devono averlo avuto già in passato, all’epoca delle leggi che ne negavano i diritti civili e ogni volta o quasi che gli capita di interagire con la polizia e nelle aule di Giustizia.
L’ostruzionismo repubblicano
Potremmo andare avanti ad elencare sintomi di malessere della democrazia americana. Nominiamo solo l’ultimo: l’incapacità di Joe Biden di far avanzare la propria agenda − pura o mediata in Congresso − a causa dell’ostruzionismo repubblicano e dei mal di pancia dei senatori Manchin e Sinema, di West Virginia e Arizona, Stati che assieme rappresentano il 3% della popolazione. Il posizionamento ostruzionistico dei repubblicani garantisce un potere immane ai due − che ricevono ingenti donazioni dai settori petrolifero e farmaceutico e bloccano misure ambientali e contrattazione del prezzo dei medicinali. Una situazione che non incoraggia gli americani ad avere fiducia nella loro architettura costituzionale.
Il politologo Larry Diamond ha scritto su Foreign Affairs: “In un sistema bipartitico, bisogna essere in due per ridurre la polarizzazione e riparare le norme della democrazia. Con le sue tattiche massimaliste per manipolare le regole a suo immediato vantaggio, sopprimere i voti delle minoranze razziali e riempire i tribunali (di giudici conservatori), i repubblicani hanno gradualmente perso di vista queste norme”.
Che i repubblicani stiano facendo di tutto per forzare i limiti della democrazia statunitense è fuori dubbio. Ma la colpa di questa situazione non è esclusivamente di Trump e neppure del partito di cui è diventato proprietario. Le divisioni nella società americana sono profonde e crescenti. One Nation Under God sono diventate almeno due, ma probabilmente molte di più, non solo e non tanto per i diversi colori della pelle, religioni, origini, ma per una polarizzazione raramente, se non mai, così acuita. Repubblicani e democratici sono divisi sui vaccini, sull’andamento dell’economia, sulla crisi climatica, sul voto, sull’aborto, sul colore di cui dipingere la facciata del palazzo. La ragione di questa polarizzazione non è univoca, ma è certo che le grandi trasformazioni tecnologiche degli ultimi 20 anni, l’ascesa del commercio globale e, dentro a questa, della Cina come superpotenza manifatturiera, il sacrosanto protagonismo delle minoranze, hanno generato paure e cambiamenti nella società e nella geografia Usa. Alcuni segmenti sociali e alcuni territori sono rimasti indietro, altri corrono. Altri ancora, da sempre indietro, pretendono una fetta di torta e lo fanno protestando. Le diseguaglianze sono cresciute a dismisura. Si tratta di vicende che in un modo o nell’altro toccano molte democrazie avanzate.
La crisi delle democrazie nel resto del mondo
In un lungo articolo più che allarmato dal titolo “La crisi costituzionale è già in corso”, il neocon, fautore dell’interventismo democratico all’estero che ha lasciato il partito repubblicano nel 2016, Robert Kagan ha scritto: “I fondatori non hanno previsto il fenomeno Trump (…) Avevano previsto la minaccia di un demagogo, ma non di un culto nazionale della personalità. Pensarono che (…) le storiche divisioni tra i 13 Stati fieramente indipendenti avrebbero posto barriere insuperabili ai movimenti nazionali basati su partiti o personalità (…) I pesi e contrappesi che i Framers misero in atto, quindi, dipendevano dalla separazione dei tre rami del Governo, ognuno dei quali, credevano, avrebbe custodito con zelo il proprio potere e le proprie prerogative. (…) Né avevano previsto che i membri del Congresso, e forse anche i membri del ramo giudiziario, si sarebbero rifiutati di porre freni al potere di un Presidente del loro stesso partito”. L’architettura immaginata per tenere al riparo la repubblica da colpi di mano, dice Kagan, non funziona e il 2024 potrebbe tradursi in una crisi costituzionale senza ritorno.
A volte gli studiosi sono catastrofisti, altre troppo ottimisti. È certo però che la crisi di credibilità della democrazia americana, accompagnata com’è da scricchiolii che abbiamo osservato nella società e nella politica europee (e non solo in Ungheria, Polonia o Slovenia) sta avendo degli effetti anche sul mondo non democratico. Negli anni di Trump diversi Paesi hanno preso a ignorare anche la parvenza dello stato di diritto e dei diritti umani. Altri che non sono democrazie neppure formalmente hanno scelto di mostrare l’uso del proprio monopolio della forza in maniera più decisa. Gli esempi sono davvero molti e diversi tra loro: Hong Kong, Myanmar, la Bielorussia, l’Egitto, la Russia, il Brasile.
Sono collegate la crisi americana e questa diminuzione degli spazi di democrazia altrove? Non si tratta di capire se e quanto sia la leadership Usa a essere venuta meno o se l’assenza di un “gendarme” consenta più spazi agli autoritarismi. Il problema è l’assenza di un esempio positivo. Questo è quel che dice Biden quando ripete: “Dobbiamo mettere in ordine la nostra casa prima di dire agli altri come farlo”. Ma di fronte a elezioni messe in dubbio, un sistema sanitario che va in tilt, governatori che non implementano regole anti-Covid per tornaconto politico, Congresso paralizzato, ogni satrapo può indicare la Statua della Libertà e farsi una risata dicendo: “Quella fiaccola è bella ed elegante, ma lo vedete da voi, non illumina granché”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
La Cina promette vaccini e investimenti in Africa
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Un tempo erano i ponti e le strade, oggi sono i vaccini. La competizione internazionale tra potenze si fa anche così. Partecipando in video all’ottavo Forum di cooperazione sino-africana (FOCAC, Forum on China–Africa Cooperation) il Presidente cinese Xi Jinping ha annunciato che Pechino donerà un miliardo di dosi all’Africa, spedendone direttamente 600 milioni, mentre 400 milioni verrebbero fornite attraverso la produzione congiunta di aziende cinesi e dei Paesi africani interessati. La Cina costruirà anche 10 progetti sanitari in Africa e invierà 1.500 esperti. Xi ha anche parlato di economia annunciando crediti e cooperazione nei campi della sanità, innovazione digitale, promozione del commercio e lo sviluppo sostenibile e, soprattutto, l’aumento dell’import. Il problema è che la maggior parte dell’import di prodotti africani non riguarda, appunto, prodotti, ma materie prime e minerali.
La risposta degli africani viene per bocca del Presidente senegalese: “È nelle difficoltà che l’amicizia trova la sua prova di grandezza”, ha detto Macky Sall, elogiando il “sostegno della Cina ai nostri sforzi nella risposta sanitaria e nella ripresa economica”. Al senegalese ha fatto eco Cyril Ramaphosa, Presidente sudafricano. La paura generata dalla variante Omicron del Coronavirus e la conseguente introduzione di nuove restrizioni ai viaggi da e per diversi Paesi africani preoccupa innanzitutto il Sudafrica, ma anche diversi altri Paesi. Di conseguenza gli aiuti sanitari – e anche la promessa di nuovi investimenti fatta da Xi – viene da tutti accolta con grande favore.
La promessa cinese giunge all’indomani di un tour africano del segretario di Stato Usa, Anthony Blinken, che ha promesso al Senegal e al Ruanda di contribuire a generare capacità per la manifattura di vaccini e firmato accordi commerciali per un miliardo di dollari. Il capo della diplomazia statunitense ha anche promesso di trattare il continente come un partner e non solo come una fonte di crisi, problemi, pericoli. Si tratta di un passo per cercare di recuperare il terreno perduto mentre la Cina investiva miliardi in infrastrutture. Gli Usa hanno però un problema: a differenza dei loro concorrenti asiatici tendono ad avere un punto di vista sulle crisi in corso o a criticare i regimi che violano in maniera troppo visibile ed esplicita i diritti umani. Ad esempio, Mali, Etiopia (dove pure stanno facendo uno sforzo diplomatico) e Guinea verranno colpite da dazi verso gli Stati Uniti a partire dal 1° gennaio 2022 a causa delle violazioni dei diritti umani.
Intendiamoci, gli Stati Uniti fanno i loro interessi, non sono la Norvegia, ma hanno un’idea delle relazioni internazionali e di alcuni standard minimi. E per questo i rapporti con i diversi regimi e con le complicate democrazie africane possono conoscere degli intoppi. Pechino non mette condizioni ai propri aiuti o alle proprie partnership commerciali, ma pure ha un problema. Il primo riguarda la propria capacità di investimento: negli ultimi anni, a causa del Covid, ma non solo, il flusso di investimenti diretto verso l’Africa attraverso la Belt and Road Initiative è drasticamente diminuito. Non solo, nelle capitali africane ha fatto capolino il sospetto che la generosa cooperazione cinese, fatta di scambi commerciali, credito per infrastrutture che imprese cinesi costruiscono e scambi culturali asimmetrici (decine di “Istituti Confucio” sparsi per le città d’Africa, training di giornalisti, apertura di un canale africano della CCTV), non sia in fondo troppo generosa.
La Repubblica Democratica del Congo sta ripensando un accordo da 6 miliardi di dollari con investitori cinesi per la preoccupazione che non sia sufficientemente vantaggioso per il Congo – scrive Reuters. Altri Paesi si sono trovati debiti che non avevano notato nei contratti per le infrastrutture che hanno firmato. Uno studio della China Africa Research Initiative (CARI) della Johns Hopkins University segnala che il debito dello Zambia nei confronti dei finanziatori pubblici e privati cinesi è di 6,6 miliardi di dollari, quasi il doppio dell’importo rivelato dal precedente Governo. “Anche prima del 2020, i problemi di debito e una disillusione nei confronti dei prestiti cinesi erano evidenti” scrive Yunnan Chen in un’analisi ospitata dall’Ispi.
I sondaggi indicano che la percezione rimane della società africana rimane quella di un effetto benefico della presenza cinese. Come potrebbe essere altrimenti? Quasi 20 anni di soft power e le antiche amicizie pre 1989 rendono la Cina l’attore internazionale africano per eccellenza, mentre Usa ed Europa, chi per il terrorismo, chi per terrorismo e migrazioni, hanno troppo spesso messo da parte il tema economico per privilegiare la cooperazione in materia di sicurezza – o hanno pagato per frenare le migrazioni, non esattamente una ricetta per lo sviluppo.
L’annuncio sui vaccini di Xi segnala invece come Pechino continui a perseguire una strada commerciale e soft power con costanza. Anche gli Stati Uniti hanno promesso milioni di dosi (meno di quelle cinesi) e di lavorare per facilitare la produzione locale. La competizione tra i due colossi è evidente, con gli Usa che cercano di recuperare il terreno perduto. Pfizer ha raccontato che cinque Paesi – Malawi, Mozambico, Namibia, Sudafrica e Zimbabwe – hanno chiesto di sospendere le spedizioni a causa delle difficoltà di gestione – frigoriferi, trasporti sicuri, organizzazione, gli stessi problemi avuti anche in Occidente mesi fa, ma amplificati. Per rispondere nell’immediato agli annunci di Xi, forse, gli Stati Uniti dovrebbero ragionare su come favorire la distribuzione e gestione dei vaccini.
Nucleare: a Vienna riaprono i colloqui con l’Iran
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Sono ripresi a Vienna i colloqui multilaterali tra Iran e le diplomazie occidentali, di Cina e Russia per tentare di salvare il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPoA), l’accordo sul nucleare siglato nel 2015 tra Teheran nel tentativo di impedire all’Iran di dotarsi della tecnologia necessaria per costruire la bomba. Come tutti ricorderanno l’accordo venne siglato dopo un forte investimento diplomatico da parte americana e un ruolo importante svolto dalla Russia ma venne presto messo in discussione dal Presidente Trump che lo abbandonò nel maggio 2018.
Da quella data molte cose sono cambiate. Innanzitutto lo stesso Iran, colpito duramente dalle sanzioni che Trump è tornato a imporre, ha cominciato a violare apertamente i termini dell’accordo annunciando che avrebbe ripreso con l’arricchimento dell’uranio oltre i limiti previsti dal JCPoA. Le condizioni che il leader supremo, l’ayatollah Khamenei aveva chiesto all’Europa di rispettare per evitare che l’Iran riprendesse la propria corsa verso l’atomica erano semplici: continuare a commerciare con il Paese nonostante Washington. Ma il sistema di sanzioni messo su dall’amministrazione Trump, nella quale sedevano almeno due falchi ossessionati dal regime sciita (Mike Pompeo e John Bolton) prevedeva sanzioni per tutte le imprese che avessero proseguito i loro commerci con l’Iran e così le multinazionali europee smisero di investire o comprare petrolio iraniano.
L’altro grande cambiamento riguarda la politica: a Washington siede un Presidente il cui staff più vicino fu determinante nel condurre i negoziati. Sul fronte opposto, l’ala dura di Teheran ha approfittato della crisi economica determinata dalle sanzioni e della disillusione di quella popolazione che sperava nell’apertura del Paese per riprendersi la presidenza. E così la delegazione inviata dal neo Presidente Ebrahim Raisi è composta da falchi storicamente contrari agli accordi con gli americani. Questa è la novità negativa dei nuovi colloqui, negli ultimi mesi infatti delegazioni europee e russe si sono incontrate con quella iraniana per discutere e hanno tenuto informati gli americani, ma i diplomatici che incontravano erano ancora quelli inviati dall’ex Presidente Rouhani, ovvero erano favorevoli a rilanciare gli accordi e arrivare, come si disse nel 2015, a un accordo generale tra Iran e Stati Uniti, qualcosa che riportasse nell’alveo della quasi normalità le relazioni tra i due arci-nemici. Siamo ben lontani dal clima del 2015.
Cosa chiede Teheran? Semplice, la fine delle sanzioni. “Se gli Usa vengono a Vienna con l’obiettivo di rimuovere le sanzioni potranno cogliere l’opportunità di tornare all’accordo” ha affermato il portavoce del Ministero degli Esteri, Saeed Khatibzadeh. Gli Stati Uniti devono essere “determinati a rimuovere gli ostacoli” ha aggiunto Khatibzadeh, altrimenti “la situazione sarà difficile e l’Iran prenderà in considerazione altre opzioni”.
La novità politica iraniana sta soprattutto nell’allineamento dei suoi poteri: quando un riformista vince la presidenza, infatti, il potere tende a essere la sintesi di spinte diverse, mentre oggi il potere politico elettivo (la presidenza) e quello politico religioso – la Guida Suprema – sono sulla stessa lunghezza d’onda. Nel breve termine Teheran dovrebbe avere interesse a giungere a un rilancio del JCPoA per rilanciare l’economia e l’export, cresciuti in maniera vistosa nei due anni in cui questo è stato in vigore e poi collassati sotto il peso delle sanzioni e del Covid – oggi l’economia è in lieve ripresa, ma dopo un triennio negativo e con l’inflaziona che la Banca mondiale prevede essere in calo ma attorno al 20%.
Nella testa di Teheran non c’è però la volontà di un grande accordo, anzi. La strategia che l’ala dura iraniana ha in mente è quella di costruire un’economia di scambi con le potenze emergenti e non particolarmente preoccupate da diritti umani o attivismo sciita in Medio Oriente per sottrarsi a quelli che vive come ricatti occidentali. Gli Usa si sono detti disponibili a eliminare tutte le sanzioni collegate al JCPoA se l’Iran sceglierà di ricominciare a implementarne i termini. Ma una parte enorme delle sanzioni imposte da Trump dopo la sua uscita dagli accordi nucleari vengono classificate come collegate al record iraniano sui diritti umani o al suo sostegno alle milizie sciite e non in giro per il Medio Oriente (Hezbollah, Hamas, Huti in Yemen). Si troverà un accordo su quali e quante sanzioni? C’è poi la rabbia iraniana per l’assenza di conseguenze che gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare per aver rinnegato un accordo che loro stessi avevano firmato: perché fidarsi di chi non rispetta gli accordi? Non dimentichiamo poi che l’apertura del Paese al mondo avrebbe un effetto positivo sulla popolarità dei nuovi governanti, ma anche un effetto di medio termine sulla società iraniana che in diverse occasioni ha votato per il cambiamento.
Anche gli Stati Uniti hanno i loro problemi. Un numero consistente di alleati regionali non vedono di buon occhio il riavvicinamento – Israele in primis, naturalmente – e anche i britannici guidati da Boris Johnson non sono particolarmente favorevoli.
Sullo sfondo le minacce reciproche. Gli americani assicurano che non consentiranno a Teheran di dotarsi di armi a qualsiasi costo, segnalando la possibilità di inasprire la morsa economica ma anche di non escludere possibili azioni militari. Gli iraniani invitano gli Usa a non fare gli arroganti e si dicono pronti a reagire a qualsiasi provocazione. La speranza è che i toni usati da ciascuno siano quelli tipici di quando si sta per negoziare sul serio: minacciare per mostrarsi forti e mostrare i muscoli alla propria opinione pubblica per poi vendere l’accordo come un successo. Se però dovessimo basarci su quanto dicono gli esperti iraniani, americani ed europei che scrivono la loro opinione in queste ore, non c’è da essere particolarmente ottimisti sull’esito dei colloqui che si aprono a Vienna.
Turchia: inflazione e crollo della lira, l’azzardo di Erdogan
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La crisi economica turca si avvita su se stessa. A inizio della settimana in corso il valore della Lira è sceso del 15% in un giorno dopo che il Presidente Erdogan era tornato a ribadire che la politica monetaria di taglio dei tassi di interesse non si fermerà nonostante un’inflazione stabilmente sopra al 10% dalla fine del 2019 (oggi è al 19,8%, con un balzo di circa il 5% dall’inizio dell’anno). La perdita del valore della moneta turca dall’inizio dell’anno è attorno al 40%.
Le ragioni di questa caduta sono da cercare appunto nella ostinazione del Presidente di vincere quella che definisce una “guerra economica di indipendenza” e che ha portato alla rimozione di tre direttori della Banca centrale in due anni – a fine ottobre è stata la volta di due vice della Banca, uno dei quali era stato l’unico dei sette membri del comitato di politica monetaria della banca a votare contro l’ultimo taglio dei tassi.
L’idea di Erdogan è quella secondo la quale mantenere i tassi di interesse il più basso possibile – il tasso è al 15% dopo aver subito tre tagli dalla fine dell’estate. L’idea è quella di attrarre investimenti esteri e favorire quelli nazionali. E a proposito di investimenti, Erdogan riceverà oggi il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed al Nahyan, un rivale in un quadro mediorientale nel quale tutti gli attori si sono riposizionati nei terremoti successivi alle primavere arabe ma anche un potenziale grande investitore.
I problemi economici della Turchia in questa fase potrebbero essere potenzialmente accentuati dalle scelte del Presidente che nel 2023 cercherà un nuovo mandato dopo aver esteso i poteri presidenziali con il referendum vinto di un soffio e con possibili brogli nel 2017 (la Corte Suprema consentì al conteggio delle schede non timbrate). Sebbene infatti il Paese stia crescendo a ritmi piuttosto sostenuti dopo il forte rallentamento della prima parte del 2020, l’inflazione erode il potere d’acquisto dei salariati. Tra l’altro, l’inflazione dei prodotti alimentari è attorno al 27%: più sei povero e peggio ti va, dunque. La perdite di valore della Lira, poi, è un problema serio anche perché il Paese è un forte importatore. Il basso valore della valuta nazionale favorisce l’export, che è in aumento, ma tutto quel che è importato, che si tratti di beni di consumo o di materie prime, costa di più.
Il clima di incertezza sta facendo scappare gli investitori stranieri, comincia a generare proteste (come questa degli studenti a Istanbul) e preoccupa le imprese. Molte delle figure già alleate del Presidente lo hanno attaccato duramente. L’ex Ministro degli Esteri, premier e leader dell’Akp (il partito di Erdogan) Ahmet Davutoglu, oggi all’opposizione ha twittato: “Questa non è più ignoranza. Questo è tradimento”. Tra i due non corre buon sangue dal 2016 in poi, proprio a causa del referendum che ha unificato le figure del Presidente e del premier.
L’incertezza economica è anche per il mondo bancario. Le banche sono indebitate con l’estero e più il valore della lira scende, più cresce il loro debito. Lo stesso si dica per le finanze pubbliche, che pure sono in relativa salute se comparate a quelle di altri Paesi.
Erdogan punta probabilmente sull’idea che la Lira debole e i bassi tassi di interesse favoriscano la crescita a un livello tale da poter tornare ad alzare i tassi tra un anno o qualche mese. A quel punto l’inflazione tornerebbe relativamente sotto controllo e lui potrebbe presentarsi come un vincente al voto del 2023. Ma la scommessa è naturalmente rischiosa, il Paese è in relativo tumulto, nel 2019 le grandi città hanno votato per l’opposizione e i sondaggi danno il Presidente in calo costante.
Negli anni Erdogan ha giocato molte volte d’azzardo, accentrando poteri, facendo arrestare oppositori democratici, ripulendo lo Stato dai nemici di ogni ordine e grado dopo il fallito colpo di Stato del 2016. Allora decine di migliaia di insegnanti sono stati licenziati, giudici e militari arrestati assieme a oppositori che nulla avevano a che vedere con il tentativo di putsch militare – il leader dell’Hdp Demirtas è in carcere e ha subito due condanne per aver pronunciato discorsi o per “aver insultato” il Presidente” dal novembre 2016. Questa volta l’azzardo è economico e sta portando a una crisi inflazionistica che ricorda decenni passati.
Facebook, i post di violenza e odio e l’ennesimo danno d’immagine
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Una nuova settimana e una nuova puntata della saga Facebook. Sapevamo che le migliaia di documenti raccolti e poi diffusi da Frances Haugen avrebbero rappresentato forse il peggior colpo di immagine subito dal social network fino a oggi, e così è stato.
Stavolta l’analisi dei giornalisti del Washington Post appena pubblicata riguarda la diffusione del discorso razzista e politico e i modi tiepidi in cui viene affrontato dagli strumenti di controllo di Facebook.
La storia è presto raccontata. L’anno scorso un team interno segnalò una serie di post di una violenza e volgarità inaudite contro le esponenti di quella che si è autodefinita “the Squad”, le giovani donne progressiste elette alla Camera nelle fila dei democratici: Ocasio-Cortez, Pressley, Omar, Tlaib. Il team interno definiva in un suo memo alla dirigenza quei post “il peggio del peggio” e invitava ad individuare strumenti per fare in modo che quel tipo di contenuti razzisti sparisse prima che chiunque potesse vederli. Si trattava in sostanza di aggiornare gli algoritmi di controllo.
La risposta del management non fu delle migliori. Come leggiamo sul Washington Post, che ha sentito una serie di testimonianze anonime a conoscenza dei fatti: “La leadership di Facebook si oppose all’idea. Secondo due persone che hanno familiarità con le discussioni interne, la dirigenza, tra cui il vicepresidente per la Global Public Policy Joel Kaplan, temevano che il nuovo sistema avrebbe fatto pendere la bilancia proteggendo alcuni gruppi vulnerabili rispetto ad altri. Un documento preparato per Kaplan sollevava il potenziale contraccolpo da parte dei “partner conservatori” che ad esempio pensano che “l’odio rivolto alle persone trans sia un’espressione di opinione”. Kaplan è repubblicano.
Questa vicenda, l’ennesima, segnala un modus operandi di Facebook: il gruppo ha una certa capacità di individuare le falle del proprio sistema, conosce quali sono i problemi perché conduce continuamente studi e analisi sui contenuti veicolati attraverso le pagine e le bacheche dei suoi miliardi di utenti, ma non agisce. O meglio, ogni volta che individua un problema, che si tratti del razzismo, delle fake news o degli effetti di Instagram sul rapporto degli adolescenti con il proprio corpo, individua mezze soluzioni o si gira dall’altra parte. Come mai? Perché le valutazioni non vengono fatte sulla appropriatezza dei contenuti ma su quanto i cambiamenti necessari danneggerebbero economicamente il social network che nel trimestre conclusosi a settembre scorso ha avuto 29 miliardi di dollari di entrate e 9,2 di profitti (+17% rispetto allo stesso periodo del 2020).
Dalle rivelazioni di questi giorni scopriamo che i contenuti raccolti nel dossier “il peggio del peggio” sono stati raccolti anche in vista di un lavoro fatto assieme alle organizzazioni per i diritti civili ma che al momento di discutere la quantità e qualità dei contenuti di discorso d’odio, le conclusioni di quel dossier non sono state condivise. Il rapporto 2020 figlio di quella istruttoria, e giunto dopo due anni di ricerca da parte di revisori indipendenti, condannava l’impresa per aver anteposto la libertà di parola ad altri valori, una scelta che secondo gli estensori del rapporto mina gli sforzi per ridimensionare la presenza del discorso d’odio.
Controllo e censura
Da quando è emerso il tema del discorso d’odio sui social network, Facebook ha fatto passi nella direzione di controllarlo e censurarlo. Il problema sembra però essere un pregiudizio dell’algoritmo, che sembra avere la capacità di individuare tutte le battute razziste nei confronti dell’uomo bianco e molto meno gli insulti diretti alle minoranze. Si tratta di una scelta, di una policy.
Una delle giustificazioni di queste scelte sta nella non applicabilità ovunque di certe regole che si vogliono globali. Ma è più probabile che si tratti di scelte di mercato. Fatto sta che il numero di afroamericani che abbandona Facebook cresce, così come crescono le segnalazioni di utenti neri che si vedono censurati post anti-razzisti.
Facebook si presenta come un network neutrale che, come spesso ripetuto, difende la libertà di espressione come protetta dal 1° emendamento. Si tratta di un giochino: non solo il primo emendamento è una legge degli Stati Uniti mentre Facebook è un gruppo globale, ma, come evidenzia la vicenda del “peggio del peggio”, la difesa della libertà di espressione qualsiasi cosa si abbia da dire, colpisce in maniera sproporzionata le donne, i neri, gli ispanici e le persone LGBTQ.
In queste settimane il gruppo ha assunto un noto avvocato per i diritti civili e lo ha messo alla guida di un “team per i diritti civili”. Alcune organizzazioni che si occupano di razzismo e diritti, ad esempio la ADL, hanno però segnalato come dei 60mila dipendenti del gruppo, solo 10 facciano parte di questo gruppo.
Francia, Eric Zemmour continua a far parlare di sé
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Eric Zemmour, il giornalista, autore, polemista di destra la cui ombra aleggia sulle presidenziali francesi del prossimo aprile, continua a far parlare di sé. Si è aperto a Parigi un processo nel quale Zemmour si difende dall’accusa di istigazione all’odio razziale.
Si tratta della quindicesima volta che finisce in tribunale a causa delle sue parole, in due occasioni è stato condannato. La ragione sono le parole pronunciate durante un dibattito nel programma “Face à l’info” sui minori non accompagnati. Come in molte altre occasioni Zemmour si era lasciato andare a una tirata sostenendo: “Non hanno posto qui, sono ladri, sono assassini, stupratori, non sono altro, devono essere rimandati indietro e non devono nemmeno venire”.
Secondo gli avvocati che lo difendono, il candidato in pectore che potrebbe azzoppare Marine Le Pen e le sue possibilità di giungere al secondo turno delle presidenziali non ha fatto altro che esprimere le stesse preoccupazioni che le stesse istituzioni francesi hanno sulla delinquenza minorile; la sua colpa è solo di aver usato parole diverse, più esplicite e dirette.
Diverse associazioni anti razziste si sono costituite parte civile nel processo, mentre i sostenitori, il gruppo giovanile denominato Generation Z(emmour) che spinge per una sua candidatura all’Eliseo, avevano convocato un presidio davanti al tribunale.
Le parole per le quali il polemista di destra è a giudizio venivano dopo un accoltellamento nei pressi dei locali del Bataclan, dove il 13 novembre di sei anni fa un commando islamista uccideva 90 persone (altre 40 morirono in altre azioni lo stesso giorno). Nel mezzo delle cerimonie che ricordano l’attentato e mentre si svolge il processo agli attentatori sopravvissuti, Zemmour ha colto l’occasione per tornare sulle prime pagine. Sabato scorso davanti al locale ha infatti accusato l’ex Presidente Hollande di non aver “protetto i francesi e di aver preso la decisione criminale di lasciare le frontiere aperte”. Il giorno prima a Bordeaux aveva espresso concetti simili. Le sue parole non sono piaciute alle associazioni dei familiari delle vittime che lo accusano di speculare sui morti per bassa cucina politica.
La versione estrema di Marine Le Pen
Il tono, l’onnipresenza e gli argomenti del 63enne autore di “Le Suicide français”, libro da 500mila copie, tendono a essere una costante e moltiplicano le speculazioni su una sua possibile candidatura. La sua è una versione estrema, poco raccomandabile e poco istituzionale delle idee di Marine Le Pen, che le esprime in forma meno brutale nella speranza di divenire una alternativa credibile a Macron. La leader del Rassemblement National ha lo stesso problema da due elezioni consecutive, un consenso largo ma un’opinione pubblica che si compatta in un fronte repubblicano e vota qualsiasi candidato non sia espressione dell’estrema destra, e per questo ha relativamente moderato le proprie posizioni. Zemmour, candidato o meno che sia, non ha questo problema e può quindi essere fieramente anti europeo, anti immigrazione al limite del razzismo, nazionalista dal punto di vista economico.
Il problema per Le Pen è che l’originale e senza peli sulla lingua rischia di essere preferito da quella parte destra e arrabbiata dell’elettorato francese, che detesta Macron e che non vede alternative alla sinistra del Presidente, nonostante i toni spesso nazionalisti usati da Jean Luc Melenchon, che lancia la sua campagna in questi giorni con la presentazione del programma. In diversi sondaggi pubblicati nelle ultime settimane, Zemmour è secondo al solo Presidente in carica, mentre in altri è terzo appena dietro a Le Pen.
Entrambi i candidati di destra perderebbero al secondo turno contro Macron. La candidatura di Zemmour è quindi un problema serio per la leader nazionalista e, forse, un bene per il Presidente che si troverebbe a competere con un personaggio ancora più estremo, e quindi percepito come pericoloso, da una parte ampia dell’opinione pubblica cui pure Macron non piace. Questo almeno lasciano supporre i sondaggi e una lettura delle passate elezioni presidenziali francesi. Ma forse è meglio non fare calcoli sui comportamenti elettorali, non dopo il 2016 negli Stati Uniti.
Cosa ci aspettiamo dal vertice Biden-Xi
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“Se l’oasi è circondata dal deserto, prima o poi anch’essa diverrà deserto”: l’immagine figurata è dello scorso settembre e a pronunciarla è stato il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi che parlava delle relazioni sino-americane. Oggi il Presidente statunitense Biden e quello cinese Xi si incontreranno virtualmente in un vertice durante il quale tenteranno di raffreddare la temperatura dei rapporti tra le due superpotenze mondiali.
A questi due colossi economici, militari – e anche campioni di inquinamento – spetta trovare una forma di equilibrio di qualche tipo e questo vertice è un tentativo di stabilire un piano di lavoro in quella direzione. In testa all’agenda ci sarà senza dubbio Taiwan, l’isola che Pechino considera parte integrante della Cina e che dopo le modalità con le quali è stata trattata la “diversità” di Hong Kong, teme di venire annessa attraverso l’uso della forza. La settimana scorsa i capi della diplomazia dei due Paesi si sono scambiati bordate in materia: il Ministro degli Esteri cinese ha detto al segretario di Stato americano Antony Blinken che qualsiasi dimostrazione di sostegno all’indipendenza di Taiwan si ritorcerebbe contro gli Stati Uniti, mentre l’americano ha segnalato la preoccupazione del suo Paese per la crescente “pressione militare, diplomatica ed economica” della Cina sull’isola. Da mesi entrambi i Paesi fanno giochi di guerra nello stretto che divide la terraferma dall’isola che Washington ha promesso di difendere in caso di attacco cinese.
Per ridurre la tensione servirebbe il ritorno a quello status quo dei non detti nel quale Pechino lascia andare la retorica nazionalista e gli Stati Uniti evitano di nominare l’indipendenza del Paese. Negli ultimi due anni almeno, invece, i toni sono stati assertivi da entrambe le parti.
I temi in agenda
La dottrina Cina-Usa è quella che il segretario di Stato descrive come “competitiva quando necessario, collaborativa quando possibile e antagonistica quando inevitabile”. Il comunicato congiunto firmato a Glasgow in occasione della Cop26 segnala che in effetti la collaborazione è possibile nonostante le tensioni geopolitiche – che hanno portato anche gli Stati Uniti a rilanciare con successo la diplomazia asiatica dopo i disastri di Trump – e quelle sul commercio, legate anche a un ripensamento planetario delle filiere produttive generato dal Covid e dalla crisi da approvvigionamento di merci che il mondo sta attraversando. Infine ci sono i diritti umani e i dubbi sull’origine della pandemia. La lista delle frizioni possibili è insomma ampia.
Ma non c’è solo Taiwan. Gli Stati Uniti sono preoccupati dagli investimenti cinesi nell’apparato militare industriale, dalla capacità tecnologica crescente e dalla corsa al nucleare militare: al Pentagono ritengono che Pechino avrà circa mille testate entro la fine del decennio e anche per questo hanno lavorato nella direzione di dotare l’Australia di sottomarini nucleari – l’affare che ha raffreddato le relazioni con la Francia di Macron.
“Entrambi i Paesi guadagneranno dalla cooperazione e perderanno dal confronto. La cooperazione è l’unica scelta giusta”, ha scritto Xi in un messaggio al Comitato per le relazioni Usa-Cina, mentre il Presidente americano ha parlato di “passaggio storico cruciale”.
Le aspettative attorno al vertice sono basse, proprio a causa della vastità dell’agenda tra i due Paesi. Al termine non ci sarà una conferenza stampa di Biden e neppure un comunicato congiunto. È interesse di entrambi i Paesi mostrare un ritorno alla normalità che non implichi passi indietro per nessuno, entrambi i leader hanno i loro problemi casalinghi, anche Xi, che si prepara a un terzo mandato con qualche nuvola economica all’orizzonte. Gli anni di Trump e la svolta di Xi hanno molto complicato le relazioni e questo vertice è probabilmente parte del lavoro necessario a trovare una modalità di convivenza che conviene a entrambi.
Google, il tribunale Ue conferma la multa di 2,42 miliardi
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La questione enorme delle regole per Big Tech, un settore economico relativamente nuovo e divenuto centrale per l’economia e la vita di ciascuno di noi, comincia a entrare nel vivo. L’ultima notizia è relativa alla battaglia legale persa da Google nell’appello contro la multa comminata dalla Commissione europea secondo cui il colosso di Mountain View ha abusato della sua posizione dominante favorendo il proprio servizio di acquisti comparativi, rispetto ai concorrenti.
Il Tribunale conferma quindi l’ammenda di 2,42 miliardi di euro inflitta a Google nel 2017. Il ricorso era stato presentato sia da Google sia dalla controllante Alphabet e la sentenza della Corte di Lussemburgo verrà con ogni probabilità portata in appello.
Si tratta di una vittoria per la Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager: è la prima volta che un tribunale europeo si pronuncia su un caso antitrust contro Google. Quel caso è uno tra i tanti nei quali i colossi del Web (e in parte anche dell’hardware che usiamo per navigarla) utilizzano il fatto di essere contemporaneamente il negozio e fornitori di merci che nel negozio si vendono per far scomparire o indebolire la concorrenza. Alphabet ha anche fatto appello contro altre due multe miliardarie comminate per aver abusato della propria posizione nel mercato della pubblicità online e in quello delle app per il proprio sistema operativo (Android).
Il tour europeo di Frances Haugen
Un giorno prima della sentenza era stata la volta del tour europeo di Frances Haugen, che ha sostanzialmente ripetuto quel che aveva già detto al Congresso. La differenza fondamentale è che il Parlamento europeo e la Commissione sono già alle prese con un’ipotesi di regolamento (come anche la Gran Bretagna dove Haugen è stata prima di Bruxelles).
Haugen non ha solo ricordato una serie di cattive pratiche e il disinteresse di Meta, il nuovo nome del gruppo padrone di Facebook, Instagram e WhatsApp, per i rischi che comportano (comportamenti degli adolescenti, diffusione del discorso d’odio e via dicendo). La ex dipendente divenuta whistleblower ha segnalato una volta di più un aspetto importante: occorre che le informazioni che la compagnia diffonde per motivare e difendere le proprie scelte o spiegare di essere cambiata siano certe. In sostanza non possiamo fidarci di Facebook quando dice: “La cosa di cui ci accusate non la facciamo più, ecco i dati”. Secondo Haugen, nelle regole immaginate per la rete occorre anche prevedere la necessità di poter andare e verificare le fonti. “Come quando le industrie del tabacco spiegarono che le sigarette con il filtro non facevano male, gli scienziati ebbero la possibilità di sostenere il contrario”, ha detto. In questo caso, appunto, i dati che abbiamo non stanno in una radiografia dei polmoni, ma nei server della stessa compagnia.
Da più di un anno l’Ue ragiona attorno alla proposta di Digital Services Act (DSA) che dovrebbe cambiare le regole dell’e-commerce, ampliando i requisiti per definire aree di responsabilità aggiuntive intorno ai contenuti (la gestione dei contenuti illegali, i prodotti pericolosi venduti da terzi, ad esempio).
Tra gli emendamenti in considerazione c’è anche l’ipotesi di vietare il microtargeting per la pubblicità, ovvero l’impossibilità di usare i comportamenti online degli individui per proporre loro prodotti commerciali o politici.
La discussione è in una fase avanzata, con alcuni Paesi tra cui Francia e Germania che hanno in mente di consentire anche ai singoli Stati di poter multare le piattaforme o costringerle a rimuovere eventuali contenuti illegali, mentre allo stato attuale solo i Paesi dove le aziende tecnologiche hanno il loro quartier generale possono far rispettare le leggi europee. Haugen ha elogiato l’ipotesi di regolamento sostenendo che potrebbe diventare la matrice da imitare altrove. La Francia, che a luglio assumerà la presidenza del Consiglio dell’Unione, è molto impegnata per portare a casa un risultato.
Usa, il Congresso approva il pacchetto infrastrutture di Biden
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Una settimana cominciata male – ma finita in modo migliore delle precedenti – per Joe Biden e la sua amministrazione. Dopo mesi di trattative e braccio di ferro tra moderati e radicali del Partito democratico, la prima misura importante riesce a passare l’ostacolo del Congresso.
Il piano infrastrutturale
Il pacchetto prevede 550 miliardi di investimenti pubblici in infrastrutture, metà per i trasporti e l’altra metà per misure che riguardano acquedotti, banda larga e adeguamento al cambiamento climatico. Tra qualche anno gli americani avranno più ferrovie e trasporti locali, acqua meno contaminata, la banda larga un po’ ovunque. Sono cose importanti.
L’altro dato positivo è quello relativo all’occupazione, che nel mese di ottobre ha aggiunto più posti del previsto e segnala dunque che la lentezza della ripresa non sta danneggiando oltre misura il mercato del lavoro. Come per molti cittadini d’Occidente, il 2020 è stato un anno di risparmi per gli americani che quindi oggi spendono con più facilità e questo rende dinamico il mercato nonostante una pandemia che non ci lascia e gli imbuti nella filiera produttiva.
Certo, la stessa settimana, come si diceva, era cominciata con la sconfitta per il candidato democratico a governatore della Virginia, Terry McAuliffe, e risultati elettorali pessimi in tutte le poche votazioni locali tenutesi in giro per gli Stati Uniti.
La legge approvata dal Congresso è importante e produrrà occupazione tra l’altro in settori come l’edilizia non toccati dalla ripresa. Non solo, i predecessori di Biden, sia Obama che Trump, avevano promesso infrastrutture, uno provandoci e vedendo ogni tentativo respinto dai repubblicani, l’altro facendo annunci senza seguito (a Washington circolavano molte barzellette sulla “settimana delle infrastrutture” annunciata molte volte e mai giunta).
Clima e welfare
Per il Presidente in carica, quindi si tratta di un successo. Ma resta comunque infinitamente più piccola del pacchetto ambizioso proposto da Biden al suo arrivo alla Casa Bianca e tocca in maniera marginale la questione del cambiamento climatico, che pure era una delle cause che rendevano urgente il pacchetto Biden. Nella legge si stanziano risorse per affrontare la siccità, le inondazioni, il controllo del territorio per impedire degli incendi devastanti come quelli che divampano da tre anni a questa parte in California, l’erosione delle coste; ma manca un piano per cambiare l’economia, renderla meno inquinante.
Non bastano i miliardi per le colonnine elettriche per le auto a batteria: dalla Casa Bianca promettono regole e altri interventi amministrativi che contribuiranno a ridurre di poco l’impronta ecologica degli Stati Uniti, ma se e quando arriveranno, si tratterà appunto di atti amministrativi che un Presidente repubblicano potrà annullare con un tratto di penna.
Ci sono altri ma. Il primo riguarda il modo in cui si è giunti al voto della Camera, che pure è stato un capolavoro da parte della Speaker Nancy Pelosi. L’ala progressista del partito aveva promesso di non votare il pacchetto infrastrutture ridimensionato se questo non fosse giunto al voto assieme a quello sul welfare, un disegno di legge altrettanto ambizioso e complesso che i senatori democratici Manchin e Sinema bloccano da settimane.
Pelosi ha mostrato i muscoli e i sorrisi, negoziato e minacciato proprio come quando trovò i voti necessari a far approvare la riforma sanitaria di Obama. E i progressisti si sono dimostrati più ragionevoli dei moderati, decidendo di votare la legge nonostante fosse ridimensionata rispetto alle loro aspettative e non fosse accoppiata al testo sul welfare. La campana della Virginia suonava per tutti e prima di rischiare di divenire capro espiatorio dei moderati, Alexandria Ocasio-Cortez e compagnia hanno scelto di votare prendendosi il rischio che Sinema, Manchin e i moderati della Camera blocchino per sempre “l’infrastruttura sociale”, che a differenza di quella materiale punta ad aiutare i poveri e concedere diritti e tutele ai lavoratori e non investe soldi che verranno distribuiti alle imprese. Non a caso, ci sono anche 13 voti repubblicani tra quelli che hanno approvato il pacchetto infrastrutture: le risorse per fare cose nel proprio Stato sono sempre le benvenute e si può chiudere un occhio sul deficit che producono.
Verso le elezioni di midterm
L’ala sinistra democratica si è resa conto che l’amministrazione doveva produrre dei risultati o rischiava davvero un bagno di sangue alle elezioni di midterm che si svolgeranno tra un anno. Ma se l’infrastruttura sociale non passerà, possiamo aspettarci una rivolta furibonda e sfide alle primarie ovunque l’eletto sia un moderato contrario all’agenda Biden.
A metà novembre avremo un quadro reale della situazione perché i moderati hanno rallentato il passaggio del piano sociale in attesa dei calcoli delle autorità istituzionali ma neutrali che ne valuteranno l’impatto sul deficit. A quel punto sapremo cosa e come arriverà al voto del Congresso.
Perché è molto importante? Perché Biden e i democratici promettono riforme, perché le misure di welfare impatterebbero molto su donne e minoranze che sono le colonne della base di consenso democratica e perché le minoranze sono già scottate dall’assenza di misure per garantire meglio la libertà di voto in America (i Dem hanno presentato due leggi, i repubblicani ne hanno impedito il passaggio). Per Biden e i democratici, insomma, la strada è in salita, ma l’aver approvato almeno questo pacchetto infrastrutture che produrrà effetti tangibili in tempi relativamente brevi, potrebbe essere il primo passo per uscire dalla buca dove si sono cacciati.
Facebook non chiude definitivamente il sistema di riconoscimento facciale
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Fino a che punto è lecito che le istituzioni utilizzino delle telecamere che riconoscano le persone e le collochino in luoghi sensibili dei centri abitati? Quali rischi per un loro uso a scopi di repressione e controllo? E quali rischi aggiuntivi esistono se la mappa di pixel della nostra faccia diviene lo strumento attraverso il quale ci relazioniamo con soggetti privati, paghiamo i nostri conti, interagiamo sui social network?
Si tratta di domande enormi e persino Facebook, anzi Meta, come il gruppo ha scelto di rinominarsi da qualche giorno, riconosce che l’uso del riconoscimento facciale come strumento per interagire può essere un problema. In questo caso per la privacy.
È dunque di ieri l’annuncio secondo il quale nelle prossime settimane Meta chiuderà il sistema Face Recognition su Facebook. “Continuiamo a ritenere la tecnologia del riconoscimento facciale uno strumento”, ma ci sono anche “crescenti preoccupazioni sul suo uso” e le autorità, si legge in una nota pubblicata dalla società, non hanno ancora prodotto una regolamentazione chiara. Per questo “riteniamo sia giusto limitare l’uso del riconoscimento facciale”. Meta ha annunciato che smetterà di usare lo strumento e che le “impronte facciali” di un miliardo circa di persone verranno distrutte; non verranno però eliminati i tag alle foto di persone individuate da altri attraverso il riconoscimento facciale.
Il riconoscimento facciale
Ma che cosa era il riconoscimento facciale su Facebook? Un primo dato importante è che si trattava di una applicazione del social network cui occorreva fornire il consenso. A dirla tutta, una versione che il consenso non lo chiedeva affatto è stata bloccata dall’Illinois e il gruppo di Zuckerberg ha dovuto pagare 650 milioni di multa per averla usata. La cosa sorprendente è che un miliardo di persone, poco meno di un terzo degli utenti, abbia scelto di consentire al network di usare la propria foto per essere riconosciuto dall’algoritmo. Ma se guardiamo i dati sul numero di utenti Facebook per Paese ci rendiamo conto che probabilmente l’app è stata autorizzata soprattutto in luoghi dove la privacy non è un tema di discussione.
L’app creava una “impronta digitale” che veniva usata per riconoscere le foto nelle quali si compariva e per suggerire alla persona di taggarsi (ovvero segnalare la propria presenza, dire “qui ci sono anche io”) in quelle foto. L’altro uso era quello di impedire a qualcuno di usare l’identità di altri: se oltre ai dati relativi alla persona c’è anche la faccia, è impossibile farsi passare per Claudio Rossi, se non si è quel Claudio Rossi.
Una questione di privacy
Torniamo al fenomeno più generale: perché il riconoscimento facciale è spaventoso? Facciamolo dire a qualche esperto. Adam Schwarz, avvocato che per la Electronic Frontier Foundation, scrive: “La tecnologia di riconoscimento facciale è una minaccia speciale per la privacy, la giustizia razziale, la libera espressione e la sicurezza delle informazioni. I nostri volti sono unici, e la maggior parte di noi li espone ovunque andiamo. E a differenza delle nostre password e numeri di identificazione, non possiamo ottenerne uno nuovo. Così, i Governi e le aziende, spesso collaborando, usano in maniera crescente i nostri volti per tracciare i nostri spostamenti, le nostre attività e le nostre relazioni”. Schwarz fa un lungo elenco dei rischi connessi a ciascuna delle problematiche che individua (privacy, libertà di informazione, discriminazione, ecc.) portando esempi concreti di un uso non appropriato sia da parte delle istituzioni che da parte di privati.
Nel 2019 il professor Luke Stark, che insegna Media e Storia della tecnologia all’Università del West Ontario ed ex dipendente di Microsoft, ha paragonato il riconoscimento facciale al plutonio: “È pericoloso, razzista e ha pochi usi legittimi. Il riconoscimento facciale ha bisogno di regolamentazione e controllo al pari delle scorie nucleari”.
Eppure di regole ce ne sono poche. Solo il Belgio e il Lussemburgo hanno bandito lo strumento, mentre altrove il riconoscimento facciale viene usato in maniera crescente negli aeroporti o dalla polizia e nei Paesi meno democratici il riconoscimento facciale viene usato in maniera diffusa. Un’analisi di Comparitech sui 100 Paesi più popolati del pianeta segnala come i Paesi dove lo strumento viene più usato siano Cina, Russia, Emirati Arabi Uniti, India, Giappone e Cile. Il 20% dei Paesi analizzati da Comparitech usa il riconoscimento anche nelle scuole (non tutte, ma fa spavento lo stesso).
Manca una regolamentazione
La questione è l’ennesima di quelle poste dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale con le quali i regolatori devono avere a che fare. E naturalmente oltre che dotarsi di regole per l’uso istituzionale devono stabilire rigidi paletti anche per quanto riguarda i privati.
Torniamo a Facebook. Meta non ha annunciato che smetterà di usare il proprio software di riconoscimento facciale, ma solo che smetterà di archiviare facce e comparare le “impronte digitali” archiviate con le foto presenti sul social network. Come ha scritto Kris Shrishak dell’Irish Council for Civil Liberties, continuerà invece ad avere accesso alle immagini, a detenere algoritmi in grado di generare modelli e per compararli con le foto. “L’annuncio di Facebook indica che stanno mettendo in pausa (non chiudendo definitivamente) l’uso del sistema per poterlo riavviare”. Facendo un parallelo azzardato ancora con il plutonio o l’uranio: è come se la Corea del Nord rinunciasse a costruire un missile nucleare ma tenesse il materiale radioattivo necessario, la tecnologia e il vettore in un magazzino.
Del resto, lo dice lo stesso comunicato di Facebook, il problema sono le regole che non esistono. Insomma il network non è preoccupato per la nostra privacy ma semplicemente teme di trovarsi in difficoltà se e quando queste regole vedranno la luce. E in queste settimane, con le rivelazioni contenute nelle migliaia di pagine che Frances Haugen ha consegnato al Congresso, a Meta non vogliono nuovi problemi. Cancellare l’opzione riconoscimento facciale è una specie di polizza assicurativa contro le cause miliardarie. Quando e se le regole ci saranno, aspettiamoci una mail che ci propone di rendere più facile e felice la nostra vita online acconsentendo con un click a regalare la nostra faccia al social network.
Dal G20 al Cop26: tutte le sfide di Biden
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Joe Biden e gli Stati Uniti avevano bisogno di qualcosa che somigliasse a un successo internazionale. L’amministrazione ne aveva bisogno per mostrare agli americani che la propria agenda internazionale ha una direzione e che gli Stati Uniti sono ancora capaci di avere un ruolo preminente.
Il G20 di Roma era il luogo in cui portare a casa il risultato, riparare a dei danni fatti e provare a instradare la complicatissima discussione in vista del Cop26 di Glasgow. I temi in agenda erano davvero molti e i dossier da affrontare per il Dipartimento di Stato erano molti e ciascuno aveva e avrà anche ricadute sulla politica nazionale, dalla comunione del Presidente, all’Iran, al clima e alla necessità di far approvare al Congresso misure che consentano agli Stati Uniti di rispettare gli impegni presi, alla tassa globale sulle multinazionali.
Come è andata? Gli americani possono dirsi relativamente soddisfatti. Uno degli obiettivi era relativamente semplice: far dimenticare i quattro anni di tragiche relazioni transatlantiche dovute ai capricci di Donald Trump. Invece che giocare da soli o imporre scelte attraverso ricatti, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato sono tornati a lavorare assieme agli altri. Europa in primis. Per farlo hanno dovuto fare pubblica ammenda con la Francia per il caso dei sottomarini nucleari venduti all’Australia e dialogare seriamente con Bruxelles, ad esempio sulle tariffe imposta da Trump su acciaio e alluminio.
L’accordo raggiunto in materia di import-export siderurgico supera un dissidio serio e segnala la volontà di mantenere legami stretti in futuro: l’idea di non scambiarsi acciaio prodotto con carbone o prodotto “sottocosto” significa contribuire a ridurre la sovrapproduzione, ridurre la competitività cinese, inquinare meno. Come e se l’accordo possa venire implementato escludendo quei Paesi dove le produzioni sono più inquinanti e senza violare le regole del Wto, è una sfida da verificare. Il passo è comunque interessante: anche le regole sui costi (e quindi il costo del lavoro) o sull’inquinamento entrano a far parte dei negoziati sul commercio. Naturalmente non è bontà d’animo, ma un tentativo di rendere competitiva la propria produzione con quella cinese.
Un successo è pure la tassa internazionale sulle multinazionali. Si tratta di un’aliquota equiparabile a quelle vigenti in alcuni Paesi considerati dei simil paradisi fiscali come Irlanda o Olanda (il 15%), ma è comunque l’introduzione di un principio importante. Per gli Stati Uniti è un successo anche perché neutralizza le web tax introdotte o in via di introduzione in Europa (e in Italia), che avrebbero colpito soprattutto i colossi americani Big Tech.
Anche sull’Iran – ma questa, come per tutto il resto, è tutta da vedere – ci sono passi in avanti e la possibilità di un ritorno a trattative per il ritorno (o il ripensamento) dell’accordo sul nucleare.
Il punto più debole rimane quello anche più importante: il clima. Si tratta del più importante sia per ragioni strutturali (il destino del genere umano, tanto per non essere enfatici) ma anche politiche. Biden ha puntato su quello come lascito da Presidente, ma per adesso non è riuscito a imporre la propria volontà al Congresso. I suoi grandi piani sono naufragati di fronte alle istanze dei due senatori democratici Sinema e Manchin e alla assoluta e totale sordità dei repubblicani.
Il piano B è contenuto nella mediazione trovata con i due senatori “moderati”: 555 miliardi di dollari in crediti d’imposta e incentivi per l’energia pulita. Si tratterebbe del più grande investimento federale Usa in questa direzione, ma comunque non basterebbe minimamente a far rispettare alla prima potenza mondiale e secondo inquinatore gli accordi destinati a uscire da Glasgow, anche qualora fossero al ribasso. L’altra arma è quella dell’introduzione di regole e limiti alle emissioni che costringano le imprese e gli individui a ridurre il proprio impatto ambientale. Non granché ma qualcosa. Tra l’altro Biden non è neppure certo di portare a casa quella proposta: alla Camera su questo c’è una ribellione della sinistra che minaccia di non votare le leggi.
È così che Biden arriva a Glasgow: sapendo di voler fare molto ma non essendo certo di portare a casa nulla. Questa è una debolezza. Anche perché se si vogliono costringere i Paese emergenti e grandi contributori di CO2 come India, Cina, Russia a fare il loro occorre avere qualcosa da mettere sul piatto. Nell’amministrazione permangono poi divisioni sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Pechino: il plenipotenziario per il clima insiste sui toni morbidi per convincere la Cina a imbarcarsi nella lotta al cambiamento climatico in maniera multilaterale, altri sono restii perché osservano l’assertività cinese su tutti gli altri fronti (Taiwan è l’esempio perfetto).
L’offensiva diplomatica statunitense è appena cominciata e proseguirà durante e dopo Glasgow. Per avere successo Biden, Blinken e compagnia hanno bisogno di successi in casa. E viceversa.
Ue, è ancora stallo sul patto per la migrazione
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Se c’è una questione sulla quale l’Unione europea è divisa, persino più che sulla questione deficit/rigore, è il tema delle migrazioni e dell’asilo. E in questi mesi nei quali si prevede ci possa essere una fuga di massa dall’Afghanistan, aggiornare e far funzionare al meglio le politiche europee sarebbe davvero importante.
Da più di un anno si discute del Nuovo Patto di Migrazione e Asilo presentato dalla Commissione e in questi giorni si è alla presentazione e valutazione da parte dell’aula di Strasburgo, con le proposte contenute nelle relazioni dei due rapporteur all’aula che hanno a loro volta avanzato le loro ipotesi emendando la bozza presentata dalla presidente tedesca. Lo svedese liberal conservatore Tobé e la francese liberale Keller hanno punti di vista non identici per ragioni che, come capita spesso con questo tema complicato, riguardano sia la collocazione geografica che quella politica.
Volendo riassumere molto i punti sul tavolo: c’è la proposta di redistribuzione automatica dei richiedenti asilo, c’è un tema di come e quanto si monitorano le acque del Mediterraneo, come si coopera con i Paesi terzi (che questi siano la Libia o la Turchia, che presentano problematiche diverse), c’è il tema degli ingressi regolari per i migranti economici, quello dei rimpatri e quello di come pagare per l’enorme sforzo che politiche comunitarie efficaci e umane richiederebbe.
“No a muri o fili spinati”
Su questo il Consiglio europeo è, come è naturale sia, diviso. Alcuni Paesi i cui Governi fanno della guerra al migrante la loro ragione di esistere sono alle prese con la costruzione di muri e barriere di filo spinato, strumenti disumani che, tra l’altro, si rivelano inutili, rendendo semplicemente più pericolosi e cari i passaggi. Eppure dodici Paesi hanno scritto una lettera chiedendo che Bruxelles contribuisca alle spese per la chiusura ermetica delle frontiere. Tra questi ci sono la Polonia, l’Ungheria, la Slovenia, l’Austria, la Grecia (unico Paese a essere davvero costantemente sotto pressione).
“C’è un patto rinnovato su asilo e immigrazione che va discusso, negoziato e rinnovato. I leader devono trovare un accordo. Una cosa certa è che l’Europa non finanzierà fili spinati e muri”. Così Ursula von der Leyen pochi giorni fa. I membri Ue che sono i punti di approdo delle rotte migratorie tendono invece a vedere con favore le proposte europee.
La proposta Tobé
Se Keller avanza delle proposte di emendamento che definiremmo pratiche, ossia suggerisce ipotesi su come ridurre i tempi di attesa per la definizione dello status dei richiedenti asilo o su dove collocare i centri di attesa, le ipotesi di Tobé sono un drastico ridimensionamento della solidarietà. Nella lettura dello svedese le proposte avanzate servono a superare lo stallo nel quale si trovano le politiche europee in materia di immigrazione. Il conservatore nordico non ha torto quando parla di stallo, ma le sue ipotesi di solidarietà differenziata (non redistribuzione automatica, dunque) è però la fine della solidarietà stessa.
Per questo i membri della Commissione dell’Europarlamento ne hanno aspramente criticato la bozza. Nella proposta di Tobé c’è infatti il ridimensionamento delle operazioni di ricerca e salvataggio, la limitazione dei ricongiungimenti familiari – facilitati invece nella bozza della Commissione – e la possibilità di ripartire la pressione su Paesi come il nostro. L’esclusione della redistribuzione dei richiedenti asilo, che supererebbe il famigerato accordo di Dublino, ha trovato una reazione secca da parte degli eurodeputati liberali, socialisti, ambientalisti e di sinistra. Prendiamo proprio il commento di Keller, tra i meno aggressivi nei confronti del collega svedese: “Ritengo che questo approccio colpirebbe gli Stati membri in prima linea che sono già sotto una pressione non paragonabile a quella degli altri”.
L’impressione è davvero quella di un confronto tra sordi. Gli eurodeputati avranno qualche settimana per presentare a loro volta emendamenti alla proposta Tobé; il rischio è quello di un ennesimo muro contro muro e di grandi o piccole crisi che innescheranno polemiche tra Paesi sulla pelle dei richiedenti asilo. Tra l’altro, il Governo britannico ha proposto una legge che prevede la possibilità di respingere le barche provenienti dalla Francia e di non perseguire la polizia di frontiera per mancato soccorso in mare se queste dovessero affondare.
Facebook, le nuove rivelazioni su India e Stati Uniti
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La quantità di informazioni che abbiamo sulla vita interna di Facebook continua a crescere grazie all’analisi delle migliaia di pagine di documenti diffusi da Frances Haugen, la whistleblower che ha testimoniato davanti al Congresso tre settimane fa e al lavoro dei media su quei documenti.
La novità sono le notizie riguardanti l’India, che somigliano tragicamente alle novità sugli Stati Uniti e il 6 gennaio, con la differenza fondamentale che nella più grande democrazia del pianeta, come in altri Paesi non occidentali, la alfabetizzazione sul web, le fake news, la diffusione di voci è più bassa. Come si è osservato in Myanmar e, molto tempo prima in Ruanda, quando le voci vennero diffuse dalla radio, le conseguenze possono essere molto più drammatiche.
Il caso dell’India
I documenti analizzati dai media raccontano come due analisti del social network abbiano creato un account falso per verificare cosa comparisse sulla bacheca di una giovane donna indiana. Quello che hanno verificato è pericoloso: nel momento in cui al confine pakistano e nella zona contesa del Kashmir scoppiarono incidenti – e senza che i due analisti di Facebook avessero messo dei like a pagine di nazionalisti indu – la bacheca della falsa ragazza cominciò a venire inondata di messaggi violenti e razzisti anti musulmani e anti pakistani e inneggianti alla violenza (“Ecco 300 cani morti”, recitava un post corredato di foto di cadaveri kashmiri). In quel periodo del 2019 il premier nazionalista indiano Narendra Modi era in campagna elettorale.
La moderazione dei contenuti
Come è possibile che i contenuti in un Paese che è il primo mercato del social network guidato da Mark Zuckerberg non vengano in alcun modo moderati? Se la guardiamo dal punto di vista della politica, quello che sappiamo è che tra Modi e Zuckerberg c’è un ottimo rapporto. Nel 2015 il premier populista e nazionalista indiano venne invitato al quartier generale per un incontro pubblico mentre nel 2017 fu la volta di un post di elogio: “Al di là del voto, la più grande opportunità è aiutare le persone a rimanere impegnate con le questioni che contano per loro ogni giorno, non solo alle urne. Possiamo aiutare a stabilire un dialogo diretto e la responsabilità tra le persone e i nostri leader eletti. In India, il Primo Ministro Modi ha chiesto ai suoi Ministri di condividere i loro incontri e le informazioni su Facebook in modo che possano ricevere il feedback dei cittadini”. Nel 2017 immaginare che Facebook potesse avere quel ruolo nel rapporto tra elettori ed eletti in un Paese da un miliardo e trecento milioni di persone non è esattamente sincera.
La ragione fondamentale per cui la moderazione non avviene in India e altrove non è però la simpatia nei confronti di Modi ma gli investimenti fatti dal social network in materia di verifica dei contenuti. Il budget investito nel 2020 per combattere la disinformazione è stato speso all’84% negli Stati Uniti, mentre per tutto il resto del mondo, ossia il 90% degli utenti, si è speso il 16%. La ragione di questo sbilanciamento è semplice: il social network temeva un nuovo disastro di immagine dopo quello del 2016, è preoccupato per le reazioni e le regole che il Congresso potrebbe imporre e sa che se e quando verrà regolato (o tassato di più) tutto partirà da Stati Uniti ed Europa. In altri Paese probabilmente basta avere buoni rapporti con la classe dirigente.
Il caso Carol Smith
Ma i test con falsi utenti non si limitano all’India. Altri documenti, analizzati in questo caso dal New York Times, rivelano come certi profili vengano immediatamente sommersi di teorie del complotto. È il caso della falsa Carol Smith, signora di mezza età con dei like a pagine come FoxNews, il network TV conservatore. Il ricercatore e dipendente di Facebook che ha condotto l’esperimento ha verificato che nel giro di un paio di settimane e senza bisogno di aver visitato pagine estremiste, l’algoritmo suggeriva alla nostra Carol immaginaria decine di pagine con contenuti relativi a QAnon, la teoria che sostiene che il mondo è guidato da un network di democratici miliardari pedofili e satanisti. Facebook ha chiuso le pagine QAnon solo nell’agosto 2020, quando il danno lo avevano già fatto. Allo stesso modo, nei giorni che precedettero e seguirono l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, il monitoraggio delle pagine “Stop the Steal” (“Fermiamo il furto”) fu piuttosto blando e consentì, ad esempio, lo spam di inviti a iscriversi ai gruppi che invitavano a ribellarsi contro le presunte frodi elettorali. Dopo il 6 gennaio molti dipendenti del social network protestarono pubblicamente e internamente per la scarsa attenzione e le troppe falle del sistema di monitoraggio – che pure sostenevano, potevano essere tranquillamente individuabili.
La ricerca del Financial Times
E a proposito di filtri e moderazione dei contenuti, dall’analisi del Financial Times di altri documenti interni, scopriamo che la moderazione non vale per alcune figure di alto profilo, soprattutto conservatrici. Le ragioni sono le proteste del movimento conservatore statunitense di fronte alla chiusura delle pagine e alla censura di alcuni contenuti. Dai memo interni visualizzati dal quotidiano economico londinese scopriamo che c’erano eccezioni alla moderazione decise dall’alto, a volte dallo stesso Zuckerberg. In una nota interna del dicembre 2020, si legge che il tram di public policy ha bloccato la censura di post perché questa avrebbe potuto danneggiare figure politiche importanti. In un caso lo stesso Zuckerberg avrebbe fatto ripubblicare un video che sosteneva che l’aborto non ha mai una giustificazione medica dopo che gli erano giunte proteste da ambienti repubblicani. Niente neutralità, dunque, nonostante questa sia la policy ufficiale e sbandierata.
L’impressione, ancora una volta, è che siamo all’inizio di una nuova e difficile stagione per il social network. I documenti trasmessi da Haugen al Congresso sono molti, riguardano la politica come la pedofilia, probabilmente ne vedremo anche sui vaccini e il Coronavirus. A ogni tornante Zuckerberg e il suo team reagiranno, come stanno facendo anche in questi giorni, annunciando che implementeranno nuovi protocolli per rispondere alle sfide o che, anzi, dei passi in avanti sono già stati fatti. A ogni tornante, però, abbiamo scoperto che le azioni intraprese da Facebook non erano abbastanza.
Ambiente, Total ed Elf sapevano dei danni da idrocarburi
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“Per dieci anni, gli americani hanno analizzato e denunciato le strategie dei gruppi americani per evitare e ritardare l’approvazione di regole ambientali. In Francia, abbiamo avuto la tendenza a considerare che i nostri campioni fossero più virtuosi di ExxonMobil. Il nostro studio rovescia la narrazione rassicurante che abbiamo costruito”.
Lo studio
Così dice a Le Monde Christophe Bonneuil, storico e ricercatore al Centre de recherches historiques (CNRS-EHESS), uno degli autori di uno studio che analizza i comportamenti del colosso francese degli idrocarburi, la Total, sesto gruppo petrolifero del pianeta e 25esima impresa per grandezza assoluta nella classifica Forbes (lo studio analizza anche il comportamento di Elf, impresa già di proprietà pubblica che si è fusa con Total nel 1999).
Lo studio è internazionale e coinvolge ricercatori francesi e americani e segnala come le strategie dei grandi gruppi che estraggono, raffinano e distribuiscono gli idrocarburi abbiano giocato tutti la stessa partita: negare il cambiamento climatico, investire per produrre campagne e ricerca scientifica che ridimensionassero gli allarmi degli ambientalisti e, solo alla fine, abbiano pubblicamente accettato l’idea che una crisi climatica sia in corso, ma poi lavorato per ridimensionare la portata delle riforme necessarie a invertire la rotta.
Da altre ricerche di archivio sappiamo che l’American Petroleum Institute aveva nozione dei rischi per il clima dell’uso dei combustibili fossili fin dagli anni ’50. All’epoca il ramo americano di Total era parte dell’API e aveva quindi accesso agli studi e alle informazioni in possesso di Exxon, Chevron e compagnia. La certezza che nel gruppo francese fosse a conoscenza dei rischi per la vita sul pianeta posti dal proprio campo di attività arriva nel 1971, quando in un articolo pubblicato nella rivista del gruppo distribuita ai dirigenti in 6mila copie si legge: “Questo aumento della concentrazione (di CO2) è abbastanza preoccupante […] l’anidride carbonica gioca un ruolo importante nell’equilibrio termico dell’atmosfera […] l’aria più ricca di anidride carbonica assorbe più radiazioni e si riscalda. È possibile, quindi, che un aumento della temperatura media dell’atmosfera sia da temere. Gli ordini di grandezza calcolati sono piccoli (da 1-1,5C°) ma potrebbero avere un impatto importante”. Le previsioni degli scienziati che scrivevano sulla rivista erano accurate.
L’articolo degli storici, che hanno avuto accesso agli archivi Total e condotto interviste con diversi ex dirigenti e dipendenti, segnala poi che negli stessi anni in cui l’articolo su Total Magazine veniva pubblicato le riviste scientifiche e le biblioteche cominciavano a contenere un corpus di dati e analisi sul cambiamento climatico difficile da ignorare.
Greenwashing
La prima reazione fu quella di minimizzare e raccontare gli ambientalisti come chi guarda al passato ed è incapace di immaginare il futuro. Ecco un passaggio di un articolo del magazine del 1975: “Presi nella trappola della nostalgia per un passato che non era così incontaminato come si presume… È la tecnologia e non i rimpianti che garantiranno o restituiranno una certa qualità all’ambiente”. A leggere queste righe c’è da sottolineare come in termini retorici la linea di difesa (o attacco) dei difensori del mondo così come è oggi non sia granché cambiata. Del resto negli stessi anni comincia quello che oggi chiamiamo greenwashing, ovvero la rappresentazione di sé da parte delle imprese che inquinano come imprese che hanno a cuore il destino del Pianeta. Continuiamo a citare dall’articolo, che riporta un’intervista a un ex dirigente della sezione “Ambiente” creata in quegli anni: “All’epoca […] le compagnie petrolifere erano malviste […], dovevamo far sapere che stavamo facendo qualcosa, […] così abbiamo messo l’etichetta ‘ambiente’ o ‘lotta contro l’inquinamento’ a quello che stavamo già facendo”.
E poi, naturalmente, anche lavoro per ridimensionare l’allarme: sì, c’è un certo riscaldamento, ma non avrà le conseguenze di cui si parla, o almeno non ne abbiamo la certezza. Per diversi anni la linea esplicita, ufficiale, fu questa: la scienza non è in grado di fare previsioni certe, l’idea che le temperature saliranno non è una certezza, così come non lo sono i modelli che prevedono catastrofi nel caso le temperature salissero davvero. Una linea condivisa e concertata con gli altri gruppi petroliferi. Un’altra strategia fu anche quella di gettare fango sugli scienziati dell’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, e sui loro rapporti allarmati.
Parallelamente e negli anni successivi, mentre le istituzioni politiche cominciavano a prevedere blande regole e misure per contrastare il cambiamento climatico si trattava di fare lobbying e premere affinché queste misure fossero respinte o venissero scritte in maniera tale da renderle innocue. Nei primi anni ’90 ad esempio l’industria petrolifera fece in modo di far deragliare l’ipotesi di una eco tassa europea promossa dalla Francia, ridimensionata dallo stesso Ministro dell’Economia francese Strauss-Khan, annacquata nel testo finale e infine messa da parte. “L’Economist descrisse la battaglia contro l’ecotassa come “la campagne di lobby più feroce mai vista a Bruxelles, mentre un rapporto interno del 1992 redatto da Francis Girault della Elf mostra come l’azienda avesse partecipato attivamente a quella sconfitta. Nel suo rapporto, Girault si rallegra del recente fallimento della tassa, accreditando le attività di lobbying svolta attraverso “contatti diretti segreti con i gabinetti ministeriali e le amministrazioni, sia in Francia (Primo Ministro, finanze, ambiente, ricerca, affari europei) che nella Comunità economica europea”.
La linea contemporanea è quella di presentarsi come un’impresa responsabile che investe in “energie”, ovvero in fonti diverse. È la linea che accomuna tutti i grandi gruppi, che non possono più negare la scienza del cambiamento climatico o finanziarne una contraria, come hanno fatto soprattutto i gruppi americani. Se e quanto si tratti di greenwashing lo vedremo presto. Certo è, come dimostra ad esempio l’opposizione del senatore della West Virginia Joe Manchin al pacchetto ambientale di Joe Biden negli Stati Uniti, o una certa retorica italiana sul “bagno di sangue” della riconversione ecologica o ancora le varie iniziative saudite che distribuiscono dollari a figure di spicco del panorama politico mondiale, che la capacità dei grandi colossi degli idrocarburi di influenzare la politica resta molto alta. E questo non è un bene.
L’ondata di scioperi negli Usa non è un fulmine a ciel sereno
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L’America è attraversata da un’ondata di scioperi di quelle che non si vedevano da lungo tempo. La più importante e “tradizionale” è la fermata sciopero degli operai di produzione dell’azienda di macchinari agricoli ed edili John Deere, dopo che gli operai avevano bocciato l’intesa di rinnovo contrattuale negoziata con l’impresa. Non solo, c’è la Kellog’s, quella dei cereali, il produttore di snack Mondelez International Inc, che produce molte cose tra quelle che comprate alla cassa di un bar o supermercato, della Volvo e gli infermieri in diversi Stati. Questo, del resto, è anche l’anno in cui i sindacati hanno tentato e stanno tentando di entrare a Starbucks e Amazon. Mentre scriviamo giunge invece la notizia di un accordo tra i lavoratori del settore audio video di Hollywood che protestavano per i turni massacranti ed erano anche loro pronti a entrare in sciopero.
Le cause
I lavoratori che scioperano, allo stesso modo dei milioni che si sono licenziati durante e dopo la pandemia, hanno una gamma di ragioni per recriminare. In troppi settori lavorativi le paghe rimangono basse e, adesso che c’è un poco di inflazione, non sono nemmeno adeguati ai rincari. In molti hanno messo a rischio la propria saluta continuando a lavorare nelle fabbriche, negli ospedali, nei negozi a contatto con il pubblico, sono stati trattati da “eroi” per qualche mese per poi scoprire che il loro eroismo non valeva un centesimo o qualche in giorno in più di riposo. Poi ci sono vecchie malattie del mercato del lavoro statunitense: nei settori come il grande commercio, la ristorazione e ospitalità e anche altrove, i turni cambiano, crescono e si restringono con grande facilità, rendendo difficile la programmazione della vita quotidiana e delle economie familiari. Per questo oggi i lavoratori dipendenti chiedono in genere salari più alti, più tutele (malattia, permessi), luoghi di lavoro più sicuri e assunzioni per rendere i turni meno massacranti. Che c’è da dirlo, la vita di un lavoratore medio americano è tendenzialmente più dura di quella di un europeo.
Parallelamente in tanti lasciano il lavoro perché in burnout dopo i mesi di lavoro in piena epidemia, oppure perché lavorando da casa si sono resi conto di poter migliorare la propria qualità della vita o ancora perché in alcune aree del Paese i servizi all’infanzia non sono ripartiti e le madri devono quindi rimpiazzarli rimanendo con i figli. C’è poi che molti rimasti a casa hanno evitato spese per diversi mesi e si trovano oggi a poter immaginare di rimanere qualche tempo a casa in cerca di una nuova occupazione.
Il malessere del mondo del lavoro
L’ondata di scioperi non è un fulmine a ciel sereno. Negli anni passati le campagne per il salario minimo a 15 dollari hanno raccolto grande adesione e i lavoratori dei fast-food hanno scioperato in più di un’occasione. Nel 2019 in California le maestre e i maestri scioperarono per settimane e ottennero grandi miglioramenti e investimenti pubblici nella scuola. C’è poi che il tema della ricchezza e delle disuguaglianze che serpeggia da anni nel dibattito pubblico statunitense e che incide nell’umore di chi lavora. Tra l’altro i democratici e lo stesso Presidente incoraggiano la sindacalizzazione e nominano spesso il tema della necessità di una tassazione più giusta. Il pacchetto di misure promosso dall’amministrazione e bloccato in Senato porrebbe le basi per dare risposte ad almeno alcune delle domande che sorgono dal mondo del lavoro – più asili, paghe migliori, diritto alla maternità o a permessi per la cura di persone della famiglia.
Le imprese e diversi economisti ritengono che l’ondata di scioperi sia causata anche dagli assegni ricevuti dalle famiglie nei mesi della pandemia: se non ci fossero stati quelli la gente dovrebbe lavorare, si dice. Un dibattito che abbiamo sentito riecheggiare anche in Italia. Un altro argomento contro sostiene che le richieste di aumento potrebbero avere effetti negativi sull’inflazione, che già corre più del dovuto, ma non ancora in maniera allarmante.
Se nel primo caso l’argomento è davvero spiacevole, nel secondo la risposta possibile è relativa ai profitti delle imprese e ai bonus che distribuiscono. Tagliando o ridimensionando un po’ quelli si potrebbero risparmiare risorse private da destinare al monte salari. Sia l’ondata di scioperi che la Great Resignation, l’ondata di dimissioni che attraversa il Paese, sono però il sintomo di una stanchezza del mondo del lavoro americano che, in maniere diverse a seconda dei luoghi e dei settori, ha manifestato il proprio malessere anche nell’urna, eleggendo diversi democratici di sinistra, facendo (leggermente) crescere le fila dei sindacati e persino riponendo delle speranza nel Presidente Trump.
Transizione ecologica ancora troppo lenta: verso la Cop26
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La Cop26 di Glasgow si avvicina (31 ottobre-12 novembre) e arriva in un momento delicato per la produzione mondiale di energia. Un tipico scherzo del destino vuole, infatti, che mentre ci si avvicina a scelte cruciali per il destino dell’umanità – che di questo si tratta – i mercati e i Paesi con il sottosuolo ricco di gas e petrolio si mettano a fare gli scherzi. E così, dopo il calo dei prezzi di petrolio e gas nel 2020 dovuto al crollo della domanda, la ripresa sta facendo impennare quei prezzi e la scarsità di risorse energetiche ha determinato un abbondante utilizzo del carbone. Ma senza eliminare in fretta quel ritorno dell’energia più sporca che ci sia sarà difficile raggiungere i risultati necessari a tenere sotto controllo la crescita delle temperature medie.
L’avvertimento è arrivato mentre l’organismo con sede a Parigi – la International Energy Agency (IEA) – ha detto che anche se tutti gli attuali impegni di zero netto dei Governi fossero implementati in pieno e in tempo, il mondo raggiungerebbe solo il 20% dei tagli alle emissioni entro il 2030 necessarie per mantenere l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050.
L’avvertimento della IEA
Lo scenario delineato nel World Energy Outlook della IEA prevede infatti che, stanti gli impegni presi dai Paesi fino a oggi, le temperature medie globali aumenteranno di 2,1 gradi sopra i livelli pre-industriali entro il 2100, che fa 0,6 gradi in più dell’obiettivo di 1,5 C contenuto negli Accordi di Parigi del 2015. Siamo molto lontani dal raggiungere l’obiettivo di zero emissioni entro il 2050. L’annuncio russo di non avere intenzione di disfarsi degli idrocarburi, il ritorno pesante del carbone nella produzione di energia in Cina e l’impasse politico negli Stati Uniti non lasciano dormire sonni tranquilli.
Parlando con il Financial Times, il capo della IEA, il turco Fatih Birol, ha messo in guardia su due cose: l’aumento del prezzo delle risorse energetiche non è in nessun modo legato alla transizione ecologica come qualcuno di questi tempi punta a far credere e, se vogliamo davvero raggiungere gli obiettivi che ci siamo posti, è necessario investire molte, molte più risorse nello sviluppo di energia pulita e rinnovabile. Birol parla della necessità di triplicare gli investimenti nei prossimi 10 anni (allo stato sono un quarto di quelli previsti per gli idrocarburi).
Birol suggerisce anche che i leader mondiali (e i principali finanziatori) potrebbero dare mandato a Fondo monetario internazionale e Banca mondiale per dirigere i propri prestiti e investimenti ai Paesi in via di sviluppo verso la produzione di energia rinnovabile.
Proprio la crisi dei prezzi di queste settimane dovrebbe incoraggiare a investire in rinnovabili, la cui produzione, a investimenti fatti, determinerebbe una stabilità dei prezzi, che non oscillerebbero più come quelli del mercato degli idrocarburi (e, tra l’altro, accrescerebbe l’indipendenza energetica di ciascun Paese).
La lettera a Bruxelles
Di segno relativamente opposto il segnale inviato a Bruxelles dai manager dei gruppi che producono energia, che con una lettera mettono in guardia dalle scelte di corto respiro che rischiano di far deragliare la transizione ecologica.
La lettera è la risposta a una misura presa dal Governo spagnolo, che ha previsto una tassa una tantum sui profitti di dette compagnie per attenuare gli effetti dei costi dell’energia impazziti. Madrid fa sapere che in caso di intervento paneuropeo sarà ben lieta di evitare quella tassa, ma il segnale della lettera è anche sintomo delle preoccupazioni dei grandi gruppi che estraggono idrocarburi o li trasformano in energia. È il tempo delle scelte ed è in atto una campagna per evitare che queste siano troppo radicali o penalizzanti nei confronti di questi colossi.
L’impegno di Europa e Stati Uniti
Positiva è invece la notizia secondo cui Europa e Stati Uniti stanno portando avanti un piano e una serie di impegni per ridurre drasticamente le emissioni di metano, che sebbene sia meno dannoso della CO2 è un altro dei fattori che determinano il riscaldamento globale.
Secondo le informazioni diffuse lunedì dal Dipartimento di Stato americano, 31 Paesi hanno annunciato la loro intenzione di unirsi al cosiddetto Accordo globale per il metano. “Nove dei 20 principali emettitori di metano partecipano ora all’impegno, rappresentando circa il 30% delle emissioni globali e il 60% dell’economia globale”, si legge nel comunicato dell’amministrazione Usa. In questo caso, oltre che intervenire per ridurre le emissioni da estrazione di petrolio, che contano il 20% circa del totale e quelle da agricoltura e allevamento del bestiame. Sembra uno scherzo, ma tra le cose che potrebbero contribuire a ridurre le emissioni c’è la possibilità di dar da mangiare alle mucche delle alghe o dell’aglio per ridurre drasticamente la quantità di metano prodotta dalla digestione dei ruminanti.
Sull’intelligenza artificiale gli Usa non fanno abbastanza
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L’intelligenza artificiale e la cyber security come frontiera della competizione, anche militare, sono al centro delle dimissioni polemiche di Nicolas Chaillan, che fino a qualche giorno fa era il capo dei softwaristi che al Pentagono si occupano del tema. In un’intervista al Financial Times, Chaillan si dice preoccupato per il ritardo accumulato nei confronti della Cina e definisce il livello delle difese informatiche in alcuni dipartimenti governativi a “livello asilo”.
Le preoccupazioni di Chaillan
Il grido di allarme di Chaillan si poggia su diversi argomenti, l’assenza di investimenti e la mancata comprensione del ritardo accumulato, la sottovalutazione dell’importanza del tema (“non si tratta di sviluppare nuovo hardware militare, un nuovo F35”), la burocrazie che sceglie militari senza esperienza informatica a capo delle unità che si occupano di cyber-guerra, le preoccupazioni etiche e la mancanza di cooperazione tra imprese e Stato.
Le preoccupazioni di Chaillan, un cittadino francese naturalizzato americano nel 2016, non sono solo sue. Nel suo rapporto pubblicato a marzo 2021, la National Security Commission on Artificial Intelligence guidata dall’ex ad di Google Eric Schmidt segnalava come “il Governo federale degli Stati Uniti opera ancora a velocità umana, non a quella di una macchina. L’adozione della Artificial Intelligence (AI) richiede profondi aggiustamenti nelle pratiche commerciali di sicurezza nazionale, nelle culture organizzative e nella mentalità dal livello tattico a quello strategico, dal campo di battaglia, al Pentagono. Lo Stato è in ritardo rispetto allo stato dell’arte commerciale nella maggior parte delle categorie di AI, compresa l’automazione aziendale di base. Soffre di deficit tecnici che vanno dalla carenza di forza lavoro digitale a politiche di acquisizione inadeguate, architettura di rete insufficiente. La burocrazia ostacola migliori partnership con i leader dell’AI nel settore privato che invece potrebbero aiutare”. Quando si parla di velocità umana e della macchina ci si riferisce alla quantità di informazioni e risposte che una macchina è in grado di dare in un tempo infinitamente più rapido di quanto non possa fare un uomo, nella vita normale, così come in battaglia.
Il tema, inutile sottolinearlo, è colossale e non riguarda certo solo difesa e sicurezza. Leggiamo ancora dal rapporto della commissione: “Nessun riferimento storico comodo cattura l’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) sulla sicurezza nazionale. L’IA non è una singola tecnologia come un bombardiere Stealth con le ali di pipistrello. La corsa per la supremazia dell’IA non è come la corsa allo spazio verso la luna. L’IA non è nemmeno paragonabile a una tecnologia di uso generale come l’elettricità. Tuttavia, quello che Thomas Edison disse dell’elettricità racchiude il futuro dell’IA. È un campo di campi, detiene i segreti che riorganizzeranno la vita del mondo”.
Parlando con il quotidiano finanziario di Londra, Chaillan segnala che sebbene sia vero che gli Stati Uniti spendono molto di più in cyber-sicurezza di quanto non faccia Pechino, la qualità delle scelte fatte, la loro efficacia ed efficienza non è tale da rendere quel vantaggio finanziario un vantaggio in termini di risultati. Chaillan è meno disperato di quanto il titolo del Financial Times non faccia credere. In un post su LinkedIn successivo alla comparsa dell’articolo, Chaillan scrive: Per coloro che hanno visto questo articolo, voglio chiarire una cosa. Non ho mai detto che abbiamo perso. Ho detto che così com’è e se non ci svegliamo ADESSO non abbiamo alcuna possibilità di vincere contro la Cina tra 15 anni. Ho anche detto che i cinesi sono in testa nell’AI e nel cyber già adesso”.
La competizione con la Cina
La competizione con la Cina su questo terreno è importante perché Pechino sembra voler investire moltissimo in maniera da aggirare il ritardo nei confronti degli Stati Uniti in materia di guerra convenzionale. Anziché rincorrere, la Cina prende una strada parallela. Ed è inutile segnalare come le tensioni, l’atteggiamento minaccioso di Pechino nei confronti di Taiwan degli ultimi mesi non riguardi esclusivamente la “One China policy” o l’orgoglio nazionale, quanto anche e molto la capacità produttiva dell’isola in materia di semiconduttori (su questo terreno gli Stati Uniti hanno fatto passi per riportare in casa parte della produzione anche per cercare terre rare – un export cinese – nel proprio sottosuolo).
C’è però un terreno nel quale la competizione è asimmetrica per ragioni che forse uno specialista in Intelligenza Artificiale in materia di sicurezza non trova rilevante: l’etica e la democrazia. Se è vero che il Pentagono tende a rallentare e raffreddare per ragioni strutturali interne (la burocrazia militare non capisce bene e quindi rallenta), è altrettanto vero che porsi questioni etiche sull’uso dell’intelligenza artificiale in guerra, piuttosto che non porsi questioni etiche più generali in materia di privacy, uso e conservazione dei dati personali è per adesso un problema “occidentale” e non cinese. Una differenza di approccio che osserviamo con la vicenda delle telecamere per il riconoscimento facciale.
Non solo: quando Chaillan sottolinea la mancanza di cooperazione tra pubblico e Silicon Valley dimentica di dire che in Cina il problema non si pone perché se lo Stato decide che l’impresa collaborerà su un dato progetto di sviluppo, quella impresa lo farà senza discutere, mentre il rapporto tra pubblico e privato negli Stati Uniti è naturalmente diverso. Come possiamo osservare bene su un fronte di grande attualità, quello delle politiche per contrastare il cambiamento climatico, per la politica americana prendere delle decisioni e tradurle in leggi e investimenti è più complicato e laborioso. Questa difficoltà – quella della democrazia, imperfetta per natura – è una delle cose che facevano infuriare Trump, abituato a comandare in un’impresa familiare.
Facebook: dopo l’audizione di Haugen, il Senato americano si muove
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Le migliaia di pagine di documenti interni, l’intervista Tv e poi l’audizione davanti al Senato. Frances Haugen, la whistleblower ed ex dipendente Facebook, è divenuta l’ennesimo caso di ex dipendente della società di Menlo Park a suonare l’allarme sulle pratiche per catturare più traffico e i mancati controlli sui contenuti falsi o incitanti all’odio. Con la differenza che Haugen ha appunto migliaia di pagine di materiale a conferma delle sue parole e che il Congresso sembra intenzionato a muoversi.
Durante la sua testimonianza, infatti, si è assistito al raro caso in cui i due fronti della Camera alta statunitense, invece che tirarsi bordate, concordavano sulla necessità di agire per regolare il social network.
La denuncia di Frances Haugen
Ricapitoliamo le denunce di Haugen: una struttura di controllo che non si appoggia sulla valutazione umana ma sull’algoritmo, che è spesso incapace di discernere il vero dal falso; la tolleranza verso i contenuti che per loro natura generano più reazioni da parte degli utenti (contenuti violenti, incitamento all’odio e così via); la consapevolezza e l’indifferenza di fronte al fatto che il flusso di immagini di persone belle, ricche e famose che fanno cose in luoghi esclusivi alimenti le insicurezze, i disturbi alimentari e la depressione delle teenager. Non è finita, Haugen segnala come le ricerche Facebook mostrino che le vedove e le persone che si trasferiscono in nuove città – persone potenzialmente più isolate dal contesto in cui vivono – sono quelle che sono più esposte alla disinformazione. E poi c’è la disinformazione sul coronavirus e sui vaccini.
Si tratta di accuse gravi che hanno fatto scattare il parallelo con la vicenda che negli anni ’80 hanno portato a regole molto rigide per il fumo e costretto negli anni successivi Big Tobacco a pagare miliardi in compensazioni per aver nascosto i propri dati sui pericoli del fumo, sulla dipendenza, per aver sostenuto che le sigarette leggere fossero meno dannose e così via. Anche Facebook avrebbe nascosto quel che sapeva, il che fa una grossa differenza con la posizione tenuta generalmente da Mark Zuckerberg – e dal resto del management della società – quando viene sollecitato in materia: noi facciamo del nostro meglio, ma il terreno nel quale ci muoviamo è inesplorato, a ogni questione che si pone diamo risposte che non sempre riescono a essere adeguate o eliminare il problema. I documenti di Haugen mostrano invece una consapevolezza interna relativa ad alcune questioni – gli effetti sull’adolescenza ad esempio – che vengono però tenute nascoste a istituzioni e pubblico.
Tra le cose che Haugen ha suggerito c’è la possibilità che il Congresso obblighi il social network a condividere con le commissioni competenti più materiali e ricerche interne che contribuiscano così a conoscere quel che anche Facebook conosce e a fornire elementi che aiutino le istituzioni a capire in che direzione andare per pensare a nuove regole. Si tratta di un terreno complicato per molte ragioni: le eventuali regole riguardano infatti ambiti diversi. C’è l’enorme tema del monopolio e dei comportamenti contrari alla concorrenza come l’acquisizione delle startup considerate come concorrenti possibili o in grado di portare più utenti, come è il caso di Instagram, app di successo tra i teenager comprata dopo il calo del numero di giovani iscritti a Facebook. Qui l’idea, avanzata dalla sinistra del Partito democratico, è quella di usare la normativa antitrust per smembrare il colosso o impedire l’acquisizione di rivali. Un caso simile si pose con Microsoft nel 2001, che però spuntò un accordo con il Dipartimento di Giustizia evitando così lo smembramento (molti giudicarono l’accordo inadeguato).
Fake news e discorsi d’odio
C’è poi il tema delle fake news e dell’assenza di controllo sui contenuti violenti o del discorso d’odio. Altro terreno scivoloso che l’impresa fondata da Zuckerberg utilizza molto bene segnalando l’importanza della libera circolazione delle informazioni e della libertà di parola.
Le novità di questa testimonianza riguardano l’atteggiamento degli eletti. C’è una maggior capacità di porre domande e individuare quali siano le questioni cruciali. Se in passato il tema dei social network era nuovo, ormai tra studi, pubblicazioni, casi passati (i vaccini, Myanmar, le elezioni del 2016, il 6 gennaio, Cambridge Analytica) i legislatori cominciano ad avere un know-how che prima non avevano.
Il consenso bipartisan
E poi c’è il consenso bipartisan sulla necessità di regolare l’industria. Nelle prossime settimane Zuckerberg verrà chiamato a rispondere: “Mark Zuckerberg dovrebbe venire a testimoniare”, ha detto il senatore Richard Blumenthal (D), Presidente della sottocommissione per la protezione dei consumatori del Senato: “Se è in qualche modo in disaccordo con tutto ciò che è stato detto qui, è lui che dovrebbe farsi avanti, è lui che comanda a Facebook”.
La strategia difensiva del social network è quella che abbiamo richiamato sopra, l’altra più subdola è segnalare come Haugen non si sia occupata, ad esempio, di adolescenti o di altri temi che ha sollevato. “Oggi, una sottocommissione del Senato ha tenuto un’udienza con un ex Product Manager di Facebook che ha lavorato per l’azienda per meno di due anni, non ha mai partecipato a una riunione decisionale con dirigenti di livello C – e ha dichiarato più di sei volte di non aver lavorato sugli argomenti di cui parlava”, ha dichiarato Lena Pietsch, direttore delle comunicazioni della società.
Se e come il Congresso giungerà a immaginare e approvare regole per il social network e le altre Big Tech lo staremo a vedere e non è affatto detto. Certo è che questa testimonianza rende la pressione su Facebook maggiore di quanto già non fosse.
Colpo basso per Facebook: parla l’ex ingegnere informatico
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Frances Haugen ha consegnato al Wall Street Journal materiali e comunicazioni interne che il network avrebbe preferito non svelare. L’ennesimo danno all’immagine pubblica del social, ma non solo. C’è anche Instagram…
Se solo Mark Zuckerberg potesse silenziare tutti coloro che hanno lavorato per lui lo farebbe. L’ultima è Frances Haugen, che Facebook aveva assunto per occuparsi di proteggere il social network dalle interferenze elettorali a ridosso e dopo il voto presidenziale del novembre 2020 e che nelle settimane scorse ha passato al Wall Street Journal una quantità di materiali e comunicazioni interne che il gruppo con sede a Menlo Park avrebbe fatto volentieri a meno di rendere pubblici. Conosciamo il nome della whistleblower che ha lasciato il gruppo nel maggio scorso perché Haugen ha deciso di rendere pubblica la sua denuncia concedendo un’intervista a 60 Minutes nella quale rende noto che domani (5 ottobre) testimonierà davanti al Congresso, cui pure ha fatto avere i file trasmessi al quotidiano economico.
Cosa ha detto Frances Haugen
L’informatica – con una lunga esperienza lavorativa in altre società della Silicon Valley e social network – ha spiegato in maniera piana la sua scelta davanti a milioni di spettatori: “Ho visto un sacco di social network, e Facebook era peggio… C’era conflitto tra ciò che era bene per gli utenti e la cosa pubblica e ciò che era bene per Facebook e Facebook ha scelto più e più volte di i propri interessi”. L’altra cosa che Haugen ha fatto è accumulare documenti in maniera sistematica in maniera da poterne diffondere una quantità tale che “nessuno potesse mettere in dubbio la veridicità delle cose che dico”.
Una spiegazione ulteriore viene dalla scelta di diffondere il materiale anziché alzare la voce all’interno dell’impresa dove lavorava: tutti coloro che lo hanno fatto hanno lasciato o sono stati degradati. Haugen era stata assunta in un dipartimento creato appositamente per monitorare e capire come affrontare i temi della violenza, del discorso d’odio e della diffusione di teorie false relativa al processo elettorale, ma dopo il voto del 2020 le viene comunicato che la sua unità sarebbe stata smantellata.
I file che Haugen ha trasmesso al Wall Street Journal parlano di molte cose diverse e sono spesso rapporti di ricerca interni sul funzionamento della piattaforma, sulle reazioni del pubblico e su cosa funzioni in termini di coinvolgimento degli utenti. Non un caso specifico, dunque, ma i saperi accumulati da Facebook stesso per aumentare gli scambi, accumulare informazioni e, in sintesi, guadagnare di più dalla quantità di dati accumulati. Una cosa che a Menlo Park sanno benissimo – in maniera empirica la sappiamo in tanti – è che i contenuti divisivi e polarizzanti e il discorso d’odio e violento tendono a mantenere più a lungo gli utenti sulla piattaforma: “Se rendessero i contenuti più sicuri le persone passerebbero meno tempo online, farebbero meno click sulle pubblicità e Facebook guadagnerebbe di meno”, spiega Haugen a 60 Minutes.
Il management di Facebook era ben conscio dei pericoli che avrebbero portato le elezioni del 2020, il 2016 e la vittoria di Trump, alimentata da teorie del complotto di ogni tipo, non fu un buon momento per la reputazione per il social network. Per questo, prima della campagna elettorale che vedeva Biden opposto al Presidente repubblicano, a Menlo Park adottarono dei protocolli di sicurezza, che però vennero immediatamente messi da parte dopo il voto. L’organizzazione e il rumore di fondo attorno all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, così come tutte le teorie del complotto sul “furto del voto” da parte democratica hanno così trovato enorme spazio sul network.
La vicenda Myanmar
Non dimentichiamo che non ci sono solo gli Stati Uniti. Molti dei disastri amplificati o resi possibili da Facebook avvengono lontano dai nostri occhi e dagli occhi dei media occidentali. Il caso più clamoroso è forse quello di Myanmar, dove una campagna sistematica e durata anni orchestrata dall’esercito ha preso di mira la minoranza musulmana Rohingya. La campagna ha contribuito a quello che alcuni definiscono un genocidio e, comunque lo si voglia chiamare, all’esodo dei Rohingya dal Paese. Dopo il colpo di Stato, i militari hanno invece oscurato il social network che funge da principale fonte di informazione per i cittadini del Paese (in molti identificano Facebook con Internet).
L’altro segnale interessante riguarda i partiti europei che in una comunicazione con il social network segnalano come la necessità di vincere la partita della propaganda online li spinga ad assumere posizioni più radicali e a usare un linguaggio più estremo. Il modo in cui la ricerca di attenzione prende forma e il funzionamento dell’algoritmo modifica dunque anche il discorso politico in generale, non solo quello delle forze più estreme.
L’impatto di Instagram sugli adolescenti
Ma i social network non sono solo discorso d’odio e propaganda politica, hanno un impatto anche su comportamenti e abitudini individuali. Non si parla dei deficit di attenzione che sperimentiamo tutti, presi dall’ossessione di controllare i nostri account, ma di qualcosa di più importante. Uno degli studi interni passati da Haugen al Wall Street Journal segnala l’impatto negativo che Instagram può avere sulle adolescenti, i cui disturbi alimentari e la cui depressione vengono accresciuti e fomentati da Instagram. In risposta alla diffusione di questo studio, il social network ne ha diffuso una versione annotata nella quale spiega che forse i suoi ricercatori esagerano nel valutare la portata del disagio adolescenziale prodotto da Instagram. Fatto sta che, quando alcuni eletti in Congresso hanno chiesto di mostrare gli studi interni sugli effetti dei social sugli adolescenti, Facebook ha mostrato solo le conclusioni positive dello studio diffuso in maniera completa da Haugen.
Si tratta di una rivelazione importante in termini giuridici: Haugen ha denunciato il social network alla SEC (Securities and Exchange Commission) che vigila sui mercati finanziari. Facebook è una società di Borsa e deve attenersi a certe regole di trasparenza; il non comunicare alcune informazioni sensibili in suo possesso (o peggio mentire) può essere una violazione della norma vigente.
La testimonianza di Haugen in Congresso non sarà la prima né l’ultima a mettere il social network in difficoltà. La novità sono la quantità di documenti interni e la platea enorme che la sua denuncia ha avuto. Altri come lei hanno pubblicato libri e dato interviste, con la differenza di non avere un archivio di informazioni da mostrare a riprova delle proprie parole.
La risposta di Facebook
La risposta di Facebook a 60 minutes è la stessa che abbiamo ascoltato da Zuckerberg in diverse testimonianze davanti al Congresso e ha due argomenti di fondo. Da un lato l’ammissione di colpa e la promessa di fare più e meglio – sappiamo di avere dei limiti, ci stiamo lavorando, abbiamo fatto enormi passi avanti – dall’altra l’importanza di non violare le libertà individuali, consentendo a tutti e ciascuno di esprimersi. Che si tratti di far circolare notizie false sui vaccini – cosa di cui li ha accusati Joe Biden diversi mesi fa – o di organizzare una rivolta contro la dittatura socialista del Presidente democratico, l’importante è che il primo emendamento che protegge la libertà di espressione venga tutelato.
Abbiamo però visto come i passi in avanti siano sempre momentanei e riguardino “il caso” del momento: prima una narrazione monta e si diffonde sul social network, poi le antenne della società civile ne parlano e solo dopo Facebook interviene. Quanto ai danni sugli adolescenti, la questione è se possibile più intricata ma altrettanto sensibile.
Gli Stati Uniti sono alle prese con un problema colossale: devono trovare il modo di regolare in qualche forma un settore economico che ha una natura diversa da, poniamo, il tabacco. L’atteggiamento delle imprese è simile (negare, fare lobby e poi accettare regole dopo aver perso cause miliardarie), ma il prodotto molto diverso. Ma la questione forse più grande è cosa succede fuori dagli Usa e dall’Europa, dove le antenne su questi temi non sono accese e, come mostra la vicenda di Myanmar, i danni prodotti possono essere peggiori.
Nelle scorse settimane Facebook ha annunciato che non perseguirà l’elaborazione di una piattaforma Instagram per ragazzini, ma è questione di tempo, e parallelamente Zuckerberg ha reso noto che il prossimo obiettivo è quello di diventare una “piattaforma metaverso”, ovvero una piattaforma di realtà virtuale e aumentata. Una piattaforma 3D. Fantastico per giocare online ad Halo o addestrare soldati, ma davvero rischioso se parliamo di comportamenti di persone normali, specie giovani e giovanissimi.
CIA, il presunto piano per far fuori Julian Assange
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Intrighi e spie in un quadrilatero di Londra. Nel 2017, attorno all’ambasciata dell’Ecuador stazionavano decine di agenti segreti che monitoravano i movimenti dei loro avversari e controparti: da un lato c’era chi cercava di immaginare strade per far uscire Julian Assange dal territorio britannico (i russi), dall’altra chi voleva impedire l’operazione (americani e britannici).
In quei mesi gli Stati Uniti, o meglio, l’amministrazione Trump nella figura dell’allora direttore della CIA Mike Pompeo, avrebbero preso seriamente in considerazione l’ipotesi di rapire o uccidere Julian Assange. Non che siano stati fatti tentativi, ma a Langley – il luogo in cui si trova la sede centrale dell’agenzia – se ne discusse eccome. Questa almeno è la notizia diffusa da Yahoo News che pubblica il resoconto di interviste con 30 tra ex funzionari, agenti e altre persone informate dei fatti.
Siamo nel 2017 e le voci che circolano indicano che il fondatore di WikiLeaks, da cinque anni chiuso nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, avrebbe potuto trasferirsi in Russia grazie alla possibilità che Quito concedesse l’immunità diplomatica al cittadino australiano. A quel punto, leggiamo nell’articolo, si comincia a ragionare di piani possibili. Prima di allora però, Pompeo parlava di WikiLeaks come di un “servizio di intelligence non statale e ostile”. Un nemico insomma, contro cui è possibile usare sistemi e strumenti non convenzionali. Quella definizione “ha aperto alla possibilità di intraprendere azioni più aggressive, l’organizzazione veniva trattata come un servizio segreto avversario”, leggiamo su Yahoo News.
La svolta e la rabbia di Pompeo arrivano dopo un cambio di atteggiamento da parte dell’amministrazione Obama, seguita alla diffusione delle email della campagna Clinton e di John Podesta e alla pubblicazione da parte di WikiLeaks di notizie relative a Vault 7, il dipartimento di hackeraggio della CIA, una pubblicazione vissuta come un’umiliazione per l’intelligence Usa, nonché un danno reale in termini di diffusione dei modus operandi dell’agenzia nel mondo digitale.
Con questo nuovo atteggiamento avallato dalle dichiarazioni del capo della CIA e la credibile minaccia di fuga, la CIA e la Casa Bianca cominciarono a immaginare ipotesi per evitarla. “Secondo tre ex funzionari si pensava a potenziali scontri a fuoco con gli agenti del Cremlino per le strade di Londra, schiantarsi con un’auto contro un veicolo diplomatico russo nel caso questo trasportasse Assange, sparare alle gomme di un aereo russo prima che potesse decollare per Mosca. I funzionari statunitensi hanno chiesto alle loro controparti britanniche di sparare se fosse stato necessario sparare, e i britannici hanno accettato, secondo un ex alto funzionario dell’amministrazione”.
Non abbiamo visto nulla di simile perché il tentativo di fuga non c’è stato, Assange è oggi in una cella a Londra in attesa di capire se verrà estradato negli Stati Uniti, dove gli vengono mosse accuse sulla base dell’Anti Espionage Act, per la parte migliore del lavoro fatto negli anni da WikiLeaks, la diffusione di materiali che riguardavano gli orrori americani nella guerra in Iraq (alcune operazioni successive sono invece più che discutibili). E visto che in questi giorni esce il nuovo 007, segnaliamo anche che le scene da action movie per le strade del lussuoso quartiere di Kensington a Londra non ci sono state perché ai piani alti dell’amministrazione qualcuno ha spinto sul pedale del freno.
I funzionari della Casa Bianca hanno informato Trump e lo hanno avvertito che la questione avrebbe potuto provocare un incidente internazionale di proporzioni colossali. Tra l’altro l’incidente avrebbe riguardato la Russia di Putin, con la quale l’ex Presidente Usa aveva molti conti aperti. “Alcuni alla Casa Bianca temevano che la campagna contro l’organizzazione avrebbe finito per “indebolire l’America”, come ci ha detto un funzionario della sicurezza nazionale di Trump, perché avrebbe eliminato alcuni limiti che impediscono allo Stato di prendere di mira i giornalisti tradizionali e le organizzazioni di notizie (…). La paura al Consiglio di Sicurezza Nazionale potrebbe essere riassunta in: Dove si ferma tutto questo?”. Il rischio insomma era di andare oltre quei limiti già in parte valicati nella vicenda Assange.
Le rivelazioni di Yahoo non hanno portato alcuna smentita da parte di Pompeo, che ha diffuso un comunicato nel quale si legge: “Non mi scuso per il fatto che io e l’amministrazione abbiamo lavorato diligentemente per assicurarci di essere in grado di proteggere importanti informazioni sensibili, che si trattasse di operativi russi, dell’esercito cinese, o di chiunque stesse cercando di portarcele”. Qualche reazione si è invece vista da parte del Governo australiano che, rispondendo a richieste da parte del The Guardian Australia ha reso noto di aver sollevato la questione Assange durante l’incontro tra Ministro degli Esteri australiano, Marise Payne, e il segretario di Stato Usa Anthony Blinken. Il Governo australiano ritiene che Assange debba avere un giusto processo, un trattamento umano ed equo e accesso a cure mediche adeguate.
La notizia ha comunque riportato la questione Assange, l’accanimento americano contro il pur ambiguo fondatore di Wikileaks e la complicata questione dell’equilibrio tra libertà di informazione, whistleblowers e segreti di Stato. Una questione che probabilmente non ha risposte nette e definitive.
Una nuova Guerra fredda? Cosa pensano gli europei
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Mentre Joe Biden e Xi Jinping presentano la loro idea di quale sia il ruolo del loro Paese nel mondo all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il mondo si interroga su cosa sia e dove porti la tensione tra i due giganti economici e militari del pianeta.
Il sondaggio di ECFR
Gli europei pensano che una nuova Guerra fredda sia alle porte o sia già in atto, ma non ritengono che questa nuovo conflitto sia la “loro guerra” o che il loro Paese ne faccia parte. Questo, in estrema sintesi, il risultato di un sondaggio condotto in dodici membri dell’Ue dall’European Council on Foreign Relations (ECFR). Gli europei ritengono che l’ordine geopolitico che si prospetta sia fatto di due guerre fredde parallele, quella sino-americana (62% crede sia in atto) e quella russo-americana (59%). Le percentuali di coloro che immaginano un ritorno alle tensioni pre ‘89 tra Mosca e l’Europa sono più alte che non quelle di chi si preoccupa per la Cina, un dato normale se si immagina che i più preoccupati di tutti sono i polacchi e che percentuali alte si registrano anche in Germania e Svezia, che hanno conosciuto la Guerra fredda in forme più vicine che non gli euro-mediterranei. Anche nell’epoca delle sfide globali, dell’interconnessione, del mondo rimpicciolito, la geografia conta.
Nei dodici Paesi sondati c’è una discrepanza tra coloro che ritengono che il loro Paese sia direttamente coinvolto e coloro che invece pensano che sia coinvolta l’Europa. Gli analisti dell’ECFR ritengono che questo sia un dato utile da analizzare e forniscono due letture, una positiva e l’altra meno. “L’interpretazione positiva è che la gente sta finalmente riconoscendo l’esistenza di una politica estera europea comune (…) nel trattare con potenze globali come la Cina e la Russia, e l’Ue come potenza continentale, piuttosto che ogni Stato membro, che è meglio posizionata per difendere gli interessi e i valori europei”.
Guardata diversamente: “L’Ue permette agli Stati membri di ritirarsi dalla politica estera e concentrarsi sui loro interessi economici. In questa lettura, l’esistenza stessa dell’Unione come attore di politica estera isola i suoi Stati membri dai problemi preoccupanti del mondo moderno. Permette una nuova divisione del lavoro in cui i singoli Stati agiscono principalmente come potenze mercantili mentre spetta a Bruxelles dimostrare durezza e difendere i valori europei. Questo modello è facilmente riconoscibile nelle relazioni Europa-Russia”. L’Europa un po’ parafulmine, un po’ protettrice che però consente a tutti e ciascuno di proseguire per la loro strada: che ai diritti umani pensi Ursula von der Leyen mentre nelle capitali d’Europa si lavora ad accrescere fette di mercato e interscambi con le due grandi non-democrazie.
Una visione come questa e una sostanziale indifferenza in materia di “regime” e della sua qualità ad affrontare e governare i grandi problemi come pandemie o crisi climatica sono un aspetto che dovrebbe preoccupare Joe Biden e la sua volontà di coinvolgere gli alleati di sempre nella sfida con Pechino; la Russia è, per certi aspetti, una partita molto diversa, non c’è la concorrenza economica, la sfida sull’egemonia planetaria.
I discorsi di Biden e Xi all’Onu
I discorsi di Biden e Xi alle Nazioni Unite – il secondo, un messaggio video, non era previsto nel programma – hanno risposto all’appello del Segretario Generale di mitigare i toni. Biden ha spiegato di non cercare nessuna nuova Guerra fredda e di essere pronto a cooperare con tutti sulle grandi sfide planetarie, a prescindere dalla distanza su altre questioni e piani. Il Presidente degli Stati Uniti ha naturalmente ribadito che l’America non starà a guardare in caso si tocchino i propri alleati. Xi ha invece approfittato del suo discorso per promettere che Pechino non finanzierà più centrali a carbone fuori dai propri confini (ma il problema è anche e molto in Cina) e ha ribadito il proprio approccio multilaterale alla politica internazionale e la ferma contrarietà alle interferenze nelle politiche altrui.
Entrambe le prospettive presentano falle. Come abbiamo visto in seguito alle tensioni tra Stati Uniti e Francia, Washington spesso non è in grado di perseguire i propri interessi e le proprie priorità e al contempo mantenere rapporti idilliaci con gli alleati. Quanto a Pechino, la sua idea di “una Cina” che comprende Taiwan e le tensioni nel Mar della Cina segnalano un’idea troppo larga di quelli che sono gli “affari di famiglia”. Non solo, un Paese che si vuole grande potenza non può avere una politica estera che non guarda e non discute nulla di ciò che accade fuori dai propri confini.
L’indagine del think tank europeo segnala come le opinioni dei 12 Paesi tendano ad aver elaborato una visione non positiva di Cina e Russia. Un altro dato del rapporto ECFR riguarda la relativa neutralità degli europei: in un conflitto tra Usa e Cina sono in pochi coloro che vorrebbero l’Europa schierarsi. Segno di alleanze storiche che l’America (dopo l’Iraq, l’Afghanistan e Trump) deve riprendere e rilanciare in chiave nuova: nel 1980 a una domanda simile grandi maggioranze di europei si sarebbero schierate. La neutralità, come abbiamo visto, non viene dall’idea che il modello cinese (non parliamo di quello russo) sia migliore o eserciti un fascino. Ma da qui a schierarsi in una battaglia ideologica ce ne passa. L’idea che l’amministrazione Biden sembra avere è quella di mostrare con l’esempio che l’America è ancora un modello cui aspirare, un sistema capace di rinnovarsi, migliorare e superare le difficoltà di questi anni. A guardare questi dati non è un’idea sbagliata, gli europei non sembrano pronti a schierarsi in una crociata. La prima sfida per Biden è far funzionare proprio quel sistema democratico paralizzato che oggi sembrano essere gli Stati Uniti. Non sarà facile.
La tormenta diplomatica tra Usa e Francia
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La tormenta diplomatica franco-americana non è destinata a chiudersi nello spazio di una telefonata, quella che Joe Biden ha promesso di fare al Presidente francese Emmanuel Macron nei prossimi giorni. Parigi resta furiosa e non ha torto: l’umiliazione subita da Washington è forte, specie per un Paese e una presidenza che fanno della presenza sul proscenio internazionale un aspetto importante della propria proiezione pubblica.
Il punto di vista di Parigi è chiaro: “Stanno facendo marcia indietro su un certo numero di impegni a livello globale. E c’è un legame reale tra quanto avvenuto in Afghanistan e ciò che sta accadendo con l’accordo con l’Australia, ha detto sabato scorso il Ministro degli Esteri francese Le Drian. Ma in una vera alleanza, ci si parla. Ci rispettiamo a vicenda, rispettiamo la sovranità gli uni degli altri. Ma stavolta non è successo, ed è per questo che c’è una crisi”. La durezza della posizione francese ha sorpreso il Dipartimento di Stato e l’amministrazione tutta e viene attribuita alle elezioni presidenziali del prossimo anno: Macron è in campagna elettorale e deve fare la voce grossa; e in Francia, in fondo, la voce grossa con gli americani paga a destra e sinistra. Restano l’onta e la commessa miliardaria persa.
La verità è che gli americani e gli australiani hanno fatto una sciocchezza in termini di gestione dei rapporti: i diplomatici francesi a Washington ripetono da giorni di aver sospettato qualcosa nei mesi passati e di aver chiesto chiarimenti che non sono mai arrivati. Per chiarezza, pare che anche nell’accordo di vendita di sottomarini francesi a Canberra ci fossero dei buchi: il costo della commessa era cresciuto con il passare dei mesi e questo scontentava gli australiani, che con i sottomarini americani ricevono mezzi a propulsione nucleare, cosa che quelli francesi non sarebbero stati nonostante anche Parigi abbia a disposizione la stessa tecnologia.
La Francia poi sente di aver subito un colpo anche perché ritiene e percepisce se stessa anche come una potenza regionale del Pacifico. Si tratta, a dire il vero, di una visione discutibile: Parigi ha 7mila soldati e possiede dei territori (Nuova Caledonia e Polinesia) che fanno parte del Pacific Islands Forum, ma gli interessi australiani e statunitensi hanno altro peso.
Per ricomporre lo strappo non basterà una telefonata ma quella intanto si farà. Le diplomazie dei due Paesi stanno lavorando e i francesi ribadiscono che il tema non è il contratto ma il modo in cui si è svolta la vicenda. Un portavoce del Governo francese ha spiegato che Macron vuole “chiarimenti” da Biden sulla cancellazione dell’accordo sui sottomarini, ma vuole anche discutere di una compensazione per la Francia.
Ricucire non sarà semplice e un tema su cui Biden potrebbe offrire qualcosa di simbolico potrebbe proprio essere quello del ruolo francese nel Pacifico.
Naturalmente la vicenda non è importante solo per Parigi, ma per aiutare a leggere quali siano le priorità americane oggi e se la retorica bideniana sull’America è tornata, siamo di nuovo al fianco dei nostri alleati storici presi a schiaffi da Trump. Al momento il quadro è contraddittorio. Il ritiro dall’Afghanistan è un caso, in fondo, ben più grave di un contratto di vendita. Anche a Kabul gli Stati Uniti hanno agito per conto loro e senza aver cura delle preoccupazioni e richieste degli alleati che hanno dovuto anche loro smobilitare in fretta e furia sulla base di un’agenda dettata dalla improvvisa fretta di Washington.
Le discussioni sulla difesa comune che sono seguite in sede sono il segno di un terreno che sta smottando. Sulla scia del ritiro dall’Afghanistan, persino la posizione della Ministra della Difesa tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer è cambiata. Se in passato aveva frenato la spinta macroniana all’autonomia militare europea, dopo Kabul ha scritto che è l’ora di rendere “l’Unione europea un attore strategico con cui fare i conti”. La fortuna americana, per adesso, sono gli egoismi e i nazionalismi europei con i quali chiunque parli di progetto di Difesa comune deve fare i conti. Ciò detto, per adesso gli europei non sembrano intenzionati a seguire Parigi in questo alzare i toni. In Germania si vota tra una settimana e diversi Paesi avrebbero qualcosa da ridire anche su alcune scelte e comportamenti unilaterali francesi (in Africa o in Libia, ad esempio).
Sebbene dopo Trump il tono americano sia cambiato e alcuni passi di riavvicinamento concreto siano stati fatti – i passi in sede Wto sulla disputa Boeing-Airbus, l’assenso Usa al Nord Stream 2 che aggira l’Ucraina – non sono mancate le scelte unilaterali. Tra queste quella simbolica e unilaterale che impedisce ai cittadini europei, anche vaccinati, di entrare negli Stati Uniti. Ci sono partite generali sulle quali l’unità di intenti è ancora forte, ad esempio la volontà di portare a casa risultati concreti alla COP26 di Glasgow il prossimo autunno. Ma in un mondo che cambia e con Washington ossessionata dalla Cina, il legame storico con l’Europa si complica. E le scelte come quella dei sottomarini non sono destinate a migliorare il quadro. Vedremo nei prossimi mesi se e come Blinken avrà la capacità di correggere la rotta o se i destini americano ed europeo, se non a dividersi, siano destinati a essere meno intrecciati.
Che poi gli Usa e l’Australia ritengano che la strada per contenere la diplomazia del “Lupo guerriero” (che prende il nome da un film di cassetta cinese) sia riempire il Pacifico di sottomarini nucleari, è un’altra vicenda di cui preoccuparsi che non ha a che vedere con i contratti di export militare di Parigi.
Usa, le rivelazioni sul generale Milley scatenano una tempesta politica
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Lo Stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti lo ha fatto capire in più di un’occasione, ma adesso abbiamo la conferma: durante la presidenza Trump il timore di una guerra elettorale e per la tenuta democratica delle istituzioni era reale. A raccontarci il dietro le quinte delle preoccupazioni dei generali americani è “Peril”, l’ultimo libro di Bob Woodward, uno dei due giornalisti che rivelarono lo scandalo del Watergate, scritto in collaborazione con il collega del Washington Post Robert Costa.
La rivelazione più clamorosa contenuta nel libro è probabilmente quella relativa alla paura di una guerra con la Cina nell’imminenza delle elezioni o subito dopo, nelle settimane che separavano il giorno delle elezioni dall’uscita di scena di Trump. Per prevenire escalation pericolose, il capo di Stato Maggiore, il generale Mark Milley, fece “un paio di telefonate segrete” al suo omologo cinese, il generale Li Zuocheng, per rassicurarlo sul fatto che Washington non avrebbe colpito Pechino.
Le rivelazioni tratte dal libro
Secondo quanto riferito nel libro la prima telefonata risale al 30 ottobre 2020, quattro giorni prima delle elezioni, mentre la seconda è dell’8 gennaio, due giorni dopo l’assalto della folla trumpiana al Congresso al grido di “elezioni rubate”.
Nella prima chiamata, che avveniva nel contesto delle crescenti tensioni nel Mar Cinese meridionale e dalle origini della pandemia di coronavirus, Milley avrebbe detto: “Voglio assicurarvi che il Governo americano è stabile e che tutto andrà bene. Non attaccheremo o condurremo alcuna operazione cinetica contro di voi”. Secondo quanto riferito, Milley ha anche detto al generale cinese che lo avrebbe avvertito in caso di attacco. Nel secondo colloquio Milley avrebbe detto: “Siamo stabili al 100%. È tutto ok. Ma la democrazia a volte può essere confusionaria”.
Non c’è solo questo nel libro. Due giorni dopo l’attacco al Campidoglio e la mancata concessione della vittoria a Biden da parte di Trump, Milley convocò una riunione segreta nel suo ufficio del Pentagono per ripercorrere le tappe del processo istituzionale per l’azione militare, compreso il lancio di armi nucleari. Parlando con alti ufficiali militari incaricati del National Military Command Center, la sala di guerra del Pentagono, Milley intimò loro di non prendere ordini da nessuno a meno che non fosse coinvolto anche lui. “Non importa quello che vi viene detto, seguite la procedura. E io faccio parte di quella procedura”, avrebbe detto Milley prima di fare il giro della stanza guardando ogni alto ufficiale negli occhi e chiedendo loro di confermare verbalmente che avevano capito. “Chiaro?” Milley chiedeva, “Sissignore” rispondevano gli ufficiali e “Milley considerava la risposta un giuramento”, scrivono Woodward e Costa.
Le anticipazioni del libro – che uscirà martedì prossimo – sono diverse. Ribadiamolo, sono occhi e orecchie in luoghi chiusi, ma i militari avevano già segnalato pubblicamente la loro preoccupazione. Il 12 gennaio scorso tutti i componenti del Joint Chief of Staff, 8 generali, uno per corpo più il capo, Milley, avevano firmato una lettera pubblica ai militari nella quale indicavano che le elezioni si erano svolte correttamente e che compito dell’esercito è stare fuori dalle dispute politiche e garantire la transizione senza intoppi. Milley aveva già avuto un duro alterco con il Presidente quando questi gli chiedeva di usare l’esercito contro le proteste di Black Lives Matter; lo stesso generale, si era scusato con il pubblico americano per aver accompagnato il Presidente nella passeggiata con la Bibbia davanti alla chiesa di Washington DC sgomberata dalla polizia il primo giugno 2020.
Nel libro scopriamo anche di come diversi membri dell’amministrazione Trump cercarono di dissuadere l’ex Presidente dal denunciare le frodi di cui non si aveva prova ed espressero preoccupazioni (ma in privato). A sostenere Trump nel suo delirio furono invece figure di ritorno come Steve Bannon, mentre il vicepresidente Mike Pence cercava di spiegargli di non avere il potere di non certificare il risultato elettorale (cosa che avveniva appunto il 6 gennaio, durante l’assalto a Capitol Hill). Il libro riporta gli scambi tra Pence e Trump (“Ho sbagliato a sceglierti, hai il potere di farlo – non certificare i risultati”) e la richiesta di consulenza che Pence fece all’ex vicepresidente di Reagan Dan Quayle. Pence chiese ripetutamente se c’era qualcosa che poteva fare. “Mike, non hai flessibilità. Nessuna. Zero. Lascia perdere”, gli disse Quayle che di fronte alle pressioni del vice di Trump – “Non sai la posizione in cui mi trovo” – rispose: “La conosco e conosco anche la legge. Devi certificare quel che il Congresso dice. Il tuo compito è quello. Non hai altri poteri”.
Negli ultimi suoi libri – questo è il terzo solo su Trump – Woodward è sembrato talvolta andare sopra le righe, fornire versioni discutibili e forse non tutto quel che è scritto in “Resist” è oro colato. Due cose però sono certe e il libro le conferma: i generali statunitensi erano davvero preoccupati che la democrazia fosse in pericolo e il 6 gennaio c’è stato davvero qualcosa che somigliava a un colpo di Stato da parte di un Presidente pericoloso e instabile. L’altra cosa che sappiamo è che fino a quando il Grand Old Party vivrà all’ombra di Trump, quel pericolo non sarà del tutto passato.
In California si vota per rimuovere il governatore
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Martedì si vota per la possibile destituzione del governatore democratico della California Gavin Newsom. Il voto di recall per il governatore non è una novità né una stranezza: negli Stati Uniti si possono destituire attraverso la raccolta di firme e un voto popolare successivo quasi tutte le cariche elettive locali (non quelle federali).
In California sono state raccolte quasi due milioni di firme dopo che un giudice ha consentito al prolungamento della durata della petizione. Si tratta di un referendum Sì o No e, poi, della possibilità di scrivere il nome del sostituto; i candidati sono un centinaio e il paradosso di un regolamento mal scritto è che in caso di vittoria dei Sì, il primo tra questi, qualsiasi numero di voti prendesse, diverrebbe governatore. La discussione sul come modificare la legge è uno dei temi di questa campagna: solo nell’anno in corso l’avvio di petizioni in altri Stati ha riguardato 20 eletti, ma il basso numero di firme necessario in California ha reso questa l’unica petizione a giungere al passo successivo, quello del voto.
Le motivazioni dietro il voto di recall
Grazie a questo prolungamento e alla stanchezza da misure anti Covid prese da quello che è stato uno dei primi a imporre chiusure e lockdown, la raccolta delle firme è andata a buon fine. Poi sono venuti gli incendi estivi, la crisi abitativa nelle grandi città, una questione endemica accentuata dalla pandemia e le difficoltà per le piccole imprese della ristorazione e non solo, la variante Delta. E così quello che per i democratici doveva essere un voto importante ma tranquillo è divenuto problematico.
Intendiamoci, Gavin Newsom è il favorito a rimanere governatore dello Stato più ricco e popoloso, i sondaggi danno un ampio margine di vantaggio ai No. Ma comunque i dem non dormono sonni tranquilli. Queste sono le settimane dell’Afghanistan e del primo scivolone di Joe Biden nei sondaggi; l’agenda economica del Presidente è bloccata dalle rimostranze del senatore della West Virginia Joe Manchin, che con il suo voto è in grado di bloccare ogni iniziativa legislativa, la variante Delta ha reso la ripresa meno sostenuta di come si prevedesse. Una sconfitta nello Stato democratico per eccellenza sarebbe un terremoto politico. Per tutte queste ragioni i pezzi da novanta del partito, a partire dalla vicepresidente Harris, che viene dalla California, sono corsi a fare campagna. Il Presidente Biden è atteso oggi (lunedì). Il voto californiano apre una breve stagione elettorale che prevede anche la scelta dei governatori di Virginia e New Jersey, voto previsto il 2 novembre con un lungo periodo di voto in anticipo e per posta. In entrambi gli Stati il governatore uscente è un democratico. Si tratta di elezioni importanti perché sono in qualche modo un test sulla tenuta del partito di Biden dopo un anno di Governo e a un anno dalle elezioni di metà mandato.
Il dibattito elettorale
Ad animare il dibattito elettorale ci sono naturalmente le questioni locali, ma anche i grandi temi nazionali. Per i democratici la parola d’ordine è parlare di Trump e del suo possibile ritorno e la nuova crociata anti-abortista, che in uno Stato liberale come la California è certo un argomento forte. Il partito di Biden userà, non a torto, la legge medievaleggiante approvata in Texas e la sua validazione da parte della Corte suprema come uno spauracchio. Funzionerà per mobilitare quelle donne che nel 2020 hanno votato in larga maggioranza per il Presidente in carica?
Sul fronte opposto, i repubblicani mettono le mani avanti: se Newsom dovesse vincere “è perché i democratici truccano le elezioni”, ha detto Larry Elder, il repubblicano con più gradimento nei sondaggi che testano i candidati a un’eventuale sostituzione di Newsom. Usando l’argomento “elezioni rubate” persino prima di perdere, Elder, un radio host conservatore con una storia di uscite infelici su donne, ambiente e Covid, ricalca il modus operandi di Trump e contribuisce ulteriormente a screditare il processo elettorale e democratico. Ma è un messaggio che funziona? Forse colpisce e mobilita una parte della società statunitense, ma non pare un argomento in grado di conquistare consensi. Allo stesso modo non sembra funzionare l’argomento “se verrò eletto cancellerò tutte le restrizioni e gli obblighi da Covid imposti da Newsom”.
Dopo l’introduzione del vaccino obbligatorio per alcune categorie deciso a livello statale, la popolarità del governatore è cresciuta, non diminuita. A fidarsi dei sondaggi, tutto dovrebbe andare liscio per i democratici. Per sapere se le rilevazioni a campione hanno funzionato non resta che osservare quanta gente si recherà alle urne e, poi, martedì a notte fonda (o mercoledì mattina) conoscere il risultato di questo test elettorale americano.
In Messico la Corte Suprema ha votato una sentenza storica
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“È incostituzionale criminalizzare completamente l’aborto. Per la prima volta, la Corte si è pronunciata a favore della garanzia del diritto delle donne e delle donne incinte di decidere, senza affrontare conseguenze penali”. Il tweet dell’account della Corte Suprema federale del Messico è inequivocabile e spiega in poche parole la sentenza storica per il Paese latinoamericano. Una sentenza che ha visto il parere unanime di tutti e dieci i giudici che siedono nell’alta Corte e che ordina allo Stato settentrionale di Coahuila di rimuovere le sanzioni per l’aborto (da uno a tre anni di carcere) dal suo codice penale. In seguito alla sentenza tutti gli altri Stati messicani dovranno rimuovere qualsiasi forma di pena o sanzione.
La sentenza è storica perché il Messico è un Paese cattolico praticante (82% della popolazione) dove la Chiesa ha giocato un ruolo storico e politico importante e dove la violenza nei confronti delle donne è un tema drammatico da anni. La sentenza è, in qualche modo, anche politica perché regola quello che i singoli Stati possono fare ed è, appunto, una risposta a quelle autonomie locali che hanno legiferato in materia di interruzione della gravidanza per ragioni politiche (un po’ come avviene negli Stati Uniti si legifera su quando cominci la vita).
C’è qualcosa di politico anche nella argomentazione del Presidente della Corte Arturo Zaldívar, che ha scritto: “La criminalizzazione dell’aborto punisce le donne più povere, le più emarginate, le dimenticate e le più discriminate del Paese. È un crimine che nella sua natura punisce la povertà”. Già, perché come in Italia un tempo e come in tutta l’America Latina oggi, l’alta borghesia è perfettamente i grado di pagarsi le spese per un’interruzione di gravidanza in una clinica privata messicana o statunitense, mentre le stesse donne che subiscono con più frequenza la violenza maschile, sono anche le stesse che non possono prendere decisioni sul loro corpo. Ogni anno centinaia di donne latinoamericane muoiono a causa di aborti clandestini e decine di migliaia vengono curate per complicanze a questi legate. Come ovunque nel mondo, l’interruzione di gravidanza si pratica diffusamente che questa sia legale o illegale, la differenza è il livello di sicurezza e dignità della persona nel quale questa viene praticata.
La decisione è anche il frutto di una pressione popolare. Il parere dell’opinione pubblica è mutato in pochi mesi (da 29% a 48% favorevoli tra gennaio 2020 e 2021) e negli ultimi anni le proteste dei movimenti femministi si sono fatte sentire, contro la violenza di genere così come per il diritto all’aborto. L’onda verde, chiamata così per i fazzoletti verdi portati in piazza dalle donne per prime in Argentina, ha così ottenuto il suo secondo successo.
L’importanza della decisione della Corte Suprema messicana non è solo nazionale. Fino allo scorso anno, in America Latina solo l’Uruguay e Cuba, oltre che la capitale federale Città del Messico e gli Stati di Oaxaca, Hidalgo e Veracruz non perseguivano l’aborto. Come i lettori probabilmente sapranno, in Salvador si finisce in carcere, mentre in Cile è possibile praticare l’interruzione di gravidanza in caso di violenza o pericolo per la salute della madre. In Nicaragua, Honduras, El Salvador, Repubblica Dominicana, Haiti e Suriname l’aborto è vietato in ogni caso.
Lo scorso anno e, appunto, sulla spinta di quella che venne definita “marea verde”, anche il Congresso argentino aveva votato una legge storica. Tanto più storica perché votata nel Paese di Papa Francesco – che aveva reso note la sua contrarietà. Dopo quel successo è stata la volta delle messicane: decine di migliaia di donne hanno portato le bandane verdi in piazza chiedendo la depenalizzazione dell’aborto.
È inutile dire che fa un certo effetto vedere come in Messico la Corte Suprema scelga di tutelare i diritti delle donne cancellando la legislazione di uno degli Stati che puniscono l’interruzione di gravidanza mentre dall’altra parte della frontiera la Corte di Washington mette i diritti del Texas davanti a quelli delle donne. La decisione della Corte statunitense avrà probabili conseguenze politiche ed elettorali – ma non ne parliamo qui – e allo stesso modo la decisione messicana avrà effetti sul dibattito pubblico negli Stati Uniti: “Una grande notizia in un momento in cui i diritti delle donne stanno subendo preoccupanti battute d’arresto. La maggioranza della Corte Suprema (USA) dovrebbe leggere la decisione di quella del Messico che depenalizza l’aborto”, scrive su Twitter Macarena Saez Torres, che dirige il dipartimento per i diritti delle donne di Human Rights Watch, mentre un comunicato di Paula Avila-Guillen, avvocato del Women’s Equality Center, mette in luce un paradosso: “Il modo più sicuro per le donne texane di avere accesso a un aborto sicuro e legale potrebbe presto essere quello di andare in Messico”.
Il vaccino è di destra o di sinistra?
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Nell’anno di grazia 2000 l’assemblea legislativa della Florida passava una legge che eliminava l’obbligo di portare il casco per i motociclisti. L’allora governatore Jeb Bush, lo stesso che di fronte a Donald Trump appariva come un ragionevole e moderato candidato alla presidenza, firmava la legge sulla base dell’idea che gli individui, lasciati liberi di scegliere, agiscano nel loro interesse e che la politica non abbia come compito quello di regolare la vita delle persone. La Florida arrivava dopo altri Stati, tornati indietro rispetto alla legislazione che imponeva il casco obbligatorio. Uno studio pubblicato dall’American Journal of Medicine nel 2009 raccoglieva i dati relativi alla relazione tra l’abolizione del casco obbligatorio e il numero di motociclisti morti in strada, un grafico mostra la correlazione tra meno regole e più morti in maniera così efficace che la capirebbe persino il più ottuso dei complottisti no vax dalla cantina dove passa il tempo a pubblicare meme improbabili e notizie false sui vaccini e i microchip di Bill Gates.
Capire il dibattito anti vax negli Stati Uniti dovrebbe partire da qui per una ragione semplice: quel Paese ha un’idea delle istituzioni e delle regole diversa dalla nostra. Per quello, ad esempio, i repubblicani possono fare propaganda contro un’assicurazione sanitaria pubblica come qualcosa di “sovietico”. È un’esagerazione insensata ma pesca in una certa idea di America. E così, i repubblicani, divenuti i paladini della responsabilità individuale come contrapposta a quella collettiva e alle regole imposte dal centro, sono i campioni della libertà di scelta in materia di vaccini e di tutte le altre regole relative al coronavirus – dalla chiusura dei locali, al divieto di raduno, fino all’uso delle mascherine. Il dibattito sulle regole è feroce e molto politico. Gli Stati che più si battono contro l’idea di regolare la vita delle persone per limitare la circolazione del virus sono la Florida e il Texas, i governatori hanno vergato di loro pugno ordini esecutivi che vietano l’obbligo di mascherina emanato da contee, città e distretti scolastici. Diverse assemblee statali a maggioranza repubblicana hanno votato la limitazione dei poteri dei governatori per impedire che questi impongano obblighi.
Il dibattito no vax negli Stati Uniti
Un paradosso: i governatori si oppongono a qualsiasi obbligo imposto dall’alto, ma impongono dall’alto alle contee di non imporre obblighi. Il potere della comunità di autoregolarsi, opposto a quello regolatore dello Stato centrale vale solo se conviene. Che Dick Farrel, radio host conservatore della Florida che aveva descritto Anthony Fauci come un “bugiardo affamato di potere” ed esortato la gente a non farsi vaccinare, o Scott Apley, un eletto del Texas anti vaccino, siano morti di Covid non sembra fare gran differenza.
Tra i no vax ci sono estremisti e dubbiosi. Gli estremisti sono spesso militanti della teoria del complotto come ne abbiamo visti tanti negli ultimi anni. Sono loro che diffondono notizie false, amplificano e distorcono quelle vere e rendono virali sui social media materiali discutibili ma presentati come scientifici. Questi sono spesso militanti attivi del MAGA (Make America Great Again), quella marea minoritaria e rumorosa che si getterebbe nel fuoco per l’ex Presidente Trump. Lo stesso tipo di gente che ha dato l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio. Gli stessi che a fine agosto hanno fischiato per un attimo Trump quando a un comizio in Alabama ha detto “siete liberi di fare quel che volete, ma io consiglio il vaccino”. Tra costoro ci sono quelli che hanno aggredito e chiamato “bastardo marrone” il direttore del Dipartimento per la Salute della contea di Saint Louis dopo che questi aveva dato il suo parere favorevole all’uso delle mascherine (il dottor Faisal Khan è di origine indiana).
I dubbi e le leggende sui vaccini non sono nuovi, i movimenti anti vax online si coordinano da anni. Le storie di medici minacciati o stalkerati in maniera organizzata non sono solo del 2020. Due date sono alla radice profonda delle teorie anti vaccini. Nel 1982 la Tv USA trasmise un documentario dal titolo “The vaccine roulette” che chiamava il vaccino DTP, obbligatorio, una roulette. All’epoca il numero di vaccinati calò vertiginosamente. Quel di cui sentiamo ancora parlare spesso è invece lo studio pubblicato da The Lancet nel 1998 nel quale il dottor Jeremy Wakefield metteva in connessione il vaccino MPR con l’autismo. Lo studio si rivelò falso, The Lancet fece ammenda e a Wakefield venne impedito di esercitare la professione. Ma l’onda lunga ebbe i suoi effetti e Google viene lanciata nello stesso anno dello studio di Wakefield, contribuendo al successo delle sue posizioni.
Gallup, che sonda l’opinione in materia da decenni, ci ricorda che nel 2001 il 94% degli adulti riteneva che fosse importante vaccinare i bambini, mentre nel 2019, prima del virus, la percentuale era calata di 10 punti (84%). Interessante anche questo numero: i più anziani e quelli senza figli sotto i 18 anni sono i meno dubbiosi. Sempre per parlare di politica, i repubblicani (77%) e i democratici (92%), c’è uno scarto di 15 punti. Come nota la sociologa Jennifer Reich nel suo “Calling the Shots: Why Parents Reject Vaccines” (NYUP, 2019) anche l’età delle madri conta. Più cresce e più crescono i dubbi: genitori giovani fanno con più frequenza quel che il medico prescrive loro, genitori over 30 e laureati hanno meno fiducia cieca nell’autorità e magari loro idee sulla salute e le medicine. Un’altra parte dei dubbiosi, in America, sono gli appartenenti alle minoranze. Non c’è da stupirsi, gli afroamericani sono stati oggetto di sperimentazione medica senza saperlo, dai tempi della schiavitù fino agli studi sulla sifilide durati per 40 anni nella contea di Macon, Georgia. Quando si venne a sapere dell’esperimento noto come Tuskegee study, la fiducia dei neri nel sistema medico calò per non tornare più.
La comunicazione sui vaccini
Nella vicenda Covid, possiamo dirlo, la comunicazione sui vaccini è stata un disastro e ha incoraggiato e favorito le teorie del complotto o più semplicemente i dubbi. Far partire la vaccinazione e poi frenare, aprire e chiudere a fasce d’età, l’epopea AstraZeneca, non hanno aiutato a rassicurare chi aveva dubbi o vede nell’obbligo vaccinale un modo per regalare soldi a Big Pharma.
Ed è proprio chi ha dubbi a dover essere rassicurato con informazioni chiare e coerenti e non dettate dall’urgenza di ottenere risultati e percentuali di vaccinati da sciorinare in conferenza stampa. I no vax ideologici o quelli complottisti non si convinceranno, ma gli altri forse sì. Una lunga intervista a un piccolo gruppo di dubbiosi tedeschi pubblicata da Deutsche Welle racconta questo tipo di perplessità: “Prendi tutto quel vai e vieni su AstraZeneca o sul mix di vaccini… Gli esperti e le agenzie erano contrari a mescolare e ora dicono il contrario. Sulla base di cosa? La scienza?”. Gli intervistati da Deustche Welle ci tengono a non essere descritti come lunatici fuori di testa.
Diverse sono le persone che chi scrive ha visto sfilare a fine agosto a Montpellier contro il Green Pass e i vaccini. I francesi hanno anche loro un culto religioso della libertà e alcuni tra loro vedono l’obbligo del pass come una violazione dei loro diritti costituzionali. Altri se la prendono con Big Pharma e altri ancora sono convinti di essere parte di un progetto pericoloso. C’è chi vuole “difendere i bambini” dalla vaccinazione obbligatoria, una signora nega che sia in corso una crisi sanitaria e un’altra parla di lotta contro “un sistema mafioso”. Nel complesso hanno l’aria di essere la somma di quelli che qui chiamavamo grillini e di persone di destra – diversi portano il tricolore francese. Anime diverse, idee diverse, complotti diversi. Loro sarà difficile convincerli, ma Macron, che con i Jilet Jaunes tentennò parecchio, contro i no vax ci è andato duro. Si vede che i sondaggi che ha in mano indicano una forza relativa di queste idee.
Il problema, negli Usa come in Europa, è che sono rumorose e che la loro presa relativa rende più complicato uscire dalla pandemia. La libertà di non portare il casco, fumare all’aperto, curare una malattia grave con infusi di lucertola riguarda gli individui, i virus e i vaccini riguardano tutto il gregge.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Usa: ritardi della Casa Bianca sul blocco degli sfratti
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Con un voto di 5-4 alla fine di giugno, la Corte Suprema ha permesso all’ampio divieto di sfratto di continuare fino alla fine di luglio. Il giudice Brett Kavanaugh che ha scritto il parere finale, ha chiarito che bloccherà qualsiasi ulteriore estensione a meno che non ci sia una “chiara e specifica autorizzazione del Congresso”. L’idea insomma, era quella che il Congresso avrebbe agito. Del resto, tra le misure anti-crisi da Covid-19 approvate nei mesi scorsi c’è anche lo stanziamento di fondi per sostenere le famiglie che non riescono a pagare l’affitto. Ci sono 45 miliardi da distribuire, ma la burocrazia statale e la mancanza di informazioni per quelle famiglie che vivono ai margini – e che dunque non hanno fatto domanda o hanno sbagliato a fare le pratiche – hanno complicato l’utilizzo di quei fondi. A oggi ne sono stati distribuiti solo tre miliardi. Una nuova moratoria servirebbe a far arrivare quelle risorse nelle tasche di affittuari e proprietari.
Sfratto esecutivo per circa 3,6 milioni di persone
Le cifre su quanti sono effettivamente a rischio di vedersi recapitare un avviso di sfratto divergono, ma sappiamo che già prima della crisi c’era un bacino di circa 20 milioni di persone che pagava di affitto più di un terzo del proprio reddito e che, dunque, non ha paracadute in caso di perdita di lavoro o taglio delle ore lavorate. Poi è arrivata la pandemia. Alla fine di marzo, 6,4 milioni di famiglie erano in ritardo con l’affitto. E al 5 luglio, circa 3,6 milioni di persone sono in attesa di sfratto esecutivo – un numero che è la media di sfratti annuale tra 2000 e 2016 – anche a causa della mancanza cronica di abitazioni a prezzo contenuto. Anche per questo Biden vorrebbe reperire le risorse per costruirne: basta una crisi di qualsiasi tipo per far finire sul lastrico decine di migliaia di famiglie.
I dati raccolti a Boston, Baltimora, Milwaukee, Cleveland indicano come la maggior parte di coloro a rischio di sfratto provengano dalle comunità nera e latina. Si tratta di impiegati in quei settori più danneggiati e colpiti dalle chiusure imposte dalla pandemia (pulizie in uffici, trasporti, ristoranti e fast food, sorveglianza).
A queste persone basta saltare uno o due stipendi, cosa avvenuta con il Covid, per bruciare il sottile cuscinetto di risparmi che avevano e ritrovarsi a non poter pagare. Nei mesi, tra l’altro, si sono accumulati debiti e la fine della moratoria implica di doverli pagare, non solo di dover riprendere a versare gli affitti futuri ogni mese. Nel 43% dei casi queste famiglie hanno figli minorenni.
Anche i padroni di casa non se la passano necessariamente bene. Il 40% tra loro è proprietario di una seconda casa che gli serve per far quadrare i conti o su cui sta pagando un mutuo. Spesso sono pensionati.
Il Congresso è in pausa estiva, alcuni Stati prendono l’iniziativa
Le nubi all’orizzonte stanno peggiorando il clima in casa democratica. La Casa Bianca ha aspettato ad affrontare la questione e pochi giorni fa ha chiesto al Congresso di agire. Ma il Parlamento USA è in pausa estiva per tutto agosto. Per questo, alcuni membri della Camera e della sinistra del partito di Biden, tra cui Ocasio Cortez e Cori Bush, già senza tetto a causa di uno sfratto, stanno picchettando le scale di Capitol Hill giorno e notte. Chiedono alla Camera di riconvocarsi e votare un’estensione del blocco degli sfratti. Se davvero con l’autunno assisteremo a decine di migliaia di persone cacciate da casa, la polemica e lo scontro politico in casa democratica si inaspriranno. La sinistra sta già incassando il compromesso tra senatori moderati democratici e repubblicani sulle infrastrutture e vuole vedere approvate misure che difendano gli ultimi. Il leader della maggioranza del Senato, Chuck Schumer e il senatore dell’Ohio Sherrod Brown, stanno lavorando a un testo di legge e chiederanno ai repubblicani di non bloccarlo.
Nel frattempo, per fortuna, una serie di Stati hanno approvato una loro moratoria. Tra questi California, Hawaii, Illinois, Minnesota, New Jersey, New Mexico, New York, Washington, tutti governati dai democratici.
Anche negli Usa la questione dei vaccini è politica
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Polemiche astruse e teorie balzane false sui vaccini, conflitti di competenza e casi in aumento. Se il successo dell’avvio della campagna vaccinale aveva fatto sperare l’amministrazione Biden di essersi messo il Covid-19 alle spalle, l’estate 2021 è un brusco risveglio. Come del resto nella maggior parte del mondo sviluppato che a fine maggio aveva la stessa sensazione.
La scorsa settimana il numero medio di vittime da virus è cresciuto, molto lentamente, così come il numero di persone ricoverate. All’inizio del mese la media dei nuovi casi settimanali era attorno ai 13mila, mentre la scorsa settimana erano quasi 60mila. La Florida, un esempio estremo, non ha mai avuto un numero così alto di ospedalizzati. Il problema – come stupirsi? – sono i vaccini. Non nel senso che uccidono o non funzionano, ma nel senso che il numero di persone che si reca nei centri a farsi vaccinare è in brusca frenata: tra il 22 maggio e il 22 giugno il numero di persone che avevano completato il ciclo era cresciuto del 10%, nel mese successivo del 2%. Negli Stati dove il numero di vaccinati è più basso – Florida, Arkansas, Missouri, Mississippi, Louisiana, Nevada – il numero di ospedalizzazioni cresce a ritmi più alti che altrove.
Come altrove e come in Italia, il paradosso è che il tema e le divisioni sono anche e molto politiche. Il New York Times racconta della contea di Shreveport, in Louisiana, uno dei cluster della variante Delta che rischia di divenire un problema per il resto del Paese, dove i funzionari della Sanità devono contrastare la pandemia di balle sui vaccini: l’amministrazione Biden starebbe schedando i non vaccinati porta-a-porta e i vaccini sono una terapia sperimentale sul dna che ha già ucciso migliaia di persone, si racconta alle manifestazioni che per semplicità chiameremo no vax. Il sindaco della città ha annunciato il ritorno dell’obbligo di mascherina. A inizio luglio, nelle contee dove Biden ha vinto le elezioni il tasso di vaccinazione era del 46,7%, l’11% in più di quelle dove ha vinto Trump. Nei sondaggi, tra i democratici la contrarietà e i dubbi sui vaccini sono al 18%, tra i repubblicani superano il 40%.
“È una pandemia tra i non vaccinati”, ha detto Anthony Fauci alla CNN. “È come se ci fossero due Americhe. C’è la parte non vaccinata molto vulnerabile e c’è la parte vaccinata relativamente protetta”. Vaccinazioni e regole da rispettare sono però un tema politico.
Almeno 15 assemblee legislative statali hanno approvato – o hanno in programma di farlo – leggi che impongano limiti su quello che le autorità sanitarie o i governatori e sindaci possono o non possono fare per contenere la pandemia. In Montana si è vietata la quarantena, mentre in North Dakota si vieta l’uso obbligatorio di mascherina. Come evidente si tratta di scelte eminentemente politiche basate sull’idea che le autorità pubbliche non hanno il diritto di limitare le libertà individuali in nessun modo e per nessuna ragione. Negli stessi Stati, naturalmente, viene punito il possesso di eroina, il fumo nei locali o è obbligatorio l’uso della cintura di sicurezza. Le libertà individuali, la paura che le autorità superino i limiti democratici nell’imporre regole e restrizioni, pure un tema serio, sono una foglia di fico per politicizzare lo scontro sul Coronavirus e generare consenso tra chi non vuole regole o rifiuta di farsi vaccinare.
Le leggi approvate in questi Stati sono il prodotto di un lavoro di gruppi e think tank conservatori che forniscono agli eletti repubblicani leggi modello da adattare ai contesti locali. Tra questi c’è l’ALEC, American Legislative Exchange Council, una struttura che negli anni ha prodotto i modelli di legge che consentono la legittima difesa “estrema” (le leggi stand your ground), che impongono restrizioni al voto e rendono più difficile il lavoro dei sindacati. Lo scontro è anche con alcuni governatori repubblicani che prendono decisioni per contrastare la pandemia e hanno la necessità di mantenere il consenso in Stati dove la forza del partito di Trump non è tale da rendere qualsiasi loro azione ininfluente dal punto di vista elettorale. La preoccupazione per la situazione tocca anche i vertici repubblicani: giorni fa il leader della minoranza del Senato, Mitch McConnell, ha invitato gli americani a vaccinarsi, lo stesso ha fatto la governatrice dell’Alabama Ivey. Persino il governatore della Florida De Santis, che ha fatto della “libertà” una bandiera nei primi mesi della pandemia, ha invitato a vaccinarsi. D’altro canto, i più trumpiani ed estremi tra i legislatori repubblicani mantengono le loro posizioni lunatiche e le loro voci sono una presenza fissa nei circuiti mediatici conservatori.
Usa: c’è la Cina dietro il cyberattacco a Microsoft
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Un giorno dopo la diffusione della vicenda Pegasus da parte di 17 testate di tutto il mondo, una nuova bomba legata alla sicurezza digitale agita il pianeta. Gli Stati Uniti hanno infatti accusato il Governo cinese di hackeraggio nei confronti di imprese americane. L’attacco più clamoroso e grave è quello avvenuto contro Microsoft Exchange il 2 marzo 2021 e nei giorni successivi quando oltre 30.000 organizzazioni sono state attaccate utilizzando le vulnerabilità dei server Microsoft per accedere agli account di posta elettronica e installare malware in grado di consentire ai criminali informatici un accesso amministrativo continuo ai server delle vittime dell’attacco.
Quella vicenda era già stata imputata ai cinesi, ma non direttamente al Governo. Adesso Washington arriva a dire che “il Governo cinese mette sotto contratto bande di criminali per condurre operazioni a livello planetario, anche a scopo di lucro (dei criminali stessi). Queste operazioni vanno dal furto, al ricatto, all’estorsione” – queste le parole di un anonimo funzionario Usa nella conference call con giornalisti. Pechino, insomma, utilizza criminali comuni per danneggiare le imprese di altri Paesi.
Questa denuncia pubblica è parte di una campagna condotta dagli americani con diversi alleati anche essi vittime di attacchi (l’Europa, la Gran Bretagna, il Giappone, l’Australia). Non è la prima volta che Washington denuncia questo tipo di azioni da parte cinese; la novità è l’azione collettiva, una scelta che fa chiaramente parte delle linee strategiche dell’amministrazione Biden in tema di politica estera. Washington vuole disperatamente fare fronte comune con gli alleati contro Pechino e su temi come questi cyber attacchi trova un fertile, mentre sul commercio rischi di trovare una compagnia meno compatta.
“La compromissione e lo sfruttamento del server Microsoft Exchange hanno minato la sicurezza e l’integrità di migliaia di computer e reti in tutto il mondo”, ha detto il Consiglio dell’Unione europea in una dichiarazione. “Questo comportamento irresponsabile e dannoso ha provocato rischi per la sicurezza e una significativa perdita economica per le nostre istituzioni governative e aziende private e ha mostrato significative ricadute ed effetti sistemici per la nostra sicurezza, economia e società in generale”.
L’alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell, ha diffuso una dichiarazione dicendo che l’hacking viene “condotto dal territorio della Cina allo scopo di furto di proprietà intellettuale e spionaggio”, mentre il Ministro degli Esteri britannico Dominic Raab ha detto che le azioni di Pechino rappresentano “un modello di comportamento sconsiderato ma familiare”. “Il Governo cinese deve porre fine a questo sistematico sabotaggio informatico e può aspettarsi di essere ritenuto responsabile se non lo fa”, ha detto Raab in una dichiarazione.
L’attacco a Microsoft Exchange era stato immediatamente identificato come proveniente dalla Cina. Gli Stati Uniti avevano precedentemente accusato hacker al soldo di Pechino ma stavolta l’accusa è diretta al Governo. Il che significa innegabilmente alzare i toni dello scontro con il concorrente (il competitor, lo definiscono gli Usa, non un nemico).
“In alcuni casi, siamo consapevoli che operatori informatici affiliati al Governo [della Repubblica popolare cinese] hanno condotto operazioni ransomware contro aziende private che hanno incluso richieste di riscatto di milioni di dollari”, ha detto il funzionario.
Un alto dirigente di Microsoft che si occupa di sicurezza, Tim Burtu, ha elogiato la scelta di rendere pubblica l’accusa: “La trasparenza è fondamentale se vogliamo combattere i cyberattacchi contro individui, organizzazioni e nazioni il cui numero è in crescita in tutto il pianeta”.
Separatamente, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha incriminato quattro individui che ha detto che hanno lavorato per l’intelligence cinese per l’hacking in aziende nel tentativo di rubare proprietà intellettuale e informazioni riservate, e poi condividendo tali informazioni con le imprese cinesi.
Il 2020 è stato un anno particolarmente complicato per la sicurezza informatica perché il lavoro da casa di milioni di persone ha reso lo scambio di informazioni tra imprese e dipendenti (o funzionari pubblici) meno sicuro. Naturalmente, ricordiamolo, anche gli Usa hanno i loro scheletri nell’armadio: la vicenda di Pegasus, il software di sorveglianza utilizzato per spiare e raccogliere informazioni di figure pubbliche, oppositori (o lo stesso Jamal Khashoggi) ci hanno infatti immediatamente ricordato di Prism, il programma di spionaggio svelato da Edward Snowden nel 2013. Certo, la differenza in questo caso è l’utilizzo di criminali cibernetici per scopi che sono anche di lucro e competizione economica.
L’obiettivo non sembra solo quello di raccogliere informazioni riservate, ma di generare caos e competere con strumenti inappropriati, saltando quando possibile il processo di ricerca e sviluppo. Si tratta di una strategia simile a quella usata da Mosca in questa fase. Ma la Russia è meno focalizzata sull’economia e più sul caos.
Naturalmente Pechino nega, condanna i cyberattacchi e parla di “accuse infondate”. Quel che sappiamo è che queste cyber guerre stanno divenendo un fronte cruciale della competizione economica e strategica e che gli attacchi e i furti di dati del 2020 sono destinati a moltiplicarsi. Non si tratta solo di competizione o furto di dati sensibili, le reti elettriche e idriche, quelle dei trasporti e così via, oggi funzionano grazie a server che vanno protetti. È una guerra senza missili ma può lo stesso fare danni enormi.
Usa: caccia all’informatore – L’inchiesta [Parte 3]
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Negli Stati Uniti vige il culto della libertà di espressione. Il primo emendamento alla Costituzione, adottato nel 1791 come parte della Bill of Rights recita: “Il popolo non sarà privato o limitato nel suo diritto di parlare, scrivere o pubblicare i suoi sentimenti; e la libertà di stampa, come uno dei grandi baluardi della libertà, sarà inviolabile”. Nei decenni, la Corte Suprema ha posto dei vincoli relativi, ad esempio alla pedo-pornografia o a quello che chiamiamo discorso d’odio (hate speech), ma difficilmente in altre democrazie avanzate sentirete fare, specie ascoltando le talk radio, discorsi estremi quali ne ascoltate negli Usa senza che ci siano conseguenze legali. In questo senso la libertà di stampa e di informazione non corre pericoli in America, al panorama mediatico vario, ricco e spesso di qualità, si affianca una galassia di radio, canali Tv, siti ultra conservatori e veicolo di tonnellate di fake news e/o di una retorica potenzialmente dannosa per la democrazia. Ma non, appunto, per la libertà d’espressione.
I limiti alla libertà di parola
Le libertà violate e i vincoli alla libertà dei media di fare giornalismo sono altri e più complessi della semplice repressione, non siamo nel Myanmar e neppure in Ungheria. Con una novità recente: l’uso di un eccesso di brutalità e di arresti fatti con troppa leggerezza nei confronti di giornalisti che coprono le proteste. Il Press Freedom Tracker documenta gli episodi che coinvolgono in qualche modo i rappresentanti dei media (arresti, violenze, violazioni di altro tipo) e segnala che nel 2020 sono state arrestate 139 persone, mentre dal 2017 sono in totale 205. Nell’anno delle proteste contro il razzismo istituzionale, gli incidenti che coinvolgono rappresentanti dei media in qualche forma sono stati 500, la media degli anni precedenti era 150. Delle 114 aggressioni fisiche segnalate, il 60% venivano da rappresentanti delle forze dell’ordine. Un brutto e preoccupante record che non ha coinvolto solo giornalisti indipendenti ma anche, ad esempio, il corrispondente di The Independent Andrew Buncombe, messo a terra e legato alla maniera di George Floyd e poi detenuto per non aver obbedito all’ordine di disperdersi impartito dalla polizia di Seattle − che non si applica ai giornalisti a meno che non impediscano le operazioni di polizia.
“Anche nel 2021 assistiamo ad arresti di giornalisti al lavoro in strada. Tutti gli arresti o i fermi che abbiamo documentato finora quest’anno sono di giornalisti che coprono proteste legate alla giustizia sociale, che si tratti di Black Lives Matter o, come è successo a Los Angeles a marzo, contro lo sfratto di un campo di senza tetto. Dal punto di vista dei numeri, siamo purtroppo in linea con l’anno scorso”, precisa Kristen McKudden, di Press Freedom Tracker.
La retorica contro i giornalisti dei media mainstream usata dal Presidente Trump per quattro anni è divenuta luogo comune in certi ambienti. Secondo il database del Committee to Protect Journalists l’ex Presidente ha usato circa 550 dei suoi tweet per insultare, denigrare, dare del “nemico del popolo” ai giornalisti in genere o a singoli professionisti. Lo stesso avveniva spesso in sala stampa, con i portavoce del presidente che insultavano chi li incalzava. Il tono non cambiò neppure dopo che un uomo entrò nell’edificio della Capital Gazette di Annapolis e uccise 5 membri della redazione. Quelle parole ripetute nei comizi dal podio presidenziale hanno cambiato il clima generando atteggiamenti aggressivi da parte di eletti e forze dell’ordine. E così si sono moltiplicati gli episodi di giornalisti fotografati o identificati da poliziotti mentre facevano il loro lavoro e un rappresentante del Tennessee è arrivato a presentare un improbabile testo di risoluzione che indica CNN e Washington Post come fake news.
Esistono altri due temi controversi che hanno a che fare con la libertà di informazione e di espressione. Il primo riguarda la diffusione di notizie false e di discorsi d’odio attraverso i social media. Qui il discorso si capovolge e diviene: quali limiti alla libertà di parola possono venire imposti su media che non sono tali e che immaginano se stessi e sono luoghi virtuali privati? Una discussione giuridica e persino filosofica complicata. Per anni il fondatore e padrone di Facebook, Mark Zuckerberg ha usato la libertà di espressione come argomento per non chiudere pagine o bloccare utenti. Il parere di una commissione indipendente sulla sospensione di Donald Trump per due anni ha aperto la discussione contraria: il timore che un privato dalle dimensioni non convenzionali, come sono Facebook o Twitter, possa determinare come e quanto circola una informazione. Un dibattito nel quale esistono argomenti che pendono a favore o contro qualsiasi delle ipotesi possibili: la libertà di espressione americana, infatti, prevede discorsi “spiacevoli”, ma dovremmo almeno pretendere dalle piattaforme di sapere quali criteri e strumenti utilizzano per moderare e censurare le parole di qualcuno.
La caccia al whistleblower
La più complicata e importante questione relativa alla libertà dei media negli Stati Uniti è la caccia al whistleblower. Al momento più d’uno tra costoro è in carcere mentre alcuni sono fuggiti all’estero. Negli anni della Seconda guerra mondiale e nei decenni della Guerra fredda cresce l’ossessione per la segretezza dei programmi militari, di intelligence e così via e nel 1951, Harry Truman emise un ordine esecutivo che creava il moderno sistema di secretazione. Non sappiamo esattamente quante informazioni siano state secretate, ma si parla di decine di milioni di documenti ogni anno. Cosa significa questo? Che molte scelte importanti fatte dalle istituzioni Usa, che il pubblico dovrebbe conoscere, sono ignote a meno che qualche dipendente di un’agenzia non decida di passarle ai media. Il problema è che la diffusione di documenti riservati è un reato grave e che passarli ai media equivale per la legge a passarli a una potenza straniera (o per denaro). Ma se non ci fossero stati i whistleblowers non avremmo saputo del Watergate, di alcune stragi di civili in Iraq e Afghanistan, non della sorveglianza portata avanti dalla National Security Agency e rivelata da Edward Snowden e dichiarata incostituzionale da una corte federale nel 2020. Di recente, tra l’altro, grazie a fonti anonime danesi, abbiamo saputo che anche i servizi di Copenhagen cooperavano con la NSA quando questa teneva sotto controllo i leader e figure di spicco europee tra le quali Angela Merkel. Più di recente dobbiamo alle gole profonde la notizia del tentativo russo di interferire nel processo elettorale statunitense, sappiamo cosa si dissero il presidente Trump e il premier russo Zelenszky − una telefonata che ha portato al primo processo di impeachment − e sappiamo che i 25 miliardari più ricchi d’America non pagano un centesimo o quasi di tasse.
Come sappiamo − con l’eccezione di Chelsea Manning la cui sentenza è stata drasticamente ridotta da Obama − la caccia al whistleblower e al fondatore di Wikileaks, Juliane Assange, è una nuova ossessione dell’intelligence statunitense. Quanto al caso dei file dell’Internal Revenue Service (l’agenzia federale delle entrate), Charles Rettig, il commissario dell’IRS, ha detto, dopo la loro diffusione, che l’agenzia aveva aperto un’indagine per scoprire la fonte della fuga di notizie.
Il paradosso della segretezza americana sta nel fatto che il primo emendamento consente di pubblicare qualsiasi atto secretato una volta che se ne viene in possesso. Questo significa che i giornali che pubblicano i leaks non rischiano nulla se non una pressione feroce affinché rivelino le loro fonti, mentre chi passa i documenti è perseguibile e passibile di pene severissime.
Diverse campagne e organizzazioni per la difesa della libertà di stampa definiscono i whistleblowers eroi nazionali e chiedono che venga consentito loro di rientrare nel Paese (il caso di Edward Snowden) o che venga commutata la loro pena (il caso di Reality Winner). Altri, come l’ex presidente Trump, li chiamano traditori, spiegano che si “dovrebbe fare come ai vecchi tempi” (giustiziarli). Nel tentativo di individuare i “nemici del popolo” che durante i quattro anni di governo del leader repubblicano hanno creato più di un grattacapo e reso noto molto di quanto avveniva nelle caotiche riunioni di Casa Trump, l’ex presidente arrivò a costringere Apple a condividere i metadati dei rappresentanti Adam B. Schiff e Eric Swalwell, che svolsero il lavoro di istruttoria per il processo di impeachment, così come i dati di molti dei loro attuali ed ex collaboratori e familiari. Allo stesso modo si comportò con i giornalisti che pubblicavano rivelazioni sulla Casa Bianca ottenute da informatori interni. Un abuso di potere senza precedenti che ricorda − il mezzo è diverso, non servono più le microspie − il Watergate. Parlando con l’ex Capo della CIA Comey, l’ex Presidente sostenne anche che fosse il caso di imprigionare i giornalisti che pubblicano le notizie procurate dai whistleblowers. Sarebbe stato illegale, non è successo, ma questo resoconto fatto da Comey indica quanto gli Stati Uniti abbiano rischiato di scivolare verso uno Stato autoritario senza bisogno di cambiare la Costituzione.
Nel 2019 una serie di gruppi per i diritti civili ha scritto una lettera al Congresso in cui chiede di esonerare gli appartenenti alla intelligence community dal rischio di finire in carcere per spionaggio nel caso in cui passino informazioni riservate al Congresso stesso − altri dipendenti pubblici sono protetti dalla legge. In questo caso non si parla della libertà di stampa, sebbene spesso gli eletti, verificata l’importanza di una informazione la passano ai media. La American Civil Liberties Union (ACLU) chiede però che anche gli informatori che diffondono notizie importanti tramite i media vadano protetti. “Il Congresso dovrebbe permettere a coloro che sono accusati di aver violato la legge sullo spionaggio di poter produrre prove che la loro rivelazione è servita all’interesse pubblico. Questo piccolo cambiamento implicherebbe che i dipendenti pubblici che sono testimoni di misfatti si sentirebbero autorizzati a dire ciò di cui sono testimoni senza paura di ritorsioni”. ACLU non chiede di non andare a processo, ma di garantire alle persone che mettono a rischio la loro libertà di potersi difendere, ammettendo l’interesse pubblico come fattore che scagiona dal reato di spionaggio”. Il caso di Edward Snowden è clamoroso in questo senso.
Libertà d’espressione e Big Tech
La costante della presenza dei whistleblower nel panorama informativo Usa è un’anomalia che, come detto sopra, si spiega e giustifica con l’ossessione per la segretezza − un’ossessione che è divenuta crescente anche per le imprese Big Tech, che pure hanno problemi con le notizie diffuse anonimamente da dipendenti sdegnati dai loro comportamenti.
Ma torniamo al Primo emendamento, alla necessità o meno di censurare le fake news e alla necessità di produrre informazione di qualità in un panorama intasato da caccia al click, relativa mancanza di risorse per giornalismo investigativo e conseguente dipendenza dai whistleblowers. Lo storico Sam Lebovic, nel suo Free Speech and Unfree News: The Paradox of Press Freedom in America (2016), sostiene che la libertà d’espressione regolata dal primo emendamento sia inadeguata a produrre una stampa democratica in un’epoca definita dalla concentrazione dei media e dalla accresciuta ossessione per la segretezza da parte dello Stato federale. Affinché la libertà di informazione sia davvero effettiva, il problema non è censurare le notizie false, “un obiettivo donchisciottesco che potrebbe portare alla censura. − scrive Lebovic − La sfida è piuttosto quella di assicurare che le informazioni importanti siano disponibili. Iniziative per una maggiore trasparenza sarebbero dunque d’aiuto: ridurre la fuga del sistema di classificazione, fornire protezioni per gli informatori, e riformare il Freedom Of Information Act − la legge che consente di chiedere la pubblicazione di documenti riservati, ma non secretati. Anche gli sforzi dedicati a finanziare nuove iniziative di giornalismo aiuterebbero. Sia che il denaro provenga da filantropi, da abbonati perspicaci, o (meno probabile) da fondi pubblici, la chiave è che il denaro finisca a coloro che producono notizie sulla politica, la governance locale e i problemi sociali − il denaro non dovrebbe essere insomma usato per sostenere media che disseminano falsi”.
In estrema sintesi, dunque, gli Stati Uniti hanno corso un grosso pericolo e il fatto che nessuno abbia pagato o stia pagando, non per l’impennata di uso della violenza nei confronti dei giornalisti, non per lo spionaggio dei rappresentanti democratici e del loro staff, mentre la caccia al whistleblower sia una costante, ci racconta di come l’infrastruttura legale che garantisce la libertà di informazione avrebbe bisogno di una messa a punto. Resta il fatto che grazie ai media americani abbiamo scoperto e saputo cose in questi anni, e che nessuno ha tentato di chiudere giornali mentre facevano il loro lavoro. Anche se a Trump sarebbe tanto piaciuto.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
Afghanistan: il ritorno dei Talebani
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I passi formali per il ritiro americano dall’Afghanistan che si concluderà il 31 agosto avvengono in un clima complicato. I Talebani avanzano, il Governo di Kabul appare debolissimo e a Washington ci sono voci discordanti sul cosa fare da domani.
Il comandante delle forze Usa in Afghanistan, il generale Scott Miller, ha lasciato la sua posizione e a gestire il ritiro sarà al suo sostituto Frank McKenzie che gestirà le operazioni dal quartier generale del Comando Centrale a Tampa, in Florida.
Nel suo discorso di addio, Miller ha dato voce ai timori dei militari, che hanno come mestiere quello di guardare alla situazione sul campo, ha avvertito che la violenza incessante in Afghanistan sta rendendo sempre più difficile un accordo politico e ha detto di aver detto ai rappresentanti Talebani “che è importante che le parti militari stabiliscano le condizioni per una soluzione pacifica”, ma che con i livelli di violenza che si osservano in queste settimane “sarà molto difficile raggiungere un accordo politico”.
Il Governo di Kabul – che naturalmente in pubblico sostiene il contrario – non è affatto contento dei ritiro e non sembra avere molti alleati nel Paese. Da quando Biden ha confermato il ritiro, pur posponendolo di qualche mese rispetto alla data fissata precedentemente da Donald Trump, i Talebani hanno conquistato il 10% del territorio e oggi controllano più di un terzo dei 421 distretti dell’Afghanistan.
In un’intervista con Associated Press, il signore della guerra Ata Mohammad Noor, che governa la sua provincia da Mazaar-e-Sharif, spiega che l’esercito è demoralizzato, male utilizzato e sostiene che il Presidente Ashraf Ghani sia isolato e incapace di “fare squadra”. La forza dei Talebani, infatti, oltre allo scarso entusiasmo dei militari inquadrati nell’esercito – cui viene pagato lo stipendio in ritardo e che spesso si arruolano per quello – è anche nella frammentazione dei suoi avversari sul campo. Dopo l’annuncio del ritiro fatto da Biden, “Noor è stato uno dei primi a premere per la creazione di nuove milizie, definendole il braccio di una “rivolta del popolo”. Il mese scorso, il Governo ha lanciato un programma di mobilitazione, aiutando ad armare e finanziare i volontari sotto comandanti locali” leggiamo nell’intervista. Naturalmente, con un esercito in ritirata e il rilancio di diversi eserciti tribali o privati, nemici dei Talebani ma non alleati tra loro, la situazione non può che rimanere caotica.
Le colpe degli Stati Uniti
Tutto, inutile sottolinearlo, nasce dall’errore fatale degli Stati Uniti all’indomani della conquista del Paese. In una storia della guerra (“American War in Afghanistan”) appena pubblicata da Carter Malkasian, già assistente per la strategia del Capo di Stato maggiore dal 2015 al 2019 e precedentemente suo collaboratore in Afghanistan, troviamo una spiegazione del disastro americano. In estrema sintesi, gli Stati Uniti non avevano un piano quando hanno invaso il Paese e la loro attenzione sull’Afghanistan post talebano è stata presto deviata dalla guerra all’Iraq; nei primi anni l’impegno alla costruzione di forze armate regolari è stato minimo e si è appaltato troppo ai signori della guerra (i cui abusi sono stati una delle ragioni per cui i Talebani sono arrivati al potere); gli Stati Uniti non hanno capito e non capiscono ancora le implicazioni culturali e politiche delle divisioni tribali, del nazionalismo afgano che Malkasian sostiene essere più forte del sentimento religioso: i Talebani generano consenso perché rappresentano lo spirito nazionale contro gli invasori.
La situazione sul campo lascia, insomma, molte perplessità anche a Washington. Che fine faranno i diritti delle donne? E le scuole? Che figura ci fa Washington, impegnata com’è nel tentare di ricostruire la sua immagina di prima potenza mondiale? Biden sostiene che la sua sia una politica estera “per la classe media” e, naturalmente, la classe media Usa se ne infischia dei diritti delle donne in un piccolo Paese lontano. Biden era per un ridimensionamento dell’avventura afghana già quando era vicepresidente, ma perse quella battaglia (come ricorda l’ex capo del Pentagono Robert Gates nel suo libro “Duty” del 2014, nel quale offre un giudizio pessimo delle qualità del Presidente come analista di politica estera). L’ex vice di Obama, insomma, l’idea di ritirarsi l’aveva da tempo e ha ribadito il concetto nel suo discorso al Paese in materia. Alla domanda se stava dichiarando “missione compiuta”, Biden ha risposto: “Non c’è nessuna missione compiuta. La missione è stata compiuta in quanto abbiamo preso Osama bin Laden, e il terrorismo non proviene più da quella parte del mondo. Non siamo entrati per fare nation building e non voglio mandare un’altra generazione di uomini e donne in guerra quando una soluzione militare non è possibile”.
Gli Stati Uniti si sono impegnati a spendere 4,4 miliardi di dollari all’anno per finanziare le forze di sicurezza dell’Afghanistan fino al 2024. Attraverso l’assistenza militare e la cooperazione, Washington può sperare di complicare la vita ai Talebani e rallentare la loro avanzata, in maniera da rendere più necessari e utili anche a loro i colloqui di pace mediati dall’Iran.
E qui c’è un altro nodo di politica estera. Un nodo per Washington, ma anche per altri. I vicini dell’Afghanistan avrebbero tutti interesse a un Paese stabilizzato e non in mano ai Talebani – eccezion fatta forse per il Pakistan. Le potenze regionali però non sono esattamente i migliori amici di Washington: Russia e le ex Repubbliche sovietiche, Cina e Iran vanno coinvolti e per farlo servirà un grande sforzo diplomatico.
Negli Usa l’occupazione torna a crescere
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Con le riaperture tornano i turisti e con loro la necessità di assumere personale nell’industria dell’accoglienza e della ristorazione. È un tema di cui in Italia si discute molto. Negli Stati Uniti si assiste a qualcosa di molto simile ma la retorica politica non è esattamente la stessa. In molti avranno sentito o letto della battuta del Presidente Biden: “Mi hanno chiesto: Lo sai che gli imprenditori non riescono a trovare personale? Ho risposto: Pagateli di più e li troverete”. Più o meno è quello che sta succedendo.
A giugno l’occupazione nel settore del tempo libero e dell’ospitalità è cresciuta di 343.000 unità di lavoro aggiunti, più della metà in ristoranti e bar. Anche il disastrato settore del commercio al dettaglio, che nei mesi delle chiusure si è visto soffiare porzioni notevoli di business da Amazon e dal resto del commercio online, ha aggiunto 67.000 posti di lavoro, soprattutto nell’abbigliamento. Per il terzo mese consecutivo crescono i salari medi, una cosa che il Bureau of Labor Statistics imputa alla forte domanda dovuta alla ripresa.
La battuta del Presidente veniva però dalla polemica politica repubblicana e della Camera di Commercio nazionale che sosteneva che i sussidi di disoccupazione – voluti dal Congresso e promossi dal Presidente per rispondere alla crisi da pandemia – consentissero ai lavoratori di non accettare i salari offerti dagli imprenditori del settore della ristorazione. Se siete italiani questa polemica l’avete già sentita ripetere da settimane in occasione dell’avvio della stagione turistica.
L’occupazione cresce
Ma cosa sta succedendo in America dunque? Come mai l’occupazione torna a crescere anche in quei settori? Semplice, gli imprenditori hanno aumentato le paghe e, oggi, la paga media nel settore della ristorazione è sopra i 15 dollari l’ora. Si tratta di una piccola rivoluzione. Coloro tra i nostri lettori che hanno viaggiato negli Stati Uniti sanno che quando si mangia o beve in un locale occorre sempre lasciare una mancia che oscilli tra il 15% e il 20%. La somma di quelle mance è il grosso del salario dei camerieri, barman e altro personale. Naturalmente, chi lavora in un ristorante di successo da 100 dollari a coperto può portare a casa un bel gruzzolo, ma chi lavora in un diner con pochi clienti può trovarsi ad avere una paga da fame.
La dinamica del mercato del lavoro di questi mesi ci dice che la pandemia – e anche il dibattito politico che vede un Presidente dire “pagateli di più” invece di “abolite i sussidi” – sta cambiando le cose. Tra l’altro, con gli aumenti nel settore della ristorazione e in altri comparti a bassa qualifica, crescono anche le paghe per le fasce basse in altri settori che, altrimenti, rischierebbero di perdere impiegati. Inoltre, ricordiamolo, per mesi si è parlato dell’importanza del lavoro “di frontiera”, che si trattasse delle infermiere o di coloro che portavano i pacchi e i pasti nelle case.
Cambiano i modi di vivere
Le novità e gli aumenti riguardano anche un cambiamento di prospettiva dei lavoratori che durante l’ultimo anno sono rimasti disoccupati. Questa sospensione della vita lavorativa, accompagnata dal sostegno economico pubblico che ha consentito a molti di superare la crisi senza finire rovinati, ha fatto riflettere molti. Specie quelli che lavorano nei settori a bassa qualifica a paga bassa. Un sondaggio condotto dal Pew Research Center durante il picco della disoccupazione segnalava come i disoccupati provenienti dai settori a bassa qualifica fossero i più pessimisti e stressati ma, al contempo, come stessero ragionando sulla necessità di cambiare settore.
Ma c’è di più: lo stare a casa, la possibilità di non dover fare ore di pendolarismo, la possibilità di conciliare meglio il tempo di lavoro con le necessità della vita hanno fatto riflettere le persone sulla possibilità di vivere meno di corsa – che è una caratteristica della vita nelle metropoli e nella suburbia attorno ad esse. Un sondaggio condotto da Morning Consult ha rilevato che l’87% dei lavoratori americani che hanno lavorato a distanza durante la pandemia “preferirebbe continuare a lavorare a distanza almeno un giorno alla settimana. Tra tutti i lavoratori, il 68% dice che un modello di posto di lavoro ibrido è l’ideale”. I sondaggisti segnalano che si tratta di un aumento a due cifre rispetto a un sondaggio simile condotto nell’autunno che precedeva il coronavirus. Quasi la metà degli intervistati segnala di voler cercare un lavoro che gli consenta di avere almeno un giorno a settimana da lavorare a casa, ma di non voler dire del tutto addio al lavoro in presenza.
C’è un’ulteriore spiegazione alla mancanza di lavoro per posti che pagano poco o che richiedono molto: per mesi le scuole e le strutture di servizi all’infanzia sono state chiuse e il lavoro di cura è ricaduto sulle famiglie. A milioni di persone, se sottopagate, non conviene cercare un lavoro per poi dover spendere più di quanto guadagnano per pagare una baby sitter a tempo pieno.
In sostanza, dunque, il mercato del lavoro negli Stati Uniti sta conoscendo una piccola rivoluzione che riguarda i salari, ma anche i tempi e i modi di vita. In fondo si tratta di questioni che venivano messe sotto al tappeto da anni. Non sappiamo se sarà duratura, ma sappiamo che a determinarla concorrono diversi fattori, economici, politici e persino culturali.
Usa: Blinken in Italia per l’ultima tappa del suo tour europeo
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Ritessere una tela lacerata dai comportamenti dell’amministrazione Trump. Questo è il compito che il segretario di Stato Antony Blinken si è assegnato nella visita italiana di tre giorni che si concluderà con il vertice dei Ministri degli Esteri del G20 nella cornice di Matera. I temi in agenda sono molti, ma la parte italiana della missione è quella di rilanciare una partnership in Europa, che per gli Stati Uniti è molto importante. E che vede nell’attuale inquilino di Palazzo Chigi (e con il ritorno del Pd nella maggioranza di Governo) un interlocutore pronto a rinnovare su un terreno “normale” la relazione speciale.
Il comunicato stampa del Dipartimento di Stato che sottolinea l’importanza della cooperazione militare, l’amicizia storica, i legami economici ed elenca persino gli alumni Fullbright che hanno fatto carriera nella politica italiana è significativo in questo senso.
L’incontro con Papa Francesco
Per il segretario di Stato anche un passaggio in Vaticano, altro luogo su cui la diplomazia estremista trumpiana aveva generato danni. La visita dello scorso settembre dell’ex segretario di Stato Pompeo era infatti stata un tale disastro che Papa Francesco si era rifiutato di incontrare il diplomatico. Pompeo aveva infatti irritato il Vaticano prima di arrivare a Roma, scrivendo su Twitter e in un editoriale che la Santa Sede stava “mettendo in pericolo la sua autorità morale” a causa dell’accordo bilaterale con la Cina sulla nomina dei vescovi. Tra l’altro, l’articolo di Pompeo è stato pubblicato su una rivista conservatrice molto critica nei confronti di Papa Francesco e il cui direttore scrisse un articolo dal titolo: “Un papato fallimentare”. Ma a Pompeo e Trump della diplomazia e delle relazioni internazionali non interessava granché, ciascuna mossa era fatta in funzione della politica interna e delle elezioni perse. Criticare Francesco significa anche raccogliere i consensi e rinsaldare le alleanze con la parte ribelle e conservatrice della Chiesa statunitense – la stessa parte che ha aperto la questione della comunione a Biden. Tra l’altro, il secondo Presidente cattolico della storia americana visiterà il Vaticano in ottobre.
Tra le questioni sulle quali il Vaticano è ben lieto di aver cambiato interlocutore ci sono anche il cambiamento climatico e le migrazioni, il traffico di esseri umani: per il latinoamericano Francesco, che tra l’altro ha nella popolazione immigrata negli Usa una parte consistente e in crescita dei fedeli cattolici, si tratta di questioni centrali.
I grandi temi: Isis, Libia, Siria
Se invece guardiamo alle relazioni con l’Italia, sul banco ci saranno, certo, i grandi temi del G20, a partire dal cambiamento climatico, un po’ di questioni legate al cibo nell’incontro con il personale delle Agenzie Onu di Roma e poi soprattutto, Africa e Mediterraneo. Tradotto per temi: l’Isis nell’Africa occidentale e nel Sahel (e nei territori iracheni dove è ancora attivo o in sonno), la Libia, la Siria.
Gli Stati Uniti guidano una coalizione di cui fanno parte 83 membri e il responsabile per l’ufficio per la lotta all’Isis Patrick Worman ha spiegato che la coalizione sta lavorando anche con il Governo iracheno per “colpire le cellule Isis rimanenti, impedire che l’Iraq costituisca un santuario, eliminare i media Isis, le sue strutture finanziarie e le reti di sostegno locale”. Oggi si è tenuta una riunione della coalizione presieduta da Blinken e dal titolare della Farnesina Luigi Di Maio. A proposito di Iraq, il Presidente egiziano al-Sisi e il re di Giordania Abdullah II hanno visitato Baghdad, segno di un tessuto di relazioni regionali che si ricompone. Anche il coordinatore per le attività anti-terrorismo John T. Godfrey sarà a Roma, dopo aver viaggiato nel Kurdistan e in Iraq.
Le ultime tappe del tour europeo
Roma e Matera, insomma, sono una nuova tappa del lavorio che, volenti o nolenti, gli Stati Uniti hanno dovuto riprendere in Medio Oriente dopo la casualità della diplomazia trumpiana e gli anni di relativo disinteresse obamiano per la regione. Non a caso, Blinken ha anche visto il neo Ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid, che ci ha tenuto a segnalare come il premier Netanyahu, con il suo essere troppo filo-repubblicano, abbia danneggiato la neutralità dell’amicizia tra il suo Paese e gli Stati Uniti. Naturalmente, tra i due il tema è il negoziato con l’Iran (ma anche Gaza e la tensione nei Territori).
Una seconda riunione italiana ha come oggetto la Siria, con l’idea di rilanciare gli sforzi per porre fine al decennale conflitto in Siria. Per Blinken i temi primari sono l’accesso umanitario delle agenzie Onu e altre organizzazioni internazionali. Poi c’è l’idea generale: quella della necessità di un processo di pace che coinvolga tutte le parti che hanno combattuto sotto egida Onu.
A Matera si chiude il tour europeo di Blinken, che ha visitato le capitali dei principali alleati e dei più importanti Paesi del continente e dove la diplomazia europea ha steso tappeti rossi al neo Segretario. Dopo anni di caos, l’idea di avere un interlocutore affidabile e con il quale discutere in maniera concreta delle grandi questioni dell’agenda internazionale è un sollievo. Se e quanto Stati Uniti ed Europa possano trovare un terreno comune su alcuni punti di possibile frizione (i rapporti con la Cina e la Russia, innanzitutto), non è una domanda alla quale otterremo risposta da una visita di tre giorni.
L’offensiva dei conservatori cattolici contro Biden
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I vescovi conservatori americani fanno politica. È difficile interpretare diversamente l’ipotesi di documento sull’Eucarestia (la comunione) approvato alla conferenza dei vescovi tenuta online nei giorni scorsi, un documento che dovrà eventualmente venire ratificato dal raduno in presenza previsto per novembre. Di che si tratta? Del prodotto di una commissione voluta dall’arcivescovo di Los Angeles e capo della Conferenza José H. Gomez che già nel messaggio rivolto al Presidente Biden nel giorno della sua inaugurazione scriveva: “Devo sottolineare che il nostro nuovo Presidente si è impegnato a perseguire alcune politiche che farebbero progredire i mali morali e minaccerebbero la vita e la dignità umana, in particolar modo in tema di aborto, contraccezione, matrimonio e sesso”. Un colpo basso al secondo Presidente cattolico della storia degli Stati Uniti e certamente uno tra i più devoti e religiosi.
L’attacco a Biden
Dopo quel comunicato, Gomez ha istituito una commissione per affrontare il problema delle posizioni del nuovo Presidente e il prodotto che ne è uscito è un testo votato da circa due terzi dei vescovi dell’assemblea nel quale si accenna alla possibilità di negare la comunione a chi ha posizioni liberali in materia di aborto. Il messaggio non è al cittadino X, ma appunto al Presidente Biden, primo Presidente cattolico a dichiararsi favorevole alla libertà di scelta – Biden è contrario all’aborto, ma difende il diritto delle donne.
Dopo Gomez, a parlare della posizione del Presidente era stato l’arcivescovo di Kansas City, Joseph Naumann, che presiede il Comitato per le attività pro-vita della USCCB e ritiene necessario rimproverare pubblicamente Biden sulla questione. Tale posizione, da parte di un personaggio pubblico, è “un grave male morale”, secondo l’arcivescovo. La posizione di Biden è “un male morale e poiché è cattolico, presenta un problema unico per noi e – disse Neuman ad Associated Press alla fine di aprile – può creare confusione. Come può essere un cattolico devoto e fare cose contrarie all’insegnamento della Chiesa?”.
Insomma, l’ala conservatrice della Chiesa cattolica degli Stati Uniti aveva preso la mira immediatamente e dopo il lavoro del gruppo di lavoro istituito da Gomez si è giunti al voto.
Il via libera del Vaticano
Per divenire la posizione ufficiale della Chiesa, quel testo dovrebbe essere approvato dai due terzi dell’assemblea di novembre o avere il via libera del Vaticano. Un via libera che non ci sarà: la scelta dei vescovi conservatori di partire all’attacco di Biden è chiaramente un attacco alla dottrina di Francesco, meno attenta ai temi che hanno animato le guerre di religione (culture wars) negli anni ’90 in America e più impegnata nel sociale, sui temi dei diritti umani, della tutela dell’ambiente in quanto creazione divina e sul rispetto dell’umanità dei migranti. Scelte, quelle di Francesco, che non sono piaciute a quella parte della Chiesa Usa ossessionata da aborto e matrimonio tra persone dello stesso sesso. Quella stessa Chiesa ha flirtato con Donald Trump, pluri-divorziato, peccatore, irrispettoso e ha taciuto di fronte all’uso della pena di morte da parte del cattolico procuratore generale Barr. Quando si fa politica c’è una sacralità della vita di serie A e una di serie B.
Il sacramento dell’Eucarestia
Naturalmente non c’è solo la Chiesa conservatrice. Il vescovo di Washington DC e quello del Delaware, i luoghi dove Biden va più spesso in chiesa, hanno detto che non negheranno l’accesso all’Eucarestia al Presidente. Altri hanno segnalato il loro disagio all’idea di mettere ai voti un documento che evidenzia le fratture in seno alla gerarchia cattolica; l’idea del Vaticano è che occorre mostrare unità e che, dunque, su temi come questi sia necessario discutere, approfondire per giungere a una sintesi o a compromessi.
C’è poi la paura che il sacramento venga usato come arma politica, come ha detto il direttore di Civiltà Cattolica Antonio Spataro – uno che di Stati Uniti se ne intende – al New York Times. Spataro ha anche twittato una citazione del Nunzio apostolico negli States Christophe Pierre: “Quando il cristianesimo è ridotto a costume, a norme morali, a rituali sociali, allora perde la sua vitalità e il suo interesse esistenziale per gli uomini e le donne del nostro tempo”. Il messaggio è rivolto a una Chiesa che pare essere ossessionata da alcune questioni etiche sulle quali indirizza la comunità cristiana ma che non dovrebbero vederla impegnata in crociate politiche (la stessa chiesa, tra l’altro, ha impiegato molti anni a fare i conti con gli scandali e gli abusi sessuali). In fondo, come ha detto il Papa: l’Eucarestia “non è la ricompensa dei santi, ma il pane dei peccatori”. L’idea di negare i sacramenti ai peccatori somiglia più all’idea puritana di buoni e cattivi che non al perdono e alla redenzione cattolici.
Matrimoni gay e aborto
La Chiesa conservatrice degli Stati Uniti non è nuova a queste prese di posizione: si immaginò di negare la comunione a John Kerry e nel 2012 aveva dichiarato guerra al protagonismo delle suore americane, la cui organizzazione principale (e super maggioritaria), la Leadership Conference of Women Religious è progressista e molto attiva socialmente. La commissione venne istituita da Papa Ratzinger sulla spinta di alcuni vescovi cattolici del tempo, tra cui quello che divenne il capo della Chiesa di San Francisco, l’arcivescovo Salvatore Cordileone, in quegli anni e lo è tuttora, rappresentando uno schiaffo della gerarchia cattolica alla città più liberale d’America: il campione della crociata anti matrimonio gay nominato nella città dove quel diritto venne proclamato per la prima volta. Cordileone non ha perso l’occasione di dichiarare anche nel caso del documento votato dai vescovi ed è in polemica continua con Nancy Pelosi, la politica e cattolica più importante della sua arcidiocesi. Lui come altri alti prelati sono una presenza costante nei media conservatori cattolici dove il documento votato sarà strumento di propaganda.
Questa parte della Chiesa Usa è la punta di lancia dell’offensiva conservatrice contro Papa Francesco nonostante una parte importante dei fedeli non sia in sintonia con essa. Secondo il Pew Research Center, il 56% dei cattolici ritiene che l’aborto dovrebbe essere legale nella maggior parte dei casi, una percentuale sostanzialmente in linea con quella dell’opinione pubblica in generale (61%). Non solo, in un sondaggio su Biden e la comunione, il 67% dei cattolici (e il 45% dei cattolici repubblicani) ritiene che il Presidente dovrebbe avere diritto a riceverla. La Chiesa conservatrice degli Stati Uniti, insomma, somiglia sempre più solo a se stessa e alla parte anziana della popolazione cattolica, quella delle comunità immigrate europee cresciute nello stesso contesto culturale di figure come quelle che promuovono la nuova crociata anti Biden.
Alle elezioni in Francia due elettori su tre non hanno votato
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La Francia ha votato per le autonomie locali e due elettori su tre non hanno partecipato al voto. Il dato che colpisce delle elezioni regionali e dipartimentali francesi è innegabilmente questo. È vero che le autonomie nel Paese centralizzatore per eccellenza non contano molto, ma il 66% di astensioni è un dato davvero molto alto. Non un buon segnale per Macron, non un buon segnale per la fiducia della classe dirigente nel suo complesso. Non è un caso che l’edizione online di Le Monde stamani apra proprio sul distacco tra società e politica: “Non ci sono volontari né rappresentanti di lista” e a Marsiglia mancavano anche gli scrutatori. Il dato sull’affluenza è dieci punti più basso del record negativo del 2010.
I risultati
A dire il vero, neppure i francesi che hanno deciso di prendere il tempo di andare alle urne hanno dato indicazioni chiarissime. La mappa elettorale è complicata da alleanze non omogenee, forza dei Presidenti uscenti e di un quadro politico molto cambiato rispetto alle precedenti tornate elettorali, quando ad esempio non esisteva La Republique En Marche del Presidente Macron. Con un terzo circa dei voti espressi, i vincitori del voto locale sono innegabilmente i repubblicani, un elettorato più tradizionale e anziano e magari più propenso a votare alle elezioni locali. Nemmeno la sinistra nelle sue varie articolazioni va male, nel senso che si conferma in testa nelle cinque regioni in cui governava e potrebbe avere chance in altre due, mentre i sondaggi prevedevano quasi ovunque sorpassi da parte dei candidati di centrodestra dei Republicains o di Rassemblement National.
Gli sconfitti della partita sono invece Marine Le Pen ed Emmanuel Macron, i due che hanno cercato un voto nazionale e non locale. La lista della maggioranza presidenziale spesso non raggiunge la soglia del 10% che consente ai candidati di presentarsi anche al secondo turno. Il Rassemblement National (RN) arriva primo in Provenza-Alpi-Costa azzurra (PACA) ma con meno voti del previsto, mentre a livello nazionale è molto sotto a quanto rilevato nei sondaggi delle ultime settimane – nei sogni più rosei e nelle rilevazioni Le Pen arrivava in testa in sei regioni. Vincere a sud sarebbe molto importante per l’estrema destra per due ragioni: accelererebbe il processo di normalizzazione degli eredi del Front National e darebbe a quel partito un posto di potere vero, dal quale gestire risorse e mostrare di saper governare qualcosa di più che non una città di medie dimensioni. Certo è che la bassa affluenza ha penalizzato l’estrema destra, che aveva cercato di rendere la campagna nazionale mettendo la faccia di Le Pen su tutti i manifesti. Come e quanto questo risultato al di sotto delle aspettative sia un termometro efficace di quanto capiterà tra un anno alle presidenziali è davvero difficile da dire.
A questo punto è cruciale il secondo turno e nulla appare scontato. Come mai? Abbiamo già visto che possono rimanere in lizza tutti i candidati che hanno superato quota 10%. Ma spesso capita che chi non è competitivo si ritiri per favorire la vittoria della figura politicamente più vicina. Ma in un quadro politico che somiglia a una maionese impazzita nulla è scontato. Queste elezioni locali segnalano infatti che i partiti tradizionali non sono morti e che le forze nuove o in crescita non sono granché in grado di mobilitare l’elettorato.
Un quadro politico poco chiaro
Vediamo qualche esempio di quanto capiterà al secondo turno partendo dal più importante, quello del potenziale fronte repubblicano contro il candidato di RN, Thierry Mariani (36,3%). Qui la sinistra dovrebbe togliersi di torno per favorire la rimonta del candidato repubblicano Muselier (31.9%). Problema: il candidato della coalizione rossoverde Felizia (16,9%) sembra intenzionato a non ritirarsi contro il parere dei partiti che lo hanno sostenuto – e che hanno annunciato che non lo sosterranno.
Nella regione del Centro-Valle della Loira socialisti (giunti in testa) e sinistra rosso-verde si uniranno. La regione è importante anche per un altro aspetto: si tratta del miglior risultato di un candidato macronista che probabilmente si ritirerà per sostenere il repubblicano. Una scelta tutto sommato scontata che rende debole la prospettiva di LREM di divenire il polo liberale e di centro capace di drenare consensi moderati ai repubblicani.
I risultati di ieri consegnano un quadro poco chiaro: la scarsa affluenza non ci dice se l’elettorato arrabbiato sia o meno pronto a tornare alle urne per votare Le Pen. Per certo, offre speranze ai socialisti e soprattutto ai tre repubblicani che vorrebbero divenire il candidato di centro-destra: Xavier Bertrand nella regione settentrionale di Hauts-de-France, Valérie Pécresse nell’Ile de France e Laurent Wauquiez che ha ottenuto il 45% in Auvergne-Rhône-Alpes. Chi sembra nei guai è il Presidente Macron, il cui partito è passato dal 28% del 2017, al 22% delle europee del 2019 fino a superare il 10% in 8 regioni su 13 ieri. Il capitale politico del giovane Ministro dell’Economia di Hollande è evaporato in fretta. Eppure il quadro politico francese è talmente instabile che usare il voto di ieri per fare previsioni sarebbe un errore.
In Francia si vota per le regionali: un test anche per Macron
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Domenica 20 giugno i francesi saranno chiamati a eleggere i consigli regionali e dipartimentali, con un secondo turno il 27. Allo stato la destra repubblicana conta 8 presidenti di regione, la sinistra 6, il centro 2, come le liste locali in Corsica e Martinica. Ma le ultime elezioni risalgono al 2015 e dopo di allora abbiamo avuto il tonfo dei socialisti, la crescita di Verdi e France Insoumise a sinistra e la nascita di La République en marche (LREM), il partito macronista. E poi il permanere del Rassemblement national lepenista in testa ai sondaggi.
Questo voto è dunque un test cruciale in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno per diverse ragioni. In generale c’è da distribuire un po’ il peso delle diverse forze politiche, sapendo però che come sempre le questioni locali, l’insediamento politico di un candidato o di un partito pesano a livello locale e meno alle presidenziali. Gli equilibri interni alla sinistra, che si presenta unita in alcuni casi e divisa in altri, con geometrie di alleanze variabili a seconda dei casi, saranno sotto la lente di ingrandimento. La mancata alleanza tra Europe Écologie Les Verts, socialisti, comunisti e La France Insoumise renderà più complicato lo sbarco al secondo turno di candidati ecologisti o di sinistra. Un buon esempio è l’Ile de France, dove i candidati di sinistra o ecologisti saranno 4 e anche se tutti promettono l’unità al secondo turno, per arrivarci almeno uno tra loro dovrebbe superare il 10%.
In generale il sistema elettorale francese per le regionali complica la vita a chi volesse fare previsioni. Se nessuna lista ottiene la maggioranza assoluta, infatti, si va al secondo turno al quale sono ammesse le liste che hanno ottenuto più del 10% dei voti espressi. Tra i due turni le liste possono essere modificate, in particolare per fondersi con altre che hanno ottenuto almeno il 5% dei voti. Chi deciderà di ritirarsi per sostenere il candidato con più chance di farcela? Assisteremo a blocchi repubblicani anti fascisti come avvenuto al secondo turno delle presidenziali in diverse occasioni?
Un test per Macron
Il test cruciale c’è anche per Macron e il suo partito: il Presidente ha un indice di popolarità basso ma stabile e non catastrofico e l’idea degli strateghi de La République en marche è quella di dare peso nazionale alle amministrative. Nelle liste o alla loro testa ci sono 13 Ministri del partito del Presidente, un grosso rischio visto che i sondaggi non indicano grandi prospettive per LREM. Ma il partito macronista è fondamentalmente nazionale e la sua sfida sarà, con ogni probabilità, quella di ricompattare il fronte repubblicano al secondo turno delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo (o di arrivare terzo al primo turno e sostenere il repubblicano o la socialista giunti dietro Marine Le Pen). La geometria è complicata. Prendiamo il caso della regione dell’Haute de France, dove è candidato il repubblicano Xavier Bertrand, possibile candidato presidenziale contro Macron. Presidente uscente, Bertrand è inseguito dal candidato lepenista, ma, in vista del 2022, dovrà rifiutare probabilmente l’alleanza al secondo turno con LREM. Resta che l’elettorato può muoversi a prescindere dalle indicazioni di voto, ma il risultato di questa strategia presidenziale potrebbe risolversi in una vittoria del partito di Le Pen. In Provenza un tentativo di alleanza tra il partito di Macron e i Republicains è abortito.
I Republicains dovrebbero e potrebbero farla da padroni, sono il partito che non ha conosciuto un tracollo, sono maggioranza uscente in un numero alto di regioni e possono forse contare sul voto di chiunque laddove si trovino a competere con un candidato lepenista al secondo turno. Le alchimie elettorali in vista delle presidenziali e un quadro politico esploso rispetto agli schieramenti e partiti tradizionali complicano le previsioni.
E Marine Le Pen?
Il voto ci dirà anche quanto pesa Marine Le Pen. In tempi di pandemia, gilet gialli, con un Presidente non popolare e che non sembra avere la capacità di parlare alla parte arrabbiata del Paese, Le Pen ha leggermente moderato il suo messaggio. In che senso? Le Pen sa che sul fronte economico le distanze tra città e aree rurali e periferiche la avvantaggia, che la lunga vicenda di deindustrializzazione è un tema su cui picchiare forte così come il declino avvertito in un Paese orgoglioso e nazionalista. Si tratta di un meccanismo simile a quello che abbiamo osservato altrove in Europa. La moderazione di Le Pen giunge sul terreno a lei più congeniale, quello dell’immigrazione, della difesa dell’identità nazionale, della lotta al terrorismo e all’Islam radicale e militante, spesso confuso con la religione in generale. Il tentativo, l’ennesimo, è quello della normalizzazione della propria forza politica. Così Le Pen ha spiegato che l’Islam è compatibile con le istituzioni repubblicane e distingue tra la religione e la militanza islamista. La ragione è semplice: il tema resta in agenda anche perché il resto della destra e anche altre forze politiche lo nominano di continuo e qualsiasi elettore preoccupato per il pericolo islamico sceglierà comunque la forza che ha fatto del tema un tratto della propria identità. L’estrema destra è sempre quella destinata a guadagnare dalla centralità del tema migratorio o del conflitto tra culture in campagna elettorale.
Usa: rivelate pressioni di Trump su Apple
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Le malefatte dell’amministrazione Trump, e in particolare del suo Dipartimento di Giustizia, non smettono di stupire. L’ultima è quella rivelata dal New York Times nei giorni scorsi: nel febbraio 2018 Apple ricevette l’ordine di consegnare i dati del consigliere della casa Bianca Donald McGahn e di sua moglie (una subpoena, una richiesta non declinabile) e, alla scadenza dei tre anni durante i quali era vincolato alla segretezza, il colosso tecnologico ha provveduto a informare lo stesso ex collaboratore di Trump.
McGahn era l’avvocato della campagna Trump nel 2016 e ha testimoniato sia davanti al Congresso che agli investigatori guidati da Robert Mueller che indagavano sulla possibile collusione della campagna Trump con la Russia. Sei mesi dopo la richiesta dei registri telefonici, McGahn si dimise in contrasto con l’idea del Presidente di far deragliare l’indagine sostituendo Mueller con qualcuno di più affidabile. Quel braccio di ferro arrivò alle orecchie dei giornalisti e la notizia trovò spazio su Washington Post e New York Times. È possibile che il Presidente cercasse informazioni su chi e come avesse passato ai giornalisti le informazioni su una discussione avvenuta alla Casa Bianca. Fatto sta che quella notizia non conteneva informazioni secretate e che, dunque, non era uno di quei casi in cui di norma il Dipartimento di Giustizia indaga.
Le rivelazioni su McGahn sono solo le ultime di una serie recente e gettano una luce sinistra sulle operazioni del Dipartimento di Giustizia guidato nell’ordine da Jeff Sessions (poi caduto in disgrazia), William Barr e dal suo vice Rod Rosenstein, che aveva competenza sull’indagine di Mueller dopo che Barr si era ricusato.
Oltre a segnalare il fatto del tutto inusuale di un Presidente che fa controllare i propri collaboratori, la richiesta dei dati di McGhan segnala un nuovo aspetto della campagna trumpiana per ostacolare l’indagine di Mueller. Di fronte alla fuga di notizie, Trump aveva come obiettivo quello di individuare i whistleblower ed evidentemente non si fidava di nessuno.
Ma McGhan è solo la punta dell’iceberg perché nei giorni scorsi abbiamo anche saputo che tra le persone per le quali il Dipartimento di Giustizia ha fatto chiedere i registri telefonici ci sono diverse persone coinvolte nella commissione che conduceva l’indagine del Congresso che avrebbe portato alla richiesta di impeachment, compresi il Presidente, il rappresentante democratico Adam Schiff e il suo collega Eric Swalwell. Il Dipartimento ottenne anche i registri del personale che lavorava all’indagine di loro familiari, compreso un minorenne.
La raccolta dei registri telefonici di rappresentanti e dei loro collaboratori è un fatto quasi senza precedenti che i democratici hanno definito “spaventoso”. Un conto è dare la caccia a chi passa documenti o informazioni ai media o ad altre istituzioni, altro è indagare giornalisti ed eletti coinvolti. Il watchdog interno del Dipartimento di Giustizia ha aperto un’indagine e, a dire il vero, le prese di distanza da queste scelte fatte dall’amministrazione Trump non sono solo di democratici. La senatrice repubblicana del Maine Susan Collins ha detto di essere favorevole all’indagine, mentre il rappresentante del Texas McCaul ha spiegato che per spingersi così lontano “servono prove” e che gli ex procuratori generali Barr e Sessions dovrebbero testimoniare sulla questione. I due e Rosenstein hanno dichiarato di non sapere nulla della richiesta fatta ad Apple. I toni più forti sono venuti da Nancy Pelosi, che ha parlato di una vicenda peggiore di quella del Watergate.
La vicenda pone indirettamente e per l’ennesima volta la questione della quantità di dati che le Big Tech conservano nei loro server. Apple ha reso noto di aver ottenuto richieste per 73 numeri di telefono e 36 caselle di email e Microsoft ha pure rivelato di aver ricevuto richieste relative agli account di un membro dello staff di qualche rappresentante. Le richieste di registri e altri contenuti privati fatte dalle forze dell’ordine degli Stati Uniti sono migliaia al mese e molto spesso le Big Tech non sanno bene il perché della richiesta. L’esempio è proprio quello di McGahn: il portavoce dell’impresa di Cupertino ha spiegato che l’ordine prevedeva la segretezza (ovvero l’impossibilità di informare il soggetto interessato) e non esplicitava la ragione per la quale il Dipartimento di Giustizia intendesse ottenere i registri dell’ex avvocato della campagna Trump.
Fisco Usa: come i miliardari non pagano le tasse
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Se si parla di fisco, grandi corporation e miliardari, il primo semestre del 2020 potrebbe segnare una storica inversione di tendenza. L’accordo in sede di G7 su una tassa minima del 15%, che pure è un accordo al ribasso perché prevede un’aliquota piuttosto bassa, è un passaggio importante. Ma a essere cambiato è tutto il senso del discorso: l’idea che i grandi gruppi multinazionali utilizzino scatole cinesi, espedienti contabili e collocazione delle proprie sedi in paradisi fiscali europei e non, è divenuta inaccettabile alle opinioni pubbliche del pianeta e anche ai Governi nazionali alla disperata ricerca di entrate.
Allo stesso modo, l’idea che le persone più ricche del pianeta non paghino un centesimo di tasse è pure divenuta inaccettabile. Talmente inaccettabile che qualche dipendente dell’Internal Revenue Service (IRS), l’agenzia del fisco degli Stati Uniti, ha deciso di passare in forma anonima i file che riguardano i vari Bezos, Musk, Buffett a ProPublica, il media di inchiesta e non-profit, che li ha analizzati a fondo. Il risultato “demolisce il mito cardine del sistema fiscale americano secondo cui tutti pagano il giusto e i più ricchi pagano di più. I registri dell’IRS mostrano che i più ricchi possono – in modo perfettamente legale – pagare tasse sul reddito che sono una piccola frazione delle centinaia di milioni, se non miliardi, che hanno accumulato”. Non solo le Corporation pagano zero tasse, dunque, ma anche i loro manager e proprietari.
ProPublica ha analizzato i dati relativi alle 25 persone più ricche degli Stati Uniti comparando il dato su quanto hanno versato al fisco con la ricchezza calcolata da Forbes nella sua classifica annuale sulla ricchezza. Risultato? Negli ultimi dieci anni è capitato che diversi tra i ricchissimi non abbiano versato un centesimo in tasse, è successo a Bezos nel 2007 e nel 2011, a Elon Musk nel 2018 e diverse volte a Michael Bloomberg, che non a caso ha potuto buttare milioni in una disastrosa campagna per le primarie democratiche nel 2020. Tra il 2014 e il 2018 il reddito dei primi quattro miliardari è aumentato di cifre che oscillano tra i 13 e i 99 miliardi; su questa nuova ricchezza Warren Buffett ha pagato lo 0,10% di tasse sulla crescita, Jeff Bezos lo 0,98% ed Elon Musk il 3,27%. Non esattamente un salasso.
Quante scappatoie?
Ma come è possibile tutto questo? Le ragioni sono diverse. I salari dei miliardari sono spesso relativamente bassi (Bezos 80mila dollari l’anno) e la crescita dei loro patrimoni dipende dall’andamento dei pacchetti azionari in loro possesso, nonché delle loro proprietà. Questo aumento di valore non viene tassato se non quando le azioni o le proprietà vengono vendute. Non solo, ProPublica racconta il meccanismo secondo il quale queste persone la cui ricchezza è cresciuta di 401 miliardi tra il 2014 e il 2018 tendano a chiedere prestiti che devono poi ripagare. I tassi di interesse sono talmente bassi che prendere miliardi in prestito non costa quasi nulla, si usano quei soldi per le “spese correnti” e poi i dividendi per restituire quando dovuto. E così la nuova ricchezza diviene in parte soldi restituiti. Bezos, in un anno in cui ha perso soldi in Borsa, ha addirittura ottenuto un credito fiscale di 4mila dollari per le spese sostenute per il figlio.
Di scappatoie così ne esistono molte altre e le architetture sono spesso così complesse che l’IRS non ha le risorse necessarie per verificare se sia tutto e del tutto lecito. Nei casi presi in considerazione, comunque, stiamo parlando di modi di evitare di pagare le tasse che sono del tutto legali. Il dato interessante è che capita che le ispezioni sulla elusione fiscale avvengano in maniera molto più frequente nelle aree povere del Paese: se sei ricco puoi permetterti dei super-commercialisti, se sei povero sbaglierai ad archiviare le fatture e rischi la multa. Un tema di cui si parla da tempo e che Biden ha promesso di affrontare è tra l’altro il sotto dimensionamento e sotto finanziamento dell’IRS.
Perché sia tutto chiaro occorre aggiungere altri particolari: le imprese di cui queste persone sono proprietarie, manager o di cui detengono titoli azionari spesso non pagano tasse – e questi sono dati che conoscevamo già e che già suscitano scandalo nell’opinione pubblica. Le ricchezze individuali dei miliardari non vengono colpite neppure alla fonte. Aggiungiamo che i dati ottenuti da ProPublica riguardano i 25 più ricchi, ma che strumenti simili sono a disposizione di altre migliaia di miliardari e milionari d’America che in questi anni e durante la pandemia hanno visto crescere la propria ricchezza.
Altra vicenda in qualche modo legata a questa riguarda l’accordo del G7 sulla tassa globale al 15%. Perché? Non tanto e non solo perché si tratta di un’aliquota troppo bassa che in alcuni Paesi significherebbe un’imposizione più bassa di quella in vigore. La questione riguarda le trattative e il “prodotto” finale. È di ieri, infatti, la notizia secondo cui la Gran Bretagna sta premendo per escludere le imprese finanziarie da quella tassa. Una posizione che gli Stati Uniti non accetteranno perché il loro intento è non far pagare la nuova tassa solo a grandi gruppi americani. A partire dal 2008 e in maniera crescente con la pandemia il tema delle disuguaglianze è divenuto centrale e le ricchezze accumulate da imprese e individui intollerabili alla vista di vasti segmenti dell’opinione pubblica globale. I dati sul fisco Usa, la difficoltà a trovare un accordo buono in sede Ocse, le eccezioni richieste dal Regno Unito segnalano come il problema di far pagare il giusto a tutti e ciascuno, pur divenuto centrale, sia ancora lontano dall’essere risolto.
Usa: Manchin complica la vita di Biden
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Il senatore della West Virginia, Joe Manchin, è ottimista e ritiene che la democrazia americana non sia in pericolo. O almeno questo si desume dalla sua ultima presa di posizione in materia elettorale. Il senatore democratico che riesce a farsi rieleggere nell’ex Stato del carbone, dove Trump ha vinto a valanga anche nel 2020, ha infatti annunciato, con un articolo pubblicato dalla Charleston Gazette-Mail, che voterà contro la più grande revisione della legge elettorale degli Stati Uniti proposta dal suo partito, non lasciando speranze a un testo cruciale per garantire il diritto di voto negli Stati governati dai repubblicani. Manchin spiega la sua scelta con la necessità di preservare lo spirito bipartisan che dovrebbe ispirare le scelte sulle regole: non votarle congiuntamente “rischierebbe di dividere ulteriormente e distruggere la repubblica che abbiamo giurato di proteggere e difendere quando siamo stati eletti”.
Il progetto di legge, denominato “For the people’s act”, limiterebbe il ridisegno dei distretti congressuali fatto dalle maggioranze statali, introdurrebbe maggior trasparenza al sistema di finanziamento delle campagne elettorali e costringerebbe gli Stati a prevedere la possibilità di votare a distanza senza un giustificato motivo, nonché garantirebbe una finestra per votare di 15 giorni. Il testo sostenuto con forza dal Presidente anche durante il suo discorso a Tulsa nel centenario del rogo della “Black Wall Street”, è una risposta alle leggi votate dalle assemblee legislative a maggioranza repubblicana che restringono la possibilità di votare sulla base delle congetture false che lo scorso novembre la vittoria di Biden sia il frutto di frodi elettorali. La verità è che quello degli Stati Uniti è un sistema antiquato e barocco che si potrebbe rendere funzionale introducendo una tessera elettorale, il voto in un giorno di festa e altre piccole riforme considerate normali nelle altre democrazie avanzate.
La riforma del filibuster e delle infrastrutture
Con la maggioranza di uno che i democratici hanno al Senato, senza il voto di Manchin, la legge è destinata a venire bocciata. Allo stesso modo, il senatore della West Virginia tiene con il fiato sospeso l’amministrazione Biden e il suo partito sulla riforma del filibustering (l’ostruzionismo per aggirare il quale servono 60 voti) e persino sul pacchetto di infrastrutture proposto dalla Casa Bianca. Il senatore insiste sulla necessità di trovare un terreno comune ai due partiti, come da tradizione politica americana. Manchin sembra però non sapere o non vedere che il partito avversario ha come obiettivo quello di impedire all’amministrazione democratica di produrre risultati. Il leader repubblicano in Senato, Mitch McConnell, lo spiegò quando venne eletto Obama e sembra intenzionato a fare lo stesso con Biden. Il Presidente ha anche lui sostenuto la necessità di cercare compromessi con il campo avversario, ma di fronte al muro di gomma contro il quale sbattono le sue proposte sembra propendere per l’idea che occorra forzare la mano.
Ma cosa significa forzare la mano? Tutto e niente. La sinistra del partito ha preso ad alzare i toni nei confronti di Manchin e Sinema (senatrice dell’Arizona, anche lei tiepida nei confronti delle riforme elettorali) ma non ha frecce al suo arco. Il rappresentante di New York Mondaire Jones chiama Manchin “intellettualmente disonesto, perché si appella alla bipartisanship mentre sa che il partito repubblicano sta lavorando per smantellare il funzionamento delle istituzioni democratiche, la cooperazione tra partiti precede l’avvento di FoxNews e della propaganda di estrema destra”. Jones non ha torto, l’agenda del partito repubblicano non sembra avere altri punti all’ordine del giorno se non quello di far deragliare Biden.
Se però è difficile, ma possibile, riuscire a convincere i due senatori sulle leggi di spesa promettendo grandi cose per i loro Stati – la West Virginia è tra quelli socialmente ed economicamente peggio messi del Paese – tutto si complica se parliamo di riforme del sistema. Manchin pensa alla sua rielezione e sa che in uno Stato bianco al 92% le discussioni sul voto delle minoranze sono mal viste, mentre le retorica sul passato migliore messo in dubbio da un’America sempre meno omogenea funzionano benissimo.
L’unico ad avere armi per tentare di forzare la mano è Joe Biden. Nemmeno lui ha strumenti reali per far cambiare opinione a Manchin, ma potrebbe proporre delle ipotesi di compromesso, annacquare il testo in votazione e usare argomenti retorici contro il senatore ribelle. Così facendo fornirebbe una scappatoia a Manchin e porterebbe comunque a casa un risultato. Nulla però garantisce il voto a favore del senatore e senza quello Biden e tutto il Partito democratico hanno come prospettiva quella di non produrre risultati sul fronte degli investimenti in economia e welfare e di andare al voto di metà mandato con le regole restrittive volute da diversi Stati. È dunque probabile che Biden o il leader del Senato Schumer si apprestino a ridimensionare le proprie richieste nella speranza che Manchin cambi idea. Il rischio di perdere la maggioranza e di trovarsi, come Obama per sei anni su otto, a non poter produrre legislazione significativa, è dietro l’angolo.
Tulsa, 100 anni dopo la strage degli afroamericani
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Il primo giugno di 100 anni fa una folla di bianchi inferociti dava l’assalto al Greenwood District di Tulsa, Oklahoma, un quartiere della città noto come “Wall Street nera”, dove una middle class afroamericana fatta di ex schiavi e braccianti aveva costruito un quartiere florido e dotato di tutti i servizi nonostante la segregazione. Nei 35 isolati i neri compravano da neri e chi lavorava fuori dal distretto spendeva solo nei negozi neri. Un’economia separata che funzionava.
Nei giorni che precedettero la più brutale strage razzista della storia degli Stati Uniti, la polizia arrestò un giovane nero accusato di aver aggredito una ragazza bianca – un episodio dubbio – e i giornali locali soffiarono sul fuoco del risentimento razziale. Nelle ore successive i veterani neri si schierarono a protezione del carcere per impedire un linciaggio, vennero disarmati e trattenuti, altri vennero prelevati in casa dalla Guardia nazionale dopo che il governatore aveva dichiarato lo stato di emergenza. Così che la parte più combattiva della popolazione nera locale non era presente quando la folla marciò su Greenwood.
Nei due giorni dell’assalto si stima che siano stati uccise 300 persone e che siano stati incendiati o rasi al suolo 1.200 case e 60 negozi, decine di chiese, una scuola, un ospedale e una biblioteca pubblica.
Il centenario della strage
Nell’ennesimo passo simbolico nei confronti della comunità afro-discendente, il Presidente Biden ha scelto di essere in città per il centenario. Ma nel frattempo a Tulsa è cresciuta la tensione. Una disputa legale è in corso attorno ai fondi raccolti per un fondo che compensi i familiari delle vittime, ci sono polemiche attorno all’inaugurazione di un museo che ricordi la strage e nei giorni scorsi il New Black Panther Party ha marciato nelle strade della città armi alla mano. Nel frattempo, il governatore repubblicano dello Stato è stato espulso dalla commissione per il centenario dopo aver firmato la legge approvata dall’Assemblea legislativa che vieta l’insegnamento della “critical race theory”, una legge di quelle simboliche approvate per fare alimentare le polemiche e spaventare un po’ determinati segmenti della popolazione bianca. In fondo, per 75 anni, quando l’anniversario divenne notizia, non si era quasi parlato del rogo della Black Wall Street e la commissione per cercare “verità e giustizia” venne istituita solo nel 1996.
Tutta la vicenda della commissione, le polemiche attorno ai pochi sopravvissuti, il tema più ampio delle riparazioni per la comunità nera, per gli antenati degli schiavi privati di alcuni diritti e non coinvolti nei programmi di sviluppo successivi all’abolizione della schiavitù – nonostante fossero uomini liberi – sono il bagaglio di un Paese che si è raccontato la propria vicenda in maniera parziale, nella quale il razzismo, anche istituzionale, è figlio di episodi e non sistemico.
La questione razziale
Le celebrazioni per il centenario della strage sono dunque solamente uno dei momenti simbolici che mettono al centro uno dei nodi profondi della politica e della società americana. Niente di nuovo, se non fosse che la centralità delle notizie relative ai conflitti razziali (difficile chiamarli altrimenti) è in maniera crescente un argomento di polemica politica sottile da parte di un Partito repubblicano che punta in maniera quasi univoca sul risentimento dei bianchi nei confronti dell’America che cambia. Nell’anno del coronavirus è aumentato in maniera impressionante il numero di armi vendute, abbiamo assistito all’amplificazione di episodi di violenza nelle manifestazioni di protesta come fossimo di fronte a rivolte simili a quelle della fine degli anni ’60 e ogni occasione sembra buona per sottolineare in maniera negativa il nuovo protagonismo e la domanda di risposte da parte della comunità nera – la legge dell’Oklahoma sulla “critical race theory” è un buon esempio come le polemiche sulla ben più cruciale riforma della polizia. L’attenzione con cui è stato seguito il processo a Derek Chauvin, il poliziotto che ha ucciso George Floyd, è un sintomo di questa tensione sotto traccia.
Per Biden l’occasione di Tulsa è solo un passaggio, ma la montagna da scalare su questo fronte rimane molto ripida. Come ottenere risultati che contribuiscano a portare la comunità nera fuori da una condizione di minorità oggettiva senza fornire armi retoriche all’opposizione repubblicana? Un’idea generale è contenuta nei piani di investimento su infrastrutture e welfare, che prevedono interventi mirati nelle comunità più degradate – anche bianche, ma soprattutto nere. La questione della riforma della polizia è invece molto più difficile sa portare a casa, sia per ragioni pratiche – la competenza è spesso statale e di contea – che per ragioni simboliche. Tra l’altro l’aumento dei reati in un anno di crisi, viene cavalcato dai sostenitori della Legge & Ordine.
Il Presidente Biden deve la sua elezione alla mobilitazione della comunità nera che lo ha resuscitato politicamente alle primarie della South Carolina e gli ha portato la Georgia in dote e sente un dovere reale nei confronti della minoranza. Per lui e la sua amministrazione ottenere risultati tenendo a freno le tensioni che questi potrebbero comportare è un passaggio stretto ma necessario.
Facebook: Ue pronta ad aprire indagine su Marketplace
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I rapporti tra Big Tech ed Europa non sono mai stati idilliaci e se la mossa di Biden sulla tassa globale per le grandi corporation ha per adesso ridimensionato il potenziale scontro sulla web tax, i capitoli aperti restano sempre molti. La promozione di Margrethe Vestager a vicepresidente esecutiva dell’Unione e responsabile della concorrenza e della politica digitale, non ha giovato.
La Commissione europea è infatti pronta ad aprire un’indagine formale sulle pratiche anti-concorrenziali di Facebook, scrive il Financial Times. L’idea di Bruxelles è che il social network utilizzi in maniera disonesta gli strumenti pubblicitari promuovendo gratuitamente Marketplace, la piattaforma di compravendita lanciata nel 2016.
La domanda è semplice: capire se Facebook stia usando i suoi strumenti pubblicitari per promuovere Marketplace a scapito di altri strumenti di compravendita online. Come per Amazon, che può favorire con il proprio motore di ricerca interno i prodotti commercializzati direttamente e non quelli venduti sulla propria piattaforma da altri, ci troveremmo di fronte a un problema di distorsione della concorrenza. A oggi il gruppo guidato da Zuckerberg è l’unico a non essere incappato in problemi di questo tipo con l’Europa. Probabilmente perché, in fondo, Marketplace è ancora uno strumento relativamente piccolo.
Bruxelles aveva inviato questionari all’azienda all’apertura di Marketplace e poi lo ha fatto di nuovo. Facebook ha reagito citando Bruxelles in tribunale parlando di privacy dei suoi dipendenti. Il che sarebbe ironico, se non fosse tragico. L’Ue sta anche indagando sul potenziale comportamento anti-concorrenziale di Google nello spazio Adtech, mentre Facebook si vede al centro di un’indagine simile anche in Gran Bretagna.
L’Irlanda sulla tutela dei dati
Non basta: la settimana scorsa l’Alta Corte irlandese ha dato ragione a un militante pro-privacy austriaco, Max Schrems, che poneva il problema del trasferimento dei dati dei cittadini europei trasferiti per essere elaborati negli Stati Uniti. Le rivelazioni di Edward Snowden, sostiene il cittadino austriaco, mostrano come la tutela dei dati negli Usa non sia conforme a quanto richiesto dalla normativa europea. Cosa significa potenzialmente questo? Che Facebook (ma anche le altre Big Tech) potrebbero doversi trovare a tenere i dati europei in Europa. Un passaggio complicato, “potenzialmente devastante”, hanno commentato a Facebook, che ha fatto appello e ha qualche settimana di tempo per fornire prove…
L’Irlanda è il luogo in cui una quantità di compagnie tecnologiche e non solo Usa hanno posto il loro quartier generale europeo per ragioni fiscali e di conseguenza le sue autorità hanno competenza in materia di protezione dei dati degli europei.
Se la Corte dovesse confermare la propria decisione terminerebbe l’accesso privilegiato che le imprese americane hanno ai dati personali degli europei, mettendole sullo stesso piano di altre extra Unione. Il paradosso è che l’Unione europea ha a sua volta fatto pressioni su Dublino perché ritiene che la sua agenzia per la protezione dei dati non svolga a dovere il suo compito, sia sotto finanziata e non dotata di strumenti tecnologici adeguati. Il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione a riguardo.
Non è finita qui, l’agenzia per la protezione dei dati di Amburgo ha vietato a Facebook di elaborare i dati aggiuntivi degli utenti di WhatsApp dopo che l’app di messaggistica aveva richiesto agli utenti l’approvazione a farlo con un click – cambiando i termini di utilizzo dopo un aggiornamento obbligatorio. Nel complesso insomma, tra Big Tech ed Europa le partite aperte sono davvero molte, come è normale in una fase in cui la regolamentazione relativa all’utilizzo dei dati personali è un tema che riguarda in maniera crescente l’economia. L’Europa sembra essersene accorta nonostante le difficoltà a capire come intervenire. Le Big Tech, invece, proprio non vogliono accorgersene. O meglio, come recita un libro scritto da Jonathan Taplin, continua ad agire seguendo l’idea di “Move fast e break things”, ovvero muoversi abbastanza velocemente da impedire al regolatore di stabilire un quadro normativo efficace.
Usa: i dilemmi di Biden
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Le stagioni politiche americane sono brevi. L’amministrazione Biden e la sua maggioranza in Congresso sono infatti già alle prese con il problema 2022, quando come ogni metà mandato si rinnovano la Camera e un terzo del Senato. I democratici devono sperare di mantenere la loro maggioranza nonostante le leggi che restringono e limitano l’esercizio del voto e il prossimo ridisegno dei distretti elettorali negli Stati a guida repubblicana che avverrà costruendo confini dei singoli collegi pensati per favorire i candidati del Grand Old Party (l’assurda pratica di disegno partigiano dei collegi elettorali è nota come gerrymandering).
Come contrastare queste pratiche che cambiano le regole per cambiare i risultati elettorali? Nella testa di Biden e dei suoi la soluzione ci sarebbe: ottenere risultati. Ma dopo le prime settimane di grande dinamismo e successi – il pacchetto economico di tamponamento della crisi da Covid e la campagna vaccinale a Washington tutto sembra essersi fermato.
Biden ha lasciato ai partiti in Congresso il compito di negoziare su alcuni temi divisivi e complicati sui quali però serve davvero raggiungere compromessi affinché passino e si evitino crociate “fine di mondo” di quelle che distraggono l’opinione pubblica e mobilitano l’elettorato a lui avverso. Su immigrazione, controllo e regole per la circolazione di armi da fuoco, riforma della polizia, si chiede il contributo degli eletti e dei due partiti e si offrono gli strumenti dell’amministrazione per fornire know-how tecnico. Su questi temi in Senato si discute e ci sono tentativi di produrre legislazione condivisa; il video nel quale si vedono due poliziotti della Louisiana uccidere e insultare l’afroamericano Ronald Greene aiuterà a tenere alta l’attenzione sulla necessità di far passare qualche provvedimento in materia di polizia.
Il pacchetto sulle infrastrutture
Le carte Biden le vuole giocare sulla legislazione economica: infrastrutture, welfare, transizione ecologica, fisco. Ma la campagna elettorale si avvicina anche per il Partito repubblicano e non è affatto detto che una forza politica che continua a essere ostaggio dell’ex Presidente Trump voglia lavorare su un compromesso. Non il partito e la sua leadership almeno. Ma per i singoli eletti le cose sono diverse: quanti benefici porterebbe il provvedimento X in quella contea dove il rappresentante Y viene eletto? Come e quanto impatterebbe il piano infrastrutture sull’economia dello Stato di questo o quel senatore? Queste sono le domande a cui probabilmente Biden fornisce risposte in incontri con i singoli eletti, alcuni dei quali ha visto nelle settimane passate. I negoziati in Congresso avvengono molto e anche così e il Presidente ne ha lunga esperienza. Ma basterà?
La scorsa settimana la Casa Bianca ha avanzato una sua ipotesi di ridimensionamento del pacchetto infrastrutture, venendo incontro alle obiezioni sul deficit dei senatori moderati di entrambi i partiti e alle preoccupazioni diffuse su deficit e inflazione. L’idea sottoposta a un gruppo di senatori repubblicani è quella di ridurre la spesa di circa 500 miliardi, ma non di ridimensionare il concetto di infrastruttura che il partito di Trump contesta: per i democratici le infrastrutture sono anche la banda larga o alcune spese di welfare e per la transizione ecologica. Le differenze rimangono anche su come finanziare la spesa futura. I repubblicani sono per ridimensionare il pacchetto e imporre tariffe sulle nuove infrastrutture, l’amministrazione rifiuta questo approccio perché ritiene che si debbano raccogliere risorse eliminando i tagli alle tasse fatti da Trump e con nuove tasse sui redditi più alti – oltre che con le misure in discussione in sede Ocse sulle tasse ai grandi gruppi e i profitti fatti all’estero. Far pagare tariffe sulle nuove infrastrutture, spiegano alla Casa Bianca, significherebbe aumentare le tasse a tutti i cittadini, mentre il Presidente ha promesso di non alzarle a chi guadagna meno di 400mila dollari l’anno. Per certi aspetti è una delle differenze tra una politica fiscale di destra e una di sinistra.
In un’intervista al New York Times, Biden racconta più o meno di non essere cambiato in termini politici, ma di ritenere che l’America abbia preso le distanze dalla se stessa del pre e Dopoguerra, quando l’accesso all’istruzione superiore di qualità non era roba da milionari, i salti erano contrattati dai sindacati e così via. “Oggi siamo a un passaggio di fase cruciale e dobbiamo attrezzarci e per questo le leggi che propongo sono di quella dimensione”, dice in sostanza il Presidente. Sulla dimensione e la direzione delle iniziative legislative da prendere le distanze con il partito di opposizione rimangono. Alla Casa Bianca spiegano che la volontà di trattare c’è, ma che se non ci saranno segnali di compromesso, l’amministrazione premerà affinché si proceda comunque. Per avere un’agenda ambiziosa nei due anni finali della presidenza, Biden dovrà mantenere la maggioranza e per mantenerla deve ottenere risultati. Se non c’è modo di portarli a casa con il metodo bipartisan si tenterà con il metodo “o la va o la spacca”.
Arabia Saudita: il metodo Biden tra Riad e Teheran
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Interessi condivisi e divergenti, alleanza solida quanto instabile e poi tante armi e tanto petrolio. Quella tra Riad e Washington è un’alleanza strategica continuamente messa alla prova. Questa tensione continua la rivediamo in forma plastica nei primi mesi della presidenza Biden, che vorrebbe coniugare gli interessi geopolitici, economici e strategici con un ritorno alla promozione dei valori democratici e il rispetto dei diritti umani. Un equilibrio complicato da sostenere senza perdere la faccia, dimenticando la democrazia dopo averla promossa, o facendo infuriare qualche despota in un momento in cui la competizione per la primazia con la Cina e le tensioni con la Russia sono alle stelle. Un equilibrio tanto più delicato dopo i disastri fatti dagli Usa in nome della democrazia nei primi anni Duemila e l’abbandono di quei valori nelle relazioni internazionali da parte dell’amministrazione Trump. Ma quando parliamo delle relazioni con l’Arabia Saudita, avere in mente questa idea di politica estera, questa “dottrina Biden” è importante.
Il petrolio è il primo fattore che porta gli americani a sbarcare nella penisola araba poco dopo la nascita del regno nel 1932. La Standard Oil vinse una concessione per le trivellazioni nel 1933 e trovò i primi giacimenti cinque anni dopo. Negli anni la cooperazione petrolifera crebbe, prima Texaco, poi altri gruppi formano la Aramco (Arab American Company), cartello che viene definitivamente acquisito dal regno saudita nel 1980. Gli interessi petroliferi permangono nonostante il monopolio statale dell’estrazione di quella che oggi è la Saudi Aramco, che ha ancora quel Am(erica) nel nome.
Gli scambi non riguardano solo il petrolio: i sauditi comprano armi americane in gran quantità (90 miliardi dagli anni 50 a oggi) con un’impennata in un periodo recente, legato alla volontà di divenire potenza regionale, alla crescente rivalità sunnita-sciita e, naturalmente, alla guerra in Yemen. Tra 2010 e 2015 i trasferimenti di armi ammontavano in media a 3 miliardi l’anno, dopo l’avvio delle ostilità gli Usa hanno venduto oltre 64 miliardi di dollari di armi a Riad. Il Presidente Trump ha siglato una serie di contratti per gli anni a venire. Il Public Investment Fund saudita ha poi enormi interessi in imprese americane: due miliardi in Uber e, nell’anno della pandemia, anche acquisizioni per 713,7 milioni in Boeing, circa 520 in Citigroup, 522 in Facebook, 495 in Disney e 487,6 in Bank of America. Anche gli scambi culturali sono imponenti: i sauditi nelle università americane sono il 4° gruppo più grande di allievi stranieri. Ospitare figli di nababbi, sauditi, cinesi o ex sovietici è un bell’affare per le Università della Ivy League e simili.
La storia delle relazioni internazionali è meno piana. Il primo incontro tra i due Paesi avviene durante una serie di stop di Franklin Delano Roosevelt nel 1945 di ritorno da Yalta, quando incontrò re Farouk d’Egitto, l’imperatore Haile Selassie d’Etiopia e venne convinto da William A. Eddy, figura cruciale per la storia delle relazioni mediorientali degli States, a incontrare anche re Abdulaziz. Né allora, né poi i due Paesi stabilirono legami in maniera formale, Stati Uniti e Arabia Saudita non hanno un trattato di mutua difesa. Un’amicizia tormentata che si basa sul petrolio, prima, e sugli interessi strategici nella regione durante e dopo la Guerra fredda. Con frenate come la crisi petrolifera del 1973, generata dal boicottaggio arabo in reazione alla guerra del Kippur.
Con la caduta dello Shah in Iran e la fine della Guerra fredda i destini si intrecciano in forme diverse rispetto al Dopoguerra. L’indipendenza energetica raggiunta dagli Stati Uniti negli ultimi anni rende meno pressante dal punto di vista economico il legame con la penisola araba. Ma restano gli interessi strategici e i legami economici.
La rottura con Teheran rende Riad un alleato regionale (e un fornitore) più che necessario. Nel 1991 gli Usa chiesero e ottennero di passare nel territorio saudita per entrare in Kuwait, scelta che fece infuriare l’ala conservatrice del Paese, che mal tollerava il legame con l’Occidente, con cui pure si era collaborato per fermare l’occupazione sovietica in Afghanistan. Un anno dopo Osama bin Laden lasciava il Paese e dieci dopo, in conseguenza dell’attentato dell’11 settembre, i rapporti tra i due Paesi raggiungevano il punto più basso. Dopo il nuovo consenso dato obtorto collo all’uso della base di Al Kharj per la seconda guerra contro l’Iraq e la richiesta di rimuovere la presenza permanente in territorio saudita, gli americani si spostarono in Qatar.
Riad non gradì neppure le aperture obamiane a Teheran, il mancato coinvolgimento nei colloqui sul nucleare e la spinta alle primavere arabe.
Gli anni di Obama e del suo relativo disinteresse per il Medio Oriente e l’Europa, le primavere arabe e il ridisegno degli equilibri regionali (al quale stiamo ancora assistendo) e poi l’ascesa di Mohamed bin Salman (MBS) da un lato e quella di Trump dall’altro cambiano ancora le cose. Il principe della corona che ha spodestato il suo predecessore bin Nayef, un fautore del legame strategico con Washington, ha una storia di critiche nei confronti della politica estera Usa ma ha ottenuto il pieno sostegno di Obama all’intervento contro le milizie sciite Houti in Yemen − un sostegno che vide contrario l’attuale capo del Pentagono, all’epoca comandante americano nella regione. Con Trump il riavvicinamento e uno slittamento di una parte consistente degli arcinemici di Israele verso il riconoscimento dello Stato ebraico. Ma anche la copertura dell’omicidio di Jamal Khashoggi.
Veniamo a Biden, il difficile equilibrio tra alleanze con Paesi democratici o autoritari e la promozione e il sostegno ai diritti umani. Le azioni che la nuova amministrazione ha preso sono una rottura netta con la politica americana negli anni di Trump. Il repubblicano aveva nel genero Jared Kushner un plenipotenziario in Medio Oriente e questi, a sua volta, aveva un rapporto personale con MBS. Trump fece la sua prima visita ufficiale a Riad e invitò MBS alla Casa Bianca anche prima che questi divenisse principe della corona saudita. Biden ha invece scelto di fare la sua prima telefonata al re − e non al leader saudita de facto − ha rivisto la posizione sullo Yemen, sospendendo la cooperazione in materia di intelligence e la vendita di una parte delle armi da guerra − mentre scriviamo non è chiaro quante e quali. Il passo simbolico più importante è però la desecretazione del breve rapporto CIA che indica in MBS il mandante dell’efferata uccisione di Khashoggi. Nel colpire alcuni interessi sauditi, l’amministrazione Biden non ha però inteso arrivare al vertice: MBS non viene toccato dalle sanzioni. Non solo, Washington condanna con veemenza ogni attacco Houti e ribadisce l’amicizia e il sostegno a Riad. Per questo e per evitare di farsi soffiare un buon cliente dalla concorrenza non sospende del tutto la vendita di armi. Eppure il presidente era spesso stato critico dell’eccesso di reverenza nei confronti di Riad e aveva promesso di far pagare ai sauditi “il prezzo, e renderli di fatto il paria che sono” e non aveva usato parole gentili neppure per la famiglia reale saudita. Che calcolo c’è dietro a queste prese di posizione non del tutto lineari?
C’è innanzitutto il tentativo di ridimensionare l’impegno americano in Medio Oriente, ma senza ripetere gli errori di Obama, che disinteressandosi dell’area (e dell’Europa) ha lasciato un quadro instabile. C’è poi la volontà di riaprire canali con l’Iran, a partire dal nucleare, ma non solo: depotenziando quella minaccia e svolgendo un ruolo di mediazione tra sunniti e sciiti, molte delle tensioni mediorientali verrebbero ridimensionate. In queste settimane dall’Iraq giungono notizie di contatti tra Teheran e Riad (così come di contatti con Egitto e Giordania), segno che qualcosa si muove. Nonostante tutto, l’Arabia Saudita rimane l’interlocutore privilegiato nell’area e per come ha accentrato il potere nelle sue mani, MBS, è la persona con cui parlare a Riad: farselo nemico non sarebbe astuto, mentre avergli fatto pressioni può aiutare a rendere lo sceicco più collaborativo. Il Coronavirus ha danneggiato l’Arabia Saudita per varie ragioni (dalla domanda di petrolio in giù) e MBS ha anche subito un danno di immagine internazionale notevole. Un colpo grave per un quasi certo futuro sovrano con grandi ambizioni internazionali che ha eliminato tutti i suoi rivali e avversari. Avergli mandato un segnale chiaro senza avergli fatto pagare serie conseguenze può essere stata una scelta oculata: gli Stati Uniti hanno bisogno di buone relazioni con Riad, ma al contempo devono pretendere dal futuro sovrano qualcosa che non si limiti alle alleanze militari. La dottrina Biden chiede qualcosa di più in termini di diritti umani e volontà di negoziare. Sul secondo fronte, sembra di cogliere qualche novità (anche in Yemen), come a far capire che il messaggio è stato in parte recepito. In fondo, anche a bin Salman farà comodo essere amico di Washington. Chissà che abbia capito che per rimanere tale non si devono sciogliere gli oppositori nell’acido.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Israele: Ue paralizzata sul cessate-il-fuoco
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Non risono solo gli Stati Uniti a essere bloccati, a non incalzare le parti in conflitto a Gaza affinché giungano a un cessate-il-fuoco immediato: l’Europa è paralizzata. Non perché non avrebbe una posizione comune, ma per il veto di un solo Paese.
L’Ungheria ha deciso, unico membro Ue, di bloccare un testo presentato dall’Alto rappresentante per la politica estera europea Borrell che chiedeva alle parti un immediato cessate-il-fuoco. Non è la prima volta che Budapest usa il suo potere per impedire prese di posizioni comuni europee, era già successo con la Cina: i rappresentanti del Governo Orbán a Bruxelles hanno impedito la diffusione di un testo che condanna la restrizione degli spazi democratici a Hong Kong – facendo infuriare la Germania.
In un’intervista con l’AFP, il Ministro degli Esteri ungherese Szijjarto ha insistito che bloccare le decisioni in sede europea “è un diritto di ogni Paese dell’Unione” e ha criticato la posizione del resto del blocco dicendo che: “La diplomazia dell’Ue non dovrebbe consistere solo in giudizi, dichiarazioni negative e sanzioni. Meno giudizi, meno lezioni, meno critiche, meno interferenze e più cooperazione pragmatica potrebbero ridare molta forza all’Unione. I testi sulla questione sono di solito molto unilaterali, e non aiutano, specie non nelle circostanze attuali”. Sembra di capire però che l’Ungheria non abbia proposto un testo alternativo. Budapest ha una sua politica estera, se ne infischia di quella europea, la paralizza e parallelamente critica l’immobilismo del blocco. Tra l’altro, come avvenuto con altri Governi affini in termini politici, Orbán e Netanyahu hanno cementato il rapporto tra i Paesi, ad esempio con l’apertura di un ufficio commerciale ungherese a Gerusalemme, riconoscendo in qualche modo la città come capitale di Israele.
Il testo proposto da Borrell non aveva nulla di particolarmente controverso: “La priorità è la cessazione immediata di tutte le violenze e l’attuazione di un cessate-il-fuoco per proteggere i civili e fornire l’accesso umanitario a Gaza” non è una condanna di Israele, cui si diceva che aveva il diritto di difendersi dagli attacchi missilistici lanciati da Hamas ma si chiedeva di farlo in maniera proporzionata.
Questa crisi è l’ennesimo segnale di un blocco europeo che stenta a prendere posizioni comuni anche quando si tratta di un tema tutto sommato non controverso. Non stiamo parlando di un piano di pace, infatti, ma della semplice richiesta di porre fine alle operazioni militari da entrambi i lati.
Borrell aveva già sottolineato le divisioni del conflitto in corso prima di ieri sostenendo che queste hanno ridimensionato di molto l’influenza europea nella regione. “Non abbiamo la capacità di mediazione per risolvere questo gravissimo momento di tensione tra Palestina e Israele. Questo può essere fatto solo dagli Stati Uniti, ammesso che lo vogliano”, ha detto il diplomatico spagnolo.
Rammarico è stato espresso dal Ministro tedesco Maas, che ha chiesto un maggiore impegno di mediazione da parte del Quartetto (Ue, Usa, Onu e Russia) che da parte dell’inviato speciale europeo Sven Koopmans. Quanto alla Francia, impegnata in uno sforzo in sede Onu, il Ministro Le Drian ha parlato di “situazione sul terreno estremamente preoccupante” e del rischio che il conflitto si allarghi. Il capo della diplomazia francese ha aggiunto che “una delle ragioni della situazione drammatica di oggi è proprio l’assenza di prospettiva di un processo politico. Quello che dobbiamo fare è trovare la strada per un processo politico, ma prima di tutto, fare in modo che ci sia la fine delle ostilità”.
Lo stesso Borrell è stato piuttosto duro: “Mi sono permesso di ricordare ai miei colleghi che la missione del Consiglio degli Affari Esteri è di contribuire alla creazione di una politica estera e di sicurezza comune. Non è un capriccio, è un mandato dei trattati”. Il problema dell’Unione europea, uno tra gli altri, è che Paesi sotto la lente di Bruxelles, per ragioni che nulla hanno a che fare con la diplomazia – il rispetto dello Stato di diritto -, tendono a usare la politica estera e non solo quella come strumento di ricatto. E usano l’anti-europeismo come argomento di perenne campagna elettorale.
Cosa pensa l’opinione pubblica americana di Israele
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Il business as usual non vale più. La risposta statunitense alla guerra di Gaza è fino a oggi di quelle date in automatico, almeno nella sua parte pubblica. “Ogni vittima è una tragedia, ma Israele ha diritto a difendersi dalla aggressione di Hamas”: questa è sostanzialmente la frase che leggiamo in ciascun comunicato e nelle trascrizioni delle telefonate tra diplomatici statunitensi e Ministri degli Esteri dei Paesi della regione. Prima dell’escalation, la posizione americana era più articolata, l’idea era quella di fare pressione su Israele affinché evitasse azioni come gli sgomberi di Sheikh Jarrah destinati a infiammare gli animi – e fornire un alibi ad Hamas per il lancio di razzi. Quell’atteggiamento non ha impedito l’escalation e oggi gli Stati Uniti frenano una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu con l’argomento che condannare l’azione di Israele non faciliterebbe il compito dei mediatori sul campo.
Il rapporto del Pew Research Center sugli ebrei americani
Questa è la situazione internazionale e per certi aspetti somiglia al passato. La novità, Biden se la trova in casa: l’opinione pubblica ebreo-americana e quella americana in generale stanno progressivamente cambiando idea sul sostegno incondizionato allo Stato ebraico. Non c’è odio o inimicizia ma un punto di vista meno univoco. Partiamo dal dato sugli ebrei americani. In un rapporto recente pubblicato dal Pew Research Center leggiamo: “Quasi sei ebrei statunitensi su dieci dicono di essere molto legati emotivamente (25%) o un po’ legati emotivamente (32%) a Israele. La percentuale di adulti che sono almeno un po’ attaccati a Israele è due volte più alta tra gli ebrei religiosi (67%)”, che tra quel quarto circa di ebrei americani che non sono religiosi (33%). Due terzi degli interrogati dal Pew ritengono che la coesistenza pacifica sia possibile e il 54% non ha una buona opinione di Netanyahu. I giovani e i non religiosi esprimono queste convinzioni in percentuali più alte che gli anziani e i religiosi – poi c’è la relativamente alta percentuale di giovani ortodossi (17% degli under 30 contro un 9% in totale).
La maggioranza degli ebrei americani ha un giudizio negativo sulle politiche di Trump nei confronti di Israele, nonostante l’ambasciata a Gerusalemme e i riconoscimenti da parte di diversi Paesi della regione. Negli anni è cresciuto il numero di coloro che ritengono che il sostegno americano sia eccessivo. Nella comunità ebraica americana, dunque, il legame con Israele non passa necessariamente per un sostegno incondizionato alle sue scelte politiche. Ultimo dato: gli ebrei americani hanno votato Biden al 76%, il che spiega il giudizio su Trump ma complica la vita di Biden.
Cosa pensano gli americani di Israele
Poi c’è la società americana nel suo complesso. Guardiamo all’osservatorio Gallup. Israele è visto con favore dalla stragrande maggioranza degli americani, ma nell’ultimo quadriennio la simpatia complessiva cala (da 64% a 58%) e cresce quella per l’Autorità palestinese (da 19% a 25%). Cresce nettamente la percentuale di coloro che ritengono che Washington dovrebbe mettere più pressione su Israele affinché si impegni in un processo di pace (+7% tra 2018 e oggi). Naturalmente le differenza di giudizio passano anche per il voto: i democratici e gli indipendenti sono più critici nei confronti di Israele che non i repubblicani. Il partito di Trump ha un legame affettivo con Netanyahu e uno religioso con Israele. Gli evangelici americani hanno una relazione speciale con lo Stato ebraico per ragioni religiose e politiche, in pillole: la nascita di Israele conferma la profezia del ritorno di Gesù, mentre a partire dagli anni ’70 anche il sostegno in termini di lobby, pressione sulle amministrazioni repubblicane e sostegno economico è una costante. Con il passare degli anni gli evangelici hanno teso a sostenere posizioni e punti simili a quelli della destra israeliana. Gli evangelici, tra l’altro, sono contrari al processo di pace (sempre per motivi religiosi).
La condanna dei media e dei Dem
Il problema è dunque tutto in casa Biden. Diversi media americani importanti hanno pubblicato articoli critici di autorevoli commentatori ebrei. “Come Trump, sia Bibi che Hamas hanno mantenuto il potere ispirando e cavalcando onde di ostilità verso “l’altro”. Si rivolgono a questa tattica ogni volta che si trovano nei guai politici”, scrive Thomas Friedman sul New York Times (Friedman non è la nuova generazione, è establishment), mentre Peter Beinart su Jewish Currents provoca sostenendo che il diritto al ritorno vale a Sheikh Jarrah come per i palestinesi. Voci di sinistra come +972Mag sono minoritarie ma persino più dure.
Ci sarebbero altri esempi, quasi tutti interni al mondo democratico. Bernie Sanders ha scritto un editoriale sul New York Times in cui chiede di rivedere la posizione americana e di tagliare gli aiuti militari; la rappresentante del Minnesota McCollum ha presentato un progetto di legge che impedirebbe agli aiuti militari Usa di finanziare la detenzione di bambini palestinesi, il sequestro o la distruzione di proprietà palestinesi, o l’annessione di territori. La legge non verrà nemmeno discussa, ma è un segnale. Poi ci sono i toni durissimi della Squad di Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Rashida Tahib (di origini palestinesi) e Cori Bush. Persino il senatore del New Jersey Menendez, un filo israeliano vecchia maniera, ha diffuso un comunicato critico dopo l’abbattimento dell’edificio nel quale lavoravano AP e al Jazeera.
Nel complesso, segmenti importanti dell’opinione pubblica democratica fanno fatica a guardare quanto succede a Gaza senza immaginare una politica diversa verso Israele. Non ostile, ma neppure sempre uguale. Come e quanto questa opinione influenzerà la politica estera degli Stati Uniti o costerà consensi a Biden lo scopriremo nelle prossime settimane.
Se ti interessa l’argomento, scopri il nostro Workshop di Geopolitica sugli Stati Uniti.
Siamo pronti al cambiamento climatico?
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Le città del pianeta sono impreparate a combattere il cambiamento climatico. Eppure sono proprio i centri urbani, molti tra i quali nati e cresciuti sul mare, a essere i luoghi più a rischio e dove, tra l’altro, si concentra la popolazione in maniera crescente. Per parlare dei casi famosi e avere un esempio di cosa potremmo aspettarci, pensiamo agli effetti dell’uragano Sandy su New York nel 2012: metà città al buio per una settimana, case allagate, decine di migliaia in grande difficoltà per molti giorni. Ma quello era l’antipasto. Ci sono città che si sono dotate o si stanno dotando di barriere, ma i dubbi sull’efficacia di questi sistemi non riguardano solo Venezia.
Un rapporto del Carbon Disclosure Project (CDP), che raccoglie dati da centinaia di città, fa un quadro sull’impreparazione delle città e sulla difficoltà di trovare risorse per combattere e adattarsi al cambiamento climatico e ai suoi effetti. Ci sono cattive notizie e passi in avanti che provengono dalle 800 città monitorate. Il 93% tra queste è a rischio in qualche modo e il 43%, per 400 milioni di abitanti, non ha un piano in essere su cosa e come fare nei prossimi anni. Una delle ragioni per l’assenza di un piano è la mancanza di risorse o l’idea che siano gli Stati nazionali a dover finanziare, programmare e intervenire. Il 60% delle città ha sistemi di fornitura dell’acqua potenzialmente a rischio e molte tra queste non hanno un piano per intervenire. L’inquinamento dell’acqua e il rischio di epidemie sono i principali pericoli citati dalle città monitorate dal rapporto. Naturalmente, la popolazione più a rischio è anche quella che è già oggi più vulnerabile. Quasi tutte le città già segnalano effetti come ondate di calore estremo, fenomeni atmosferici anormali che si ripetono con frequenza maggiore, inondazioni e siccità.
Sul fronte positivo, il CDP segnala una maggiore consapevolezza, un numero maggiore di centri urbani che pianificano o almeno fanno valutazioni e scenari sul futuro. Altri stanno facendo passi in avanti. Vediamo qualche dato. La produzione di energia nelle città incluse nel rapporto è per il 42% proveniente da energie rinnovabili contro il 26% della produzione globale, 339 città hanno dei piani sulla riduzione di emissioni, mentre nel 2011 erano solo 16 – un dato, questo, che ci dice quanto la politica sia troppo spesso ridotta alla gestione del qui e ora. Decine di città piantano alberi e altre costruiscono nuove infrastrutture già pensate per resistere a eventuali crisi ambientali, altre si dotano di sistemi di allarme e monitoraggio. Nel complesso le azioni più diffuse sono la transizione verso forme di energia rinnovabile, l’efficientamento energetico, la riduzione del traffico urbano o il passaggio a sistemi di trasporto elettrici. Il 10% delle città hanno già una produzione di energia al 70% rinnovabile, il che segnala a tutti che si può fare. Sul fronte della programmazione, sono in crescita sistemi di trasporto collettivo e migliorano gli standard energetici delle nuove costruzioni, ma nel complesso si tratta di percentuali relativamente basse. Il che ci racconta di un mondo a tante velocità, nonostante l’impatto del cambiamento climatico non starà a guardare chi e come si è preparato.
Il rapporto è utile perché mappa la situazione di un contesto sociale e geografico (quello urbano) che è il centro delle attività umane e perché ci ricorda che per combattere il cambiamento climatico serve avere un quadro complessivo, ma serve anche sviluppare conoscenze e ipotesi di lavoro per ambiti diversi, settori di produzione, spazi, consumi e così via. Con un limite: qui si raccolgono dati dalle città che molto spesso tendono a elaborare piani e ipotesi perché chiamate a farlo, a prescindere da una reale implementazione e verifica dell’efficacia del piano. Un esempio? Nel rapporto è inclusa anche Roma, che forse ha approvato dei piani sulla carta, ma che (sono pronto a essere smentito) non sembra aver fatto passi da gigante nella direzione di un adattamento al clima (salvo svuotare i tombini dalle foglie secche durante l’autunno, ma solo dopo che, qualche anno fa, la città si è allagata a causa delle piogge).
Sui colloqui Iran-Usa, l’incognita delle elezioni a Teheran
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Il prossimo 18 giugno gli iraniani saranno chiamati a eleggere il nuovo Presidente. Come al solito e per grandi linee lo scontro sarà tra conservatori e riformisti. I riformisti non sono messi bene: lo scherzo di Trump di uscire dall’accordo nucleare e gli omicidi mirati israeliani forniscono argomenti all’ala più dura, l’inflazione è alle stelle e l’economia, nonostante sia in leggera crescita, è stata in recessione per i due anni precedenti. Come sempre prima del voto iraniano la situazione per chi non conosce a fondo le dinamiche della politica e della società iraniane è confusa, moltissimi candidati, attesa per altri e per sapere se e quanti verranno bloccati dal Consiglio dei guardiani.
Per queste e molte altre ragioni gli Stati Uniti e i partner europei hanno dato un’accelerata ai colloqui con Teheran sul nucleare. O meglio sul rientro al Joint Comprehensive Plan of Action (JCPoA) da parte americana e un rispetto delle regole imposte da quel piano da parte iraniana. Da settimane in un albergo di Vienna diplomatici europei fanno la spola tra una delegazione di Teheran e una di Washington, che dialogano ma solo per interposta persona. Per americani ed europei c’è fretta di mettere molti particolari al sicuro prima del voto di giugno, in maniera da evitare di dover cominciare a trattare sul serio con un Presidente potenzialmente ostile a qualsiasi accordo. Washington era restia a colloqui fino a quando gli iraniani non avessero fatto passi in avanti, ma dopo le pressioni dell’Europa, con la quale gli Usa sono in debito in materia di Iran, avendo loro fatto saltare gli accordi, e l’accelerazione del programma nucleare di Teheran, la scelta è caduta sul dialogo immediato. Tra l’altro, l’ayatollah Khamenei, la Guida Suprema, pur essendo un alleato dell’ala intransigente, è favorevole al proseguimento dei negoziati.
Le posizioni di partenza sul tavolo sono relativamente inconciliabili, gli americani vorrebbero un accordo quadro che, oltre a impedire all’Iran di dotarsi di una bomba atomica, affronti il tema dei missili balistici di precisione che Teheran ha sviluppato e quello del sostegno a gruppi terroristici e milizie straniere. Dal canto loro, gli iraniani chiedono la fine di tutte le sanzioni in cambio del ritorno all’accordo del 2015. Al momento, la cosa più probabile è uno scambio tra una riduzione drastica delle sanzioni e il ritorno di Teheran a sottostare alle ispezione della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Iaea).
Questa almeno è la versione delle cose data dal Presidente Rouhani ai media del suo Paese. “Restano da concordare i dettagli – ha detto il Presidente iraniano, non corroborato da dichiarazioni simili europee o americane -: quasi tutte le sanzioni principali sono state eliminate (nel testo in preparazione, ndr) e i colloqui continuano su alcuni dettagli”.
Le intenzioni degli Stati Uniti
Il Presidente Biden, cui è stato chiesto se l’Iran avesse intenzioni serie ha risposto: “Sì, ma quanto e cosa sono disposti a fare è una storia diversa. Ci stiamo ancora confrontando”. La verità è che Teheran vuole accelerare e tende a dare l’accordo per fatto, mentre a Washington vorrebbero almeno che quanto si decide adesso fosse il primo passo verso qualcosa di più ampio. L’unico dato certo, confermato da europei e russi è che le parti stanno negoziando in maniera collaborativa: “I colloqui sono iniziati i primi di aprile”, ha twittato il rappresentante russo Mikhail Ulyanov; “Le delegazioni sembrano essere pronte a rimanere a Vienna tutto il tempo necessario per raggiungere l’obiettivo”. Sembra di capire che in un gesto di buona volontà, Biden sarebbe pronto a scongelare un miliardo di dollari come “aiuto umanitario”, che significherebbe trasferire risorse senza bisogno di togliere le sanzioni. Ma prima, sottolineano a Washington, vogliamo dei passi concreti della controparte.
Gli Stati Uniti vogliono da tempo fare passi indietro in Medio Oriente e proprio per questo stanno mettendo all’opera un’offensiva diplomatica ad ampio raggio nella regione. I contatti tra sauditi e iraniani sono anche frutto del nuovo atteggiamento americano nei confronti di Mohammed bin Salman e della volontà di riaprire i canali con Teheran. Riportare relazioni normali tra le due potenze regionali, che oltre al petrolio hanno un peso religioso per le comunità sunnita e sciita, sarebbe un colpo. Certo, difficile a realizzarsi in un contesto nel quale giocano anche la Turchia, Israele e altri attori.
A proposito di Israele, per rassicurare un po’ gli alleati più stretti nella regione, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e il suo omologo israeliano Meir Ben-Shabbat hanno concordato di istituire un gruppo di lavoro per concentrarsi sulla minaccia dei missili di precisione iraniani in mano a Hezbollah e altri gruppi. Israele ha lanciato molti attacchi contro i carichi di armi iraniane spedite nella regione e nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno bloccato una nave con un carico diretto in Yemen. Gli americani sembrano lavorare su tutti i tavoli con un messaggio tutto sommato coerente: spingere alle soluzioni diplomatiche, abbassare la tensione, riaprire i canali con Teheran senza per questo voltare le spalle a Riad e Tel Aviv. Un domino difficile da costruire alla perfezione, ma almeno un piano ambizioso.
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Armi e diritti umani: gli affari francesi con al-Sisi
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Un corteggiamento ben riuscito quello di Emmanuel Macron al generale al-Sisi, presentato ai francesi come un alleato strategico fondamentale nel combattere l’islamismo e un ottimo cliente per il comparto militare industriale transalpino. Il dittatore egiziano era stato ricevuto all’Eliseo lo scorso 20 dicembre e aveva cenato all’Hotel de Paris, ospite della sindaca Hidalgo, ed era stato insignito in segreto della Legion d’onore – onorificenza con cui Parigi ha premiato anche Vladimir Putin e Bashar al Assad, che ha restituito la medaglia dopo la partecipazione di Parigi ai raid sulla Siria. La cerimonia dello scorso dicembre doveva rimanere segreta, non era nel programma ufficiale della visita e non era stata filmata se non dalla delegazione egiziana, che pubblicò il video sul sito della presidenza – dove è stato notato rendendo la notizia pubblica.
Non una bella figura per il Presidente in campagna elettorale, ma una notizia di quelle che passano in secondo piano a confronto dei contratti per la vendita di armi portati a casa dai francesi. Si tratta di tre vendite distinte, una molto pesante riguarda l’acquisto di 30 caccia Rafale dalla Dassault per 3,75 miliardi. Gli altri due valgono 200 milioni di euro per la vendita di missili MBDA e attrezzature dalla Safran Electronics & Defense. La stipula dei contratti avviene nelle stesse settimane in cui il regime egiziano manda a morte nove persone in seguito a un assalto a un commissariato avvenuto nel 2013 e dopo un processo che Amnesty International ha pesantemente criticato.
La Francia e il suo comparto militare industriale sono in competizione costante con l’Italia e altri per ottenere commesse in Egitto e in diverse aree instabili o in mano a Governi non proprio democratici. La differenza fondamentale tra Italia e Francia è che il nostro Paese si è dotato di una legge che limita e regola la possibilità dell’export di armi. Per questo nei mesi scorsi è stata fermata la vendita di armi da guerra all’Arabia Saudita. La legge 185/90 non riguarda i diritti umani e infatti anche per l’Italia l’Egitto rappresenta un importante mercato, il primo, come del resto per Parigi. I contratti italiani, però, non possono rimanere segreti come quelli francesi e questo genera pressioni, attenzione, talvolta dibattito sui media che determina decisioni come quella presa dal Governo Conte II sulla vendita di armi a Riad.
I contratti francesi di queste settimane invece sono stati resi noti solo in seguito a uno scoop di Disclose, un sito francese di giornalismo d’inchiesta. Disclose segnala tra l’altro che i contratti francesi sono tutti garantiti dallo Stato: “Super-indebitato, l’Egitto ha ottenuto un prestito garantito dalla Francia fino all’85%. In altre parole, il Tesoro ha fatto da garante a diverse banche francesi – Crédit Agricole, Société Générale, BNP e CIC – per permettere ad al-Sisi di concludere il trasferimento di armi. Se l’Egitto non riuscisse a rimborsare, è il contribuente francese che dovrà pagare i 3,4 miliardi di euro”. Una forma di sussidi di Stato a un comparto industriale nazionale.
Due deputati francesi – uno del partito di Macron, l’altro repubblicano – hanno presentato una proposta per coinvolgere il Parlamento nella verifica e nel controllo dell’export di armi, qualcosa di simile alla legge 185/90, che ha vincoli più stretti dovuti alla nostra costituzione. Il Governo è fermamente contrario a questa richiesta di maggiore trasparenza e l’esempio egiziano ci dice perché: certi affari è meglio farli senza che se ne discuta nell’opinione pubblica.
Torniamo al tema generale, quello dell’export di armi. L’apparato militare industriale europeo sembra fare a gara per vendere armi a una serie di Paesi che non fanno parte della Nato, e sono posizionati in aree molto instabili tra Medio Oriente e Africa. In particolare Arabia Saudita, Qatar e lo stesso Egitto stanno accumulando un enorme potenziale bellico. A volte la vendita viene spiegata, giustificata con l’idea della guerra al terrorismo. Quei regimi cooperano in cambio di armi. A volte è solo la volontà di mantenere un apparato industriale competitivo. In ogni caso, si tratta di una politica discutibile perché alimenta regimi brutali come quello de Il Cairo – con il quale l’Italia ha almeno due questioni aperte – o guerre come quella in Yemen.
Si tratta di un grande tema complicato e scivoloso e di grande attualità. Cosa devono fare le democrazie che criticano altri Paesi per il mancato rispetto dei diritti umani e la repressione del dissenso di fronte a potenziali affari? Macron sembra aver dato una risposta chiara.
Usa: la politica nordcoreana di Biden
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I dossier non vengono mai soli e spesso sono sempre gli stessi. Uno che torna sulla scrivania dei Presidenti Usa e che dovrebbe preoccupare tutti noi è quello del nucleare nordcoreano. In questi giorni l’amministrazione Biden ha reso noto di aver completato la revisione delle informazioni in possesso e che si presenta con una nuova ipotesi di approccio. Non quello di Trump e neppure quello di Obama, ma qualcosa tra queste due ipotesi di lavoro diplomatico.
Il Presidente repubblicano sottolineava l’importanza dei rapporti personali, detestava i particolari – che in questi casi sono tutto – e sposava l’idea “Go big or go home” di John Bolton, ovvero ottenere tutto quel che si voleva in un unico grande accordo: rimozione di tutte le sanzioni in una volta sola in cambio della competa e totale de-nuclearizzazione, di uno smantellamento del programma nucleare di Pyongyang. La versione Obama era quasi l’opposto: mano tesa e pronti a trattare ma dopo che il regime nordcoreano l’avesse smessa con i lanci e i test di missili verso il Mar del Giappone. In un caso non funzionò nonostante quella che Trump definì una chimica perfetta tra il leader nordcoreano e se stesso, niente grande accordo ma una sospensione dei test nucleari e di missili balistici intercontinentali. Nel caso di Obama furono alti e bassi continui in termini di “clima”, ma mai una svolta.
Tra 2020 e 2021 Pyongyang ha ripreso i test e mostrato al mondo il Hwasong-15, un missile intercontinentale che in teoria sarebbe capace di trasportare testate nucleari fino agli Stati Uniti e un nuovo missile lanciato da un sottomarino presentato come “la più potente arma al mondo”. A marzo, poi, è stata la volta del lancio di due missili nel Mar del Giappone che il premier nipponico Suga ha definito “una minaccia alla pace del Giappone e di tutta la regione e un atto contrario alle risoluzioni Onu”. Altri test erano stati fatti nei giorni del viaggio del Segretario di Stato Blinken in Asia.
La nuova politica
In questo contesto nasce la nuova politica che, come ha spiegato la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki, “non si concentrerà sul raggiungimento di un grande accordo, né si baserà sulla pazienza strategica”. La scelta, che segue la revisione di mesi, è stata presentata al Presidente dal Segretario di Stato Blinken e quello alla Difesa Austin, nonché dal consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan e dal capo di Stato maggiore Milley.
Alla Casa Bianca hanno chiaro che qualsiasi cosa dicano o facciano, le provocazioni di Pyongyang non si arresteranno. Per certi aspetti l’uso dei test è una delle armi in possesso del regime di Kim al tavolo delle trattative. L’idea è quindi quella di un approccio graduale che scambia un parziale sollievo dalle sanzioni con una parziale de-nuclearizzazione fino allo smantellamento completo del programma. Funzionari coinvolti nella stesura della policy che hanno parlato in forma anonima con diversi media statunitensi spiegano che gli scambi proposti saranno mirati e puntuali.
Gli Stati Uniti hanno riaperto diversi canali con Pyongyang, che nel frattempo, appunto, ha testato missili e reagito alle parole pronunciate da Biden davanti al Congresso (“Iran e Corea sono una minaccia”) per bocca di Kwon Jong Gun, capo del dipartimento Usa al Ministero degli Esteri, che ha detto che Biden ha preso “una cantonata” e che gli americani subiranno le conseguenze della loro politica ostile.
La verità è che il regime di Pyongyang è così in difficoltà che in un discorso recente Kim ha addirittura evocato la carestia degli anni 90, quando morirono di fame (almeno) centinaia di migliaia di persone: le sanzioni sono un problema e il coronavirus ha congelato il commercio con la Cina, unico vero partner commerciale che rappresenta il 90% del commercio estero nordcoreano.
Il ruolo della Cina
E proprio la Cina, naturalmente, è un attore cruciale in questa vicenda. Pyongyang è un alleato utile e naturale e tiene lontano dai confini i poco meno di 30mila soldati Usa ancora presenti in Corea del Sud. Al contempo, una normalizzazione delle relazioni o qualcosa che ci somigli potrebbe tornare utile a Pechino, anche per guadagnare status internazionale.
Il 12 aprile Pechino ha nominato il suo Rappresentante speciale per la Penisola coreana. Si tratta di Liu Xiaoming, diplomatico di lungo corso, a Pyongyang negli anni dei primi test nucleari e poi 11 anni a Londra. Il posto era vacante da due anni, ma è evidente che Pechino, conscia che presto sarebbe arrivato un nuovo Presidente e un nuovo approccio, ha bisogno di una figura esperta. Gli Stati Uniti sperano molto che la Cina giochi un ruolo e il Segretario Blinken lo ha detto esplicitamente. I canali sono aperti, ma nessuno può dire se, dopo quattro Presidenti Usa rimasti con un pugno di mosche, stavolta si faranno passi avanti.
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Democrazia in crisi: aumentano le derive autoritarie
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Mentre i Governi nazionali si apprestano a presentare i loro Recovery Plan a Bruxelles e gli ultimi Parlamenti nazionali a ratificare quel piano che dovrebbe rilanciare il blocco europeo uscito male dagli anni della Troika, c’è chi si prepara a usare quei fondi per consolidare il proprio potere. Non solo e non tanto in termini di consenso, cosa che sarebbe lecita, ma in termini di controllo del sapere e della sua diffusione.
Bloomberg ci segnala infatti che il Parlamento ungherese ha approvato il trasferimento di una vasta gamma di beni statali per miliardi di dollari (appartamenti, un palazzo, partecipazioni in aziende blue-chip, un produttore di acciaio, uno stadio) a fondazioni quasi private che supervisioneranno sulle università statali e alla cui testa siedono stretti alleati del premier Viktor Orbán.
Dodici eurodeputati tra verdi, socialdemocratici, liberali e della Sinistra hanno scritto una lettera ottenuta e pubblicata da Politico alla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen per manifestare la loro preoccupazione: il 20% delle risorse del Recovery Plan ungherese finirebbe proprio in quelle università e “ciò comporterebbe la scomparsa del 20% delle risorse europee in strutture di finanziamento opache (…) con lo scopo di distruggere ulteriormente la libertà accademica in Ungheria”. Sempre su Politico, Piotr Buras, che dirige l’ufficio di Varsavia dell’European Council on Foreign Relations, segnala come anche in Polonia il rischio è quello di uno discrezionale dei fondi europei in un contesto di stretta ulteriore sul potere giudiziario.
Il rapporto di Freedom House
Questa scelta di appropriarsi indirettamente delle risorse europee e utilizzarle per fini politici non è nuova all’Ungheria, che, come anche altri Paesi, sembra avere problemi crescenti con lo stato di diritto. O almeno così ritengono a Bruxelles, che nel budget 2021-27 ha incluso il meccanismo dello stato di diritto nel bilancio in risposta ai comportamenti di Budapest e Varsavia. Dello stesso parere è Freedom House, che nel rapporto pubblicato in questi giorni parla di “attacchi alle istituzioni democratiche che si stanno diffondendo più velocemente che mai in Europa ed Eurasia, e si stanno coalizzando in una sfida alla democrazia stessa”.
Vale la pena di riprenderne qualche passaggio. “Per più di due decenni dopo le transizioni che hanno messo fine alla guerra fredda, i leader e i politici hanno aderito, almeno a parole, al modello democratico. Nell’ultimo decennio, tuttavia, tra l’erosione dell’ordine liberal-democratico e l’ascesa dei poteri autoritari, l’idea della democrazia come punto di arrivo aspirazionale ha iniziato a perdere valore in molte capitali. L’incapacità delle istituzioni esistenti di affrontare le pressanti preoccupazioni della società, la crescente polarizzazione e la crescente disuguaglianza hanno alimentato l’incertezza e la rabbia, e la cattiva gestione della pandemia Covid-19 da parte delle principali democrazie ha fornito ulteriore mangime a chi è interessato a sfruttare la disillusione nei confronti dei tradizionali campioni della governance democratica”.
Le derive autoritarie
È in questo contesto che nascono obbrobri teorici come la democrazia illiberale di Viktor Orbán, con una novità che nel quadriennio trumpiano abbiamo visto in maniera piuttosto evidente: “I politici antidemocratici stanno condividendo pratiche e imparando gli uni dagli altri, accelerando…”. Nel rapporto si prendono in esame i percorsi di 18 Paesi tra Europa dell’est ed Eurasia e si indica come solo in 4 il livello di democrazia sia migliorato, mentre 14 peggiorano.
I segnali li abbiamo da tempo: attacchi ai media e tentativi di delineare un panorama mediatico nel quale le voci indipendenti sono ridotte al silenzio erano una caratteristica dell’Ungheria. Oggi, segnala Freedom House, ci sono imitatori: “In Slovenia, il Primo Ministro Janez Janša – che ha beneficiato di investimenti ungheresi nell’industria dei media – ha elevato gli attacchi verbali ai giornalisti a un nuovo livello. Ma questo processo di apprendimento antidemocratico è più visibile in Polonia, dove l’anno scorso il Governo ha usato un gigante dell’energia di proprietà statale per acquisire quattro quinti dei media regionali del Paese e ha annunciato piani per imporre una tassa sulla pubblicità, che toglierebbe risorse vitali ai media privati già in difficoltà”.
Di nuovo, il tema non è quanto questi Governi utilizzino, ad esempio, un linguaggio truce nei confronti dell’immigrazione o una retorica nazionalista discutibile, ma come stiano cambiando gli assetti istituzionali. Parliamo dell’Europa intesa come Ue, ma è inutile ricordare come in questi anni e mesi, diverse ex repubbliche sovietiche, a cominciare dalla vicina Bielorussia, stiano conoscendo una (ulteriore) stretta autoritaria.
Usa: il discorso di Biden sui primi 100 giorni
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Il primo discorso di Joe Biden sullo Stato dell’Unione – o SOTU, che gli americani non vivono se non trasformano tutto in un acronimo – non sarà rituale come accade sempre nell’anno di inaugurazione di un Presidente. Il coronavirus ha infatti ritardato di un paio di mesi il rito. E così, a differenza dei suoi predecessori, Biden può presentare se stesso agli eletti, e soprattutto agli elettori, con dei risultati. Il piano vaccinale, che è stato più rapido dei pur ambiziosi obiettivi fissati, e l’America Recovery Plan che ha distribuito montagne di dollari a cittadini in difficoltà e istituzioni. Una fortuna perché a oggi i due risultati dei 100 giorni del democratico tendono a essere popolari tra la maggioranza degli americani.
L’agenda di Biden
Per queste ragioni il Presidente utilizzerà il discorso alla nazione per rilanciare la propria agenda ambiziosa e userà gli argomenti retorici a sua disposizione per cercare di convincere qualche repubblicano a sostenere i suoi piani. Senatore dal 1979 al 2009, è stato collega e anche amico di molti tra loro e in campagna elettorale ha insistito molto sulla necessità di unire il Paese. Difficile che il Partito repubblicano contemporaneo, saldamente in mano a Trump, faccia dei passi nella sua direzione, specie in materia di welfare e tasse, le due novità che il Presidente si appresta a presentare al pubblico.
Nei piani di Biden ci sono molte cose assieme, alcune già in forma di legge approvata alla Camera o di proposta fatta: una riforma della normativa elettorale che faciliti e garantisca il voto a tutti, una riforma della polizia, una dell’immigrazione e poi l’approvazione del piano infrastrutturale, che poggia su due pilastri: il primo lo conosciamo e il secondo, assieme agli strumenti per finanziarlo – le tasse – sarà la novità dei discorso al Congresso. In termini di spesa, il Presidente descriverà l’American Family Plan, che propone di dedicare centinaia di miliardi di dollari all’assistenza all’infanzia, alla scuola materna, al congedo familiare retribuito e al college comunitario gratuito.
Un piano che verrebbe parzialmente finanziato da aumenti delle tasse sui profitti derivanti da investimenti finanziari e tasse sui redditi più alti. Secondo i piani, le infrastrutture le dovrebbero pagare le imprese con un aumento delle aliquote sui profitti, mentre la parte di investimenti in welfare la pagherebbero i cittadini più ricchi.
Gli investimenti
Il Financial Times anticipa che, secondo i calcoli dell’amministrazione, solo lo 0,3% dei contribuenti sarebbe colpito da tasse più alte sugli investimenti: “C’è una crescente consapevolezza che negli ultimi anni molti dei rendimenti di coloro che guadagnano di più sono più alti di ciò che chiamano tassi di rendimento di mercato. Una delle maggiori conseguenze del cambiamento alla tassazione dei guadagni di capitale proposto da Biden è che eliminerà il trattamento fiscale preferenziale di molti profitti di private equity, hedge fund e investitori immobiliari”.
L’argomento è il solito: in questi anni ci sono segmenti di società e di mondo delle imprese che non hanno perso, ma guadagnato dalle crisi, e che hanno spesso pagato aliquote molto basse; se vogliamo mettere mano ad alcune grandi questioni irrisolte dobbiamo spendere e coloro cui è andata meglio dovrebbero pagare. Un ragionamento che non piace ai repubblicani e men che meno alle banche di investimento. I primi criticano sia i piani di spesa che quelli di entrata, i secondi sono favorevoli alla spesa per le infrastrutture, ma contrari all’idea di dover contribuire. Il partito di Trump, che negli anni del suo mandato ha visto crescere il deficit in maniera esponenziale, ha poi riscoperto di colpo il rigore e le preoccupazioni per un deficit alle stelle. I gestori di fondi di investimento stanno facendo tutto quel che possono per creare un clima di panico. Ma, ricordiamolo, della montagna colossale di soldi che circolano nella finanza, una quota risibile finisce in investimenti produttivi: cioè, viene usata nell’economia reale e il settore finanziario, che genera un quarto del totale dei profitti americani, offre lavoro solo al 4% degli occupati.
La sfida per Biden e i democratici è convincere gli americani che le ricette proposte sono un bene per la società tutta e che l’aumento delle tasse non toccherà la middle class. Non facile, ma non impossibile. Il discorso sullo Stato dell’Unione servirà anche a questo.
Quanto piace Biden?
Il Presidente può approfittare di un clima positivo: l’economia confidenza Index di Gallup, che a gennaio era a -21, è tornato in terreno positivo per la prima volta dall’inizio della pandemia. Un sondaggio ABC/Washington Post, pubblicato lo scorso weekend, assegna al Presidente un 52% di approvazione, con l’unica macchia di un 37% di favorevoli al modo in cui ha gestito la situazione al confine con il Messico – terreno scivoloso che vede sia elettori repubblicani essere contrari per ragioni opposte a quelle che ispirano il giudizio negativo di una parte di quelli democratici.
Una rassegna di molti sondaggi recenti ci parla di un gradimento generale alto (53% contro 41% di giudizi negativi), di voti ottimi per quanto riguarda la gestione della pandemia (72%) e la capacità di empatia. Il 46% ritiene che il Paese vada “nella direzione giusta”, un record per un indicatore che tende a essere molto negativo. Biden si deve preoccupare per il giudizio della white working class, gli operai bianchi, che continua a essere negativo. Con un ma: tra quegli elettori l’idea delle infrastrutture che creano lavoro manuale e quella delle tasse ai ricchi sono popolari e il Presidente tornerà a proporle durante il suo discorso al Congresso. Ma sul terreno del consenso, l’effetto di quelle misure si vedrà quando e se verranno implementate. Prima però serve che queste vengano approvate con il voto di 50 senatori più uno, e per ottenerlo serviranno trattative a tu per tu con alcuni senatori democratici restii a votare troppa spesa.
Saranno settimane febbrili e dall’esito delle trattative dipenderà anche se l’amministrazione deciderà di presentare tutti i pacchetti di spesa e tassazione assieme o se dividerli per avere almeno la certezza di vederne alcuni approvati in fretta. In questo secondo caso è probabile che ad avere la precedenza sia il piano infrastrutturale, che ha il sostegno del mondo delle imprese e che per i repubblicani sarebbe più difficile da presentare come un passo verso il socialismo.
Clima: allarme IEA sulle emissioni
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Con milioni chiusi in casa, molte attività ferme e il crollo del traffico aereo l’aria delle città del pianeta è stata più pulita per un anno. Niente sarà più come prima, ci siamo detti, e tra le cose che immaginavamo durante i faticosi mesi del lockdown più severo c’era anche la speranza che la pandemia portasse con sé riflessioni su un modello di consumo delle risorse naturali che, per usare un eufemismo, sta mostrando diverse crepe.
La speranza è l’ultima a morire e qualche segnale positivo c’è, ma i dati diffusi dalla IEA, la International Energy Agency, nel suo Global Energy Review 2021 indicano quanto lo sforzo necessario per rendere l’aria dell’atmosfera più pulita resti immane. Nel rapporto si prevede che le emissioni di anidride carbonica saliranno a 33 miliardi di tonnellate, con un aumento di 1,5 miliardi di tonnellate rispetto al 2020. Si tratterebbe del più grande aumento in più di un decennio dovuto, certo, al crollo delle emissioni del 5,8% determinato dal lockdown, ma comunque un segnale che le cose non cambiano da sole.
L’aumento delle emissioni sarà causato prevalentemente dall’uso del carbone della macchina produttiva asiatica che per prima si è rimessa in moto: l’80% dell’aumento di consumo di carbone dovrebbe venire dalla Cina.
Il Leaders Summit on Climate
È in questo contesto che Joe Biden ha convocato 40 leader tra cui i 17 dei Paesi responsabili per l’80% delle emissioni, a un vertice virtuale il 22 e 23 di aprile. “Il Leaders Summit on Climate sottolineerà l’urgenza – e i benefici economici – di un’azione più forte in materia di clima. Sarà una pietra miliare sulla strada verso la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (COP26) il prossimo novembre a Glasgow”, leggiamo sul comunicato che presenta l’iniziativa. Il comunicato è enfatico, ma lo sforzo dell’amministrazione reale. La partecipazione brasiliana, cinese e indiana è un segnale positivo, i nuovi grandi inquinato ci saranno e, nonostante le tensioni, su questa materia Stati Uniti e Cina puntano più a competere che non a farsi i dispetti. La scorsa settimana lo “zar” per il clima John Kerry è stato a Shanghai dove ha incontrato l’inviato speciale della Cina per il cambiamento climatico, Xie Zhenhua, i due hanno promesso cooperazione: “Gli Stati Uniti e la Cina sono impegnati a cooperare tra loro e con altri Paesi per affrontare la crisi climatica, che deve essere affrontata con la serietà e l’urgenza che richiede” si legge nella dichiarazione congiunta.
Al summit l’amministrazione presenterà i propri nuovi obbiettivi, molto più ambiziosi di quelli di Parigi e di quelli individuati durante la presidenza Obama. Il Presidente si impegnerà a ridurre le emissioni di gas serra degli Stati Uniti almeno della metà entro la fine del decennio – ma senza presentare un piano dettagliato. Biden ha imbarcato pezzi consistenti dell’industria, ha messo in moto una macchina diplomatica e anche una che potremmo definire di narrativa nei confronti del popolo americano. Il 19 aprile il Segretario di Stato Blinken ha rivolto un discorso al Paese dalla Baia di Chesapeake raccontando come quell’area dove vivono 18 milioni di persone e 30mila vivono di pesca, sia a rischio.
Nel suo discorso Blinken ha ricordato la catastrofica stagione degli incendi in California e i milioni di ettari non seminati a causa delle inondazioni, tutto per un costo di 100 miliardi di dollari in un anno. Il capo della diplomazia Usa non ha sottolineato solo i costi umani ed economici della crisi climatica ma, come il suo ruolo impone, tutti i rischi che questa porta con sé sugli scenari internazionali. Blinken ha parlato di aumento delle migrazioni, nuovi conflitti possibili e di competizione internazionale: “La Cina è il più grande produttore ed esportatore di pannelli solari, turbine eoliche, batterie, veicoli elettrici. Detiene quasi un terzo dei brevetti mondiali sulle energie rinnovabili. Se non ci mettiamo al passo, l’America perderà la possibilità di plasmare il futuro climatico del mondo in un modo che rifletta i nostri interessi e valori, e perderemo innumerevoli posti di lavoro”. E poi anche cooperazione internazionale perché, se cambiano solo gli Stati Uniti, non serve.
L’ostacolo dei repubblicani
Il tentativo americano di intestarsi la leadership della lotta al cambiamento climatico è per adesso poco credibile. Biden dovrà riuscire a far davvero passare alcune leggi in Senato, trovare i soldi e mettere in moto meccanismi reali per tradurre la nuova linea ambientalista in realtà. Lo sforzo sembra essere quello. Allo stesso modo e con difficoltà simili si trova l’Europa. La Gran Bretagna ha annunciato l’obbiettivo del taglio del 78% delle emissioni per il 2035. L’Europa è pure impegnata in uno sforzo in questa direzione, ma come leggiamo in un rapporto dell’European Council on Foreign Relations, sono divisi su molte cose: hanno opinioni diverse su questioni quali il ruolo dell’energia nucleare nel futuro mix energetico europeo, le tecnologie ponte nella transizione verso le zero emissioni nette e le conseguenze socioeconomiche della chiusura delle industrie ad alta intensità di carbonio. I fronti non sono due, ma diversi e per sottogruppi e sottoinsiemi, c’è chi è contrario al nucleare ma favorevole al carbone e viceversa, il che rende al contempo più difficile e facile trovare delle mediazioni. Con il problema che il clima, a differenza dell’economia, non è una creazione dell’uomo, ma va avanti per conto suo, a prescindere dalle mediazioni e dalla lungaggini necessarie per prendere decisioni e implementarle.
Vedremo se il vertice di Biden sarà solo una passerella o porterà ad annunci pesanti. Sarà comunque un momento importante per sensibilizzare l’opinione pubblica americana e mondiale. E per contrastare il messaggio di figure come Mike Pompeo, ex segretario di Stato con mire alla candidatura presidenziale repubblicana che scrive su Twitter: “In ogni decisione che abbiamo preso, abbiamo messo l’America al primo posto. Sembra che la missione dell’amministrazione Biden sia più simile a “Il cambiamento climatico prima di tutto”. Questo non è ciò che gli americani vogliono o di cui hanno bisogno”. L’atteggiamento repubblicano, che cavalcherà la protesta di chi verrà inizialmente colpito dalla trasformazione epocale che si annuncia, sarà un ostacolo enorme per Biden.
Afghanistan: Biden ha preso la decisione giusta?
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La decisione di Joe Biden di chiudere la più lunga guerra nella quale gli Stati Uniti siano mai stati impegnati, riportando a casa entro l’11 settembre tutti i militari di stanza in Afghanistan, sta facendo discutere la comunità di analisti di questioni di intelligence e militari. Una decisione che il Presidente democratico ha preso conscio dei rischi di qualsiasi opzione sul tavolo, ossia oltre al ritiro: rimanere con un contingente ridotto ma capace di mantenere un occhio sulla situazione, promettere il ritiro in uno scambio di concessioni verificabili con i Talebani. Biden ha invece deciso che ciascuna delle possibilità presenta rischi e non garantisce alcuna certezza sul risultato finale nel breve e medio termine.
L’esperta di Brookings Institution, Vanda Felbab-Brown, scrive, dicendosi d’accordo con la decisione del Presidente: “Sostenere un dispiegamento militare fino al raggiungimento di un accordo di pace trascurerebbe il fatto che qualsiasi negoziato serio richiede che il Governo afghano ceda una quantità considerevole di potere ai Talebani. Il Governo afgano non ha intenzione di farlo, e quindi non ha fino a oggi avuto alcun interesse a negoziare seriamente. Finché c’era la prospettiva che gli Stati Uniti rimanessero militarmente e sostenessero il Governo, Kabul ha avuto poco incentivo a negoziare”. Senza ritiro, lo stallo o un’offensiva a bassa intensità talebana sarebbe stata la cosa più probabile.
La decisione di Biden viene presa in relativo contrasto con i suggerimenti e le richieste dei militari, che sono preoccupati per la mancanza di personale sul campo in grado di monitorare in maniera efficace il ritorno in Afghanistan dei miliziani stranieri che hanno combattuto in vari fronti in questi anni (Iraq, Siria) o del riformarsi di reti terroristiche che abbiano come obiettivo quello di colpire personale e strutture americane nel mondo e negli Stati Uniti. Al Pentagono e negli Stati maggiori erano scontenti dalle modalità di lavoro di Trump, che annunciò il ritiro dalla Siria senza consultarli e stabilì una data per l’uscita dall’Afghanistan senza condizioni. La speranza dei generali era di trovare orecchie più attente in Biden. Il Presidente democratico li ha ascoltati ma ha anche valutato due cose, segnalate nel discorso in cui annunciava il ritiro: aspettare ancora non cambierà le cose come non è successo negli ultimi 18 anni, in questo momento storico i maggiori pericoli posti dalle reti terroristiche internazionali vengono dall’Africa e altri luoghi del pianeta.
Quale soluzione?
La verità è che non c’è una buona soluzione e che sia individuando un percorso meno netto che prendendo la decisione di ritirarsi, Biden lascia scoperti diversi fronti. L’altra verità è che, a parte la vittoria militare iniziale, la capacità degli Stati Uniti di imporre uno Stato centrale a un Paese con diverse grandi minoranze con aree di pertinenza geografica più o meno definite è stato un errore madornale. Qui, oltre alla democrazia, gli Usa di Bush immaginarono anche di esportare le forme istituzionali senza capire dove e come – errore commesso e parzialmente corretto anche in Iraq. Il vero disastro è stato però la mancata costruzione di un esercito e di forze di sicurezza credibili. Secondo quanto si legge, solo le truppe speciali afgane sono qualcosa che somiglia a un esercito in grado di combattere, ma senza l’assistenza americana, presto o tardi il materiale bellico che hanno in dotazione sarà inservibile. Per queste operazioni gli Usa hanno speso centinaia di miliardi di dollari, buttandoli sostanzialmente via.
A settembre osserveremo i Talebani riprendersi la parte del Paese dove non comandano? Il Paese precipiterà in una nuova guerra civile? E che ne sarà dei diritti delle donne e delle minoranze, della possibilità di studiare qualcosa che non siano le leggi coraniche? Se davvero i Talebani dovessero ristabilire il loro controllo sul Paese, quello americano sarebbe un tradimento nei confronti dei civili. Ma d’altro canto, ogni sforzo bellico o diplomatico Usa fino a oggi è finito male. Biden si augura che con il ritiro americano e Nato, le potenze regionali, che tutte hanno un forte interesse a una stabilizzazione lavorino a dei compromessi. Alla Cina, alla Russia, all’Iran, al Pakistan non conviene avere un vicino in guerra e un potenziale hub per i gruppi terroristici attivi nella regione.
Una decisione che viene dal passato?
La decisione di Biden – lo abbiamo letto sui media americani, ma anche nella biografia presidenziale di Barack Obama – viene da lontano. Pur avendo votato a favore della guerra, l’allora senatore e poi vice Presidente, fino dal primo viaggio nel Paese si rese conto di avere di fronte un panorama che era allo stesso tempo un puzzle complicato e un domino. E quando Obama stava per decidere il surge, Biden lo mise in guardia: “Ti stai facendo mettere nell’angolo dai generali”, si legge in “A Promised Land”. Andrew Watkins, analista senior per l’Afghanistan all’International Crisis Group, conferma a NPR: “Biden è stato la voce in dissenso più autorevole contro la surge in Afghanistan. È rimasto della stessa idea per tutto il decennio: portare il numero delle truppe americane a poche migliaia e concentrarsi su attacchi mirati alle peggiori minacce alla sicurezza regionale e americana fosse l’unica cosa che gli Usa dovrebbero fare in Afghanistan”.
Di fronte a questa serie di rebus difficili da risolvere, il Presidente Usa sceglie di ridurre i danni, risparmiare soldi e riportare le truppe a casa. Il succo di questa lunga vicenda lo concentra in poche frasi Tomas Friedman del New York Times, raccontando del suo viaggio con l’allora senatore in Afghanistan: “Lo sforzo valeva un tentativo; i nostri soldati e diplomatici cercavano di migliorare la situazione, ma non è mai stato chiaro che sapessero come o avessero abbastanza partner afgani per farlo. Forse andandocene la situazione peggiorerà, ma la nostra permanenza non è stata di grande aiuto. La nostra partenza potrebbe essere un disastro a breve termine, e nel lungo periodo, chissà, forse l’Afghanistan troverà l’equilibrio da solo, come il Vietnam. Oppure no. Io non lo so. Sono umiliato e ambivalente oggi come lo ero 20 anni fa, e sono sicuro che anche Biden lo sia”.
Libia: liberato Bija, il noto trafficante di migranti
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Come tutti i luoghi di conflitto civile nel Mediterraneo (con l’aggravante del petrolio), anche la Libia è terreno di scontro non solo interno, ma tra potenze regionali e non che mirano a espandere la propria influenza o fare affari. In questi anni, in Libia, la competizione è anche stata intra-europea. Questa competizione, così come la centralità del Paese per ragioni legate ai flussi migratori verso l’Europa, il pericolo che in una situazione confusa si radichi nel Paese la presenza di gruppi terroristici, gli interessi economici rendono la necessità di stabilizzare la un obiettivo cruciale per l’Europa e per l’Italia.
Non è un caso che la prima visita all’estero di Mario Draghi sia stata al Primo Ministro Dabaiba, appena posto alla guida del Governo di unità nazionale. Ma come tutti sanno, la mediazione Onu è anche e soprattutto il frutto di uno stallo nella situazione militare e gli equilibri libici rimangono instabili.
La liberazione di Bija
Tutta questa premessa non è un tentativo di analisi di una situazione complessa ma semplicemente il quadro nel quale si inserisce la liberazione di Abdel-Rahman Al-Milad, noto come “Bija” e soprattutto per essere il capo della Guardia costiera della città costiera di Zawiya, una cinquantina di chilometri a ovest di Tripoli. Al Bija era detenuto da ottobre scorso su richiesta del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che lo accusa di essere coinvolto nel traffico di esseri umani, nel traffico di migranti e nel contrabbando di carburante. A lui e alla Guardia costiera da lui comandata dobbiamo, hanno raccontato diversi testimoni, affondamenti di barconi carichi di migranti, sequestro di altri e loro trasferimento nel campo di prigionia diretto dal cugino, famoso per essere uno di quelli dove i migranti trattenuti hanno subito le violenze peggiori.
Bija è noto in Italia per le inchieste del giornalista di Avvenire Nello Scavo, che rivelò la sua presenza in una missione libica nel nostro Paese e per un’intervista a Francesca Mannocchi in cui conferma (e minaccia i giornalisti). Gli accordi di cooperazione voluti dall’allora ministro Minniti sul respingimento dei migranti tra Libia e Italia, insomma, prevedevano un ruolo centrale per figure come Al-Milad, di cui al tempo già si conoscevano le “gesta”.
Al-Milad era stato arrestato sei mesi dopo che il procuratore militare di Tripoli aveva emanato un ordine di arresto e, particolare più importante, aveva guidato i suoi uomini, al fianco delle milizie al Nasr guidate da Mohammed Kachlaf – anche lui oggetto di una sanzione Onu. L’arresto, apparso come concordato, è apparso più un passaggio che non la fine di un percorso. In Libia, come ad esempio in Afghanistan o in Iraq, figure ambigue, capi milizie, signori della guerra svolgono parallelamente i propri traffici e un ruolo di garanzia e stabilizzazione. L’aver combattuto contro il generale Haftar per fermare la sua avanzata verso Tripoli e l’aver conquistato nei mesi della caduta di Gheddafi un ruolo importante nella città con un porto petrolifero, sono gli elementi che hanno garantito ad Al-Milad una rapida uscita dal carcere e persino la promozione al grado di maggiore. La rete di alleanze locali e non, come la centralità del ruolo svolto sono dunque una garanzia.
L’impegno dell’Italia
E qui torniamo alla situazione generale. La costituzione di un Governo di unità nazionale, il nuovo protagonismo europeo volto a contenere quello turco (e russo, ma la Turchia sostiene i “nostri” alleati contro quelli russi), le visite e gli impegni di cooperazione italiani si svolgono in un contesto nel quale ogni ras locale pesa e partecipa a modo suo a questo equilibrio precario. È possibile chiudere entrambi gli occhi sul passato per istituzionalizzare questi attori facendoli rinunciare ai traffici peggiori e pretendendo il rispetto dei diritti umani delle persone che attraversano la Libia per arrivare in Europa?
Negli anni passati l’Italia non ha chiesto nulla in cambio delle centinaia di milioni spesi per sostenere la Guardia costiera libica, se non una diminuzione degli sbarchi sulle nostre coste. Qualsiasi fosse il prezzo in termini umanitari. Pensare di stabilizzare la Libia lasciando carta bianca a figure così non è una buona idea. E la verità è che per l’Italia e l’Europa è più importante una Libia stabile e pacificata che non l’obiettivo tutto legato alla politica interna e al consenso dello stop ai barconi. Per questo la liberazione di Bija non è una buona notizia.
Digital Tax: verso una soluzione globale
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“Vogliamo porre fine alla corsa al ribasso sulla tassazione delle imprese multinazionali e stabilire un’architettura fiscale in cui i Paesi lavorino insieme per una crescita più equa, innovazione e prosperità”.
Queste parole accompagnano un importante documento consegnato qualche giorno fa dagli Stati Uniti all’Ocse, dove da anni sono in corso trattative sulla tassazione delle Big Tech. Si tratta di una svolta possibile attorno a una questione internazionale di quelle che fanno indignare le opinioni pubbliche, svuotano le casse degli Stati e fanno sorridere soprattutto quelle corporation che pongono la loro sede nei paradisi fiscali dei Caraibi o in quelli più prossimi e meno smaccati sparsi per l’Europa (Irlanda, Lussemburgo, Olanda).
Gli Stati Uniti operano una doppia giravolta, nel senso che solo l’estate scorsa avevano abbandonato le trattative Ocse contro l’ipotesi di diverse importanti capitali europee di tassare i giganti della tecnologia – Apple, Facebook, Google, Amazon. Oggi non solo tornano al tavolo, ma avanzano una proposta più ambiziosa e meno penalizzante nei confronti delle sole multinazionali americane: una tassa globale che impedisca a chi gioca con la possibilità di spostare i profitti da un Paese all’altro per pagare meno tasse di continuare a farlo, accompagnata da un accordo per una tassazione nazionale minima del 21% per contenere le fughe. Le imprese con entrate annuali globali attorno ai 20 miliardi di dollari ovunque vendano i loro beni o servizi (queste sono l’obiettivo di Biden) sono circa un centinaio, molte americane, ma ce ne sono anche di europee. Parallelamente gli Usa vogliono modificare anche il loro regime fiscale interno e per questo la tassa sulle super corporation aiuterebbe: se si introdurranno aliquote minime ovunque e una tassa globale, anche se i capitali fuggissero, non si perderebbero troppe risorse.
Una ricerca condotta da Thomas Tørsløv, Ludvig Wier e Gabriel Zucman, ricercatori delle Università della California (Berkeley) e Copenaghen e campioni della tassazione globale, segnala come alcuni Paesi incassino, grazie alla competizione al ribasso, miliardi in più all’anno tassando poco profitti fatti altrove nell’Unione europea (l’Olanda 13 miliardi nel 2017), mentre altri con aliquote normali ci perdano – la stima dei ricercatori per il 2017 è: Italia -6mld, Francia -13, Germania – 20.
Spieghiamo meglio
Ma di cosa parliamo quando parliamo di tasse? E perché la proposta Usa e la discussione in sede Ocse, se portasse dei risultati, sarebbe una svolta? Prendiamo due dati dal documento che espone la nuova filosofia fiscale americana, dove viene spiegata anche la parte che riguarda la tassazione interna al Paese. “La media delle aliquote societarie legali nei Paesi Ocse era del 32,2% nel 2000; nel 2020 era scesa al 23,3% (…) nel 1980, le aliquote societarie legali dell’Ocse erano raramente inferiori al 45%”. Gli Stati nazionali, insomma, competono tra loro abbassando le tasse ai giganti privati dell’economia. Senza essere particolarmente efficaci, ancora l’esempio americano, Paese avanzato le cui corporation usano con più frequenza i paradisi fiscali: “I piccoli paradisi fiscali ospitano più profitti statunitensi che delle maggiori economie di Cina, India, Giappone, Francia, Canada e Germania messe insieme. Le Bermuda, un Paese di appena 64.000 abitanti, raccoglie il 10% di tutti i profitti stranieri delle multinazionali Usa dichiarati, una quantità pari a diversi multipli del Pil delle Bermuda stesse”.
C’è un tema in più, che riguarda la capacità degli Stati nazionali di funzionare e, persino, di far funzionare i mercati, come spiegano bene gli economisti Joseph E. Stiglitz, Todd N. Tucker e Gabriel Zucman sul numero di gennaio/febbraio di Foreign Affairs: “Negli Stati Uniti, le entrate fiscali totali pagate a tutti i livelli di Governo si sono ridotte di quasi il 4% del reddito nazionale negli ultimi due decenni, da circa il 32% nel 1999 a circa il 28% di oggi, un declino unico nella storia moderna tra le nazioni ricche. Le conseguenze dirette di questo cambiamento sono chiare: infrastrutture fatiscenti, un rallentamento del ritmo dell’innovazione, un tasso di crescita in diminuzione, diseguaglianze in aumento, un’aspettativa di vita più breve e un senso di disperazione tra ampie parti della popolazione. Queste conseguenze si sommano a qualcosa di molto più grande: una minaccia alla sostenibilità della democrazia e dell’economia di mercato globale”.
Non è solo questione di equità dunque e la pandemia ce lo ha mostrato bene. I sistemi sanitari, le infrastrutture, la formazione, i servizi alla persona costano e sono indispensabili per il buon funzionamento delle economie e la corsa verso il basso delle aliquote fiscali non ha aiutato a mantenerli in buona salute.
Come spiega su Twitter Tommaso Faccio, Cpo del segretariato della Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation (ICRICT), il gettito fiscale complessivo della proposta Usa al 21% sarebbe intorno ai 200 miliardi di dollari, che per l’Italia significherebbe 7 miliardi di entrate l’anno in più. La proposta Usa ha raccolto diversi consensi e qualche critica: a guadagnarci saranno i Paesi più ricchi dove le multinazionali sono nate o fanno profitti. Siamo comunque a una svolta. E per l’Italia, visto che si parla di una possibile conclusione delle trattative attorno all’estate, anche la possibilità di presiedere a questa svolta dalla presidenza del G20.
Usa: la Major League Baseball contro le nuove norme sul voto in Georgia
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La storia a volte fa degli strani giri. Qualche giorno fa la Major League Baseball (MLB), la lega che gestisce il campionato professionistico dello sport dove giocano i giapponesi, i cubani, gli italoamericani e un numero esiguo di atleti afroamericani, ha deciso di spostare il suo All-Star Game annuale da Atlanta a Denver. La scelta non riguarda la logistica o il meteo ma le leggi elettorali della Georgia.
Lo Stato del sud – vinto a sorpresa da Biden dopo uno sforzo da parte di diverse organizzazioni di far crescere la partecipazione al voto delle minoranze lungo molti anni – ha infatti approvato una legge che fa di tutto per rendere faticoso il voto. Le nuove norme, votate da un’Assemblea statale a maggioranza repubblicana, trovano giustificazione nelle grida trumpiane al furto elettorale che, in Georgia come altrove, non c’è stato. Nello Stato del sud, tra l’altro, la maggioranza repubblicana gestisce tutto il processo di voto e tutti i funzionari incaricati di verificarne la bontà hanno più volte spiegato che tutto si è svolto in maniera regolare.
Cosa fanno le nuove norme? Restringono i tempi e complicano la possibilità di votare a distanza, rendono più complicato registrarsi al voto e, ma ci sarebbero altri esempi da fare, rendono un reato distribuire acqua e cibo alle persone in fila al seggio. Dovete sapere che le file ai seggi in genere si creano nelle aree ad alta presenza di afroamericani, che talvolta passano ore ad aspettare.
Le norme sono palesemente discriminatorie e inutili e sono le uniche approvate tra centinaia di leggi simili presentate in quasi tutti gli Stati dell’Unione dal Partito repubblicano per garantire la sicurezza delle elezioni. La ratio per presentarle sono i presunti brogli del 2020 che decine di tribunali sollecitati dal partito repubblicano hanno negato. Il partito di Trump ha chiaro che senza restringere l’accesso al voto rischia di perdere elezioni in serie e corre ai ripari: invece di cambiare linea politica, linguaggio, cambia le regole.
Torniamo al baseball e non solo. Di fronte alla legge della Georgia le multinazionali con sede ad Atlanta hanno protestato. James Quincey, AD e presidente di Coca-Cola, ha espresso il suo disappunto: “Nostro obiettivo è ora quello di sostenere la legislazione federale che protegga l’accesso al voto (…) Abbiamo tutti il dovere di proteggere il diritto di voto di tutti, e continueremo a sostenere ciò che è giusto in Georgia e in tutti gli Stati Uniti”. Parole simili sono venute dall’AD della Delta. Dalla Georgia le proteste di UPS, HomeDepot, il cui boss Ken Langone ha votato Trump nel 2016 e donato milioni ai repubblicani anche nel 2020. Dopo di loro più di 1100 manager (Twitter, Uber, Levi’s, HP) hanno firmato un appello e fatto creare un sito per la promozione del voto con l’obiettivo di una “partecipazione all’80%”. L’idea di questo gruppo sembra essere quella di sostenere la legge federale votata dai democratici alla Camera che semplifica le operazioni di voto, ad esempio rendendo possibile registrarsi per votare nel giorno delle elezioni.
Lo scontro con il Partito repubblicano
Apriti cielo: il Partito repubblicano, campione degli interessi di questi gruppi, favorevole alla partecipazione dell’impresa alla politica attraverso le donazioni illimitate e anonime garantite dalla sentenza della Corte Suprema Citizen United del 2010, ha scatenato l’inferno. Mitch McConnell, che negli ultimi 2 anni ha raccolto 3,6 milioni di dollari in donazioni da imprese, ha diffuso un comunicato nel quale dice: “Il nostro settore privato deve smettere di prendere spunti dal complesso industriale dello sdegno. Gli americani non vogliono che le grandi aziende amplifichino la disinformazione o reagiscano a ogni controversia lanciando messaggi di sinistra. Dalla legge elettorale all’ambientalismo a un’agenda sociale radicale al secondo emendamento (quello delle armi, ndr) parti del settore privato continuano a comportarsi come un governo parallelo. Le corporations subiranno serie conseguenze se si faranno veicolo per le folle di estrema sinistra per dirottare il nostro Paese al di fuori dell’ordine costituzionale… Il mio consiglio ai CEO d’America è di stare fuori dalla politica”. In risposta Patagonia ha annunciato che donerà un milione di dollari per proteggere il diritto di voto in Georgia e invitato altri gruppi a farlo.
Le imprese, insomma, sono il pilastro della società americana se e quando donano fondi in cambio di favori legislativi, ma non se esprimono opinioni. E così il senatore Hawley, quello del pugno chiuso agli assalitori del Congresso il 6 gennaio, twitta che occorrerebbe eliminare i privilegi fiscali della MLB, il suo collega alla Camera Duncan sta scrivendo una legge in materia che due senatori sono pronti a sponsorizzare. Il capo del partito del Texas suggerisce invece di eliminare i bonus fiscali per Microsoft, American Airlines e altri gruppi.
In sala stampa i giornalisti di FoxNews chiedono alla portavoce di Biden, Jen Psaki, come mai MLB si trasferisce in Colorado “dove le leggi elettorali sono molto simili a quelle della Georgia” (falso: in Colorado quasi tutti votano per posta o in anticipo da molto prima del coronavirus).
Lo scontro al quale stiamo assistendo è attorno alle regole democratiche e dopo l’assalto a Capitol Hill e il tentativo di cambiare l’esito del voto nei tribunali, è normale che anche i manager americani, come gli sportivi e molte altre categorie, entrino in questa tenzone. Il Partito repubblicano, usando la carta anti-corporation proprio mentre l’amministrazione Biden propone di alzare le tasse sui profitti delle imprese, rischia di tagliare il ramo sul quale siede, facendosi dei nemici anche tra quelli che sono i suoi naturali alleati.
Il caso Greensill scuote la finanza globale
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Il caso Greensill è l’ennesimo a scuotere la complessa architettura della finanza globale e dei suoi meccanismi (troppo) complessi. E come accade, una delle ragioni per una gestione spericolata può essere la grande vicinanza che alcune corporation sono in grado di stabilire con la politica, con relazioni quando il politico è in “carriera” che evolvono in transazioni economiche, consulenze, discorsi pagati a peso d’oro, pacchetti di azioni una volta che il politico è uscito di scena – ma mantiene il suo portfolio di relazioni. I casi famosi sono quelli di Schroeder, Blair o l’ex leader liberal-democratico britannico Clegg, che oggi guadagna cifre da capogiro lavorando per Facebook.
La Greensill Bank
Prima di parlare della bufera scoppiata attorno a David Cameron, varrà la pena ricostruire in breve la ascesa e la caduta di Greensill Bank, che porta il nome del finanziere ed ex agricoltore australiano che l’ha fondata nel 2011. Greensill nasce come intermediario tra creditori e debitori: paga le imprese per le loro forniture per farsi rimborsare dai debitori per una percentuale. La banca concede prestiti ad aziende che copre con i propri crediti e infine impacchetta questi crediti in complessi strumenti finanziari che piazza sul mercato. Ora, Greensill ha presentato istanza di insolvenza e questo è un problema per due ragioni: nel 2020 la banca ha emesso oltre 143 miliardi di dollari di finanziamenti a oltre 10 milioni di clienti e tra i detentori dei suoi pacchetti di crediti ci sono banche come Credit Suiss o Soft Bank.
Non entriamo a fondo nella vicenda se non per segnalare che diverse autorità di Borsa e della finanza, dopo il 2019, hanno aperto inchieste sugli investimenti, ad esempio quelli fatti da SoftBank appunto nei crediti ceduti da Greensill a CreditSuisse, quando SoftBank aveva anche investito in Greensill, divenendo parallelamente debitore e creditore della banca con sede a Londra. Poi è arrivata la chiusura dei rubinetti da parte delle banche. La caduta di Grensill è un problema enorme per tutti i grandi e piccoli che contavano sui suoi prestiti. Tra questi il magnate dell’acciaio britannico Gupta, 5mila dipendenti nel Paese e centinaia di milioni di debiti.
Lo scandalo Cameron
Il fatto è che nonostante tutto, e forse proprio per gli interessi che muoveva, le autorità britanniche continuavano a considerare Greensill Bank credibile: nel 2020 la banca viene accreditata per fare prestiti garantiti dallo Stato per sostenere le imprese messe nei guai dal coronavirus. E forse c’è una ragione: la bravura del banchiere australiano a muoversi nella politica britannica. Negli anni in cui a Downing Street viveva David Cameron, infatti, Greensill era molto vicino all’ex premier e noto nei palazzi di Whitehall, la strada dei Ministeri di Londra, e così ottenne di partecipare a un programma in cui prestava soldi all’NHS, il servizio sanitario pubblico britannico. Uscito dal 10 di Downing street Cameron ottenne un posto da consulente e molte azioni Greensill dalle quali, raccontava, avrebbe guadagnato circa 60 milioni grazie a una quotazione in Borsa da 7 miliardi. Nel 2020, quando i guai erano già evidenti, Cameron avrebbe mandato diversi messaggi all’attuale Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak per convincerlo senza successo a concedere prestiti di emergenza di quelli che il Governo ha stanziato durante il 2020 alle imprese.
Niente di illegale, come non lo è il viaggio fatto a Riad nel gennaio 2020 assieme a Greensill su uno dei suoi jet privati – che le cronache dicono essere particolarmente lussuosi. I due andavano a proporre ipotesi di investimento e passarono una notte in campeggio nel deserto assieme al principe della corona Mohamed bin Salman, quello di cui i lettori italiani hanno sentito parlare spesso di recente.
Secondo il Financial Times, Greensil vantava anche partnership con il Public Investment Fund, il fondo sovrano saudita, proprio grazie a SoftBank nel cui Vision Fund il fondo gestito da Yasir al Rumayyan ha investito 100 miliardi di dollari. Nel 2019 il gruppo dirigente di SoftBank usò l’aereo di Greensill per volare da Jedda a Riad.
Con ogni probabilità non c’è nulla di illegale in nessuna delle attività di Cameron o di Greensill, non in questa parte di relazioni, lobbying, almeno. Ma certo, c’è quell’intreccio di interessi privati, finanza deregolata, potere del denaro che è uno dei grandi temi della nostra epoca: una politica pronta a passare a consulenze milionarie non è indipendente nelle proprie scelte, le relazioni con Paesi in cui si negano i diritti civili e umani non dovrebbero essere macchiate dai miliardi che quei Paesi investono ovunque, e così via.
Comunque sia il comportamento di Cameron, già golden boy conservatore divenuto l’uomo che ha portato il Regno Unito al disastroso referendum sulla Brexit, verrà sottoposto a indagine da parte del Committee on Standards in Public Life. Che per il premier che nel 2009 denunciava “la relazione fin troppo intima tra politica, Governo, affari e denaro” è una fine ingloriosa.
Usa: lo scontro tra Dem e repubblicani sul diritto di voto
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La scorsa settimana la Georgia ha approvato una legge che ridimensiona la possibilità di votare per posta o in anticipo (depositando la propria scheda in una serie di urne collocate in uffici pubblici, postali, eccetera). La legge introduce nuove norme per la identificazione dell’elettore, restringe il numero di settimane durante le quali è possibile chiedere di votare a distanza o in anticipo così come il tempo durante il quale le contee spediscono le schede agli elettori che ne hanno fatto richiesta, il che è un modo per creare ritardi: meno tempo per richiedere la scheda e meno per spedirla.
Per chiarire come l’intento della legge non sia altro se non quello di impedire alle persone che normalmente votano meno di farlo, basta citare la norma che rende un reato portare acqua o cibo alle persone che fanno la fila al seggio. Lo scorso novembre nei quartieri neri, dove il numero dei seggi e di macchine per votare è più basso perché gli uffici elettorali ne mandano meno, le file sono state interminabili e la campagna democratica ha organizzato distribuzioni di acqua e cibo. In generale, in Georgia i democratici hanno usato tutte le possibilità esistenti per rendere il voto più facile in un anno in cui le restrizioni e le paure per il coronavirus lasciavano ipotizzare una affluenza alle urne in calo. Non è stato così, non in Georgia e nemmeno altrove, dove Trump ha vinto. L’incentivo al voto per posta è stato usato da tutti, con la novità di una campagna democratica condotta da Stacey Abrams che ha lavorato per anni per portare le persone al voto e cambiamenti demografici che hanno reso le minoranze più pesanti dal punto di vista elettorale.
Dopo aver perso la Georgia e l’Arizona, nonché gli Stati del Midwest conquistati per un soffio da Trump nel 2016, la risposta repubblicana non si è tradotta in una riflessione sugli errori commessi. Qui e là c’è qualcuno, persino qualche eletto, che parla di cambiare, ma non le figure importanti. La strategia per cercare di tornare a vincere sembra avere due gambe: da un lato rendere più difficile votare in maniera da depotenziare lo svantaggio nei confronti dei democraticità le minoranze e dall’altro ostacolare la produzione legislativa, impedire a Biden di ottenere risultati. Il primo obbiettivo passa per le 250 leggi di riforma dei sistemi elettorali presentate in 40 Stati. Avete letto bene: 250 leggi che cambiano i regolamenti, un numero pazzesco che lascia pensare che il grande problema degli Stati Uniti oggi non siano le vaccinazioni, la disoccupazione, la povertà o il clima, ma le norme che regolano il voto a distanza.
Il filibuster
La seconda strategia sarà quella di usare il più possibile lo strumento del filibuster, quello che in Italia si chiama ostruzionismo parlamentare e che dovrebbe essere uno strumento estremo. Negli Stati Uniti non è così: il regolamento del Senato rende praticamente impossibile approvare una legge che non sia di bilancio senza 60 voti – 10 in più della maggioranza. Il filibuster contemporaneo non richiede neppure maratone oratorie, il partito che fa ostruzionismo non deve nemmeno passare ore in piedi a parlare davanti alle telecamere, rendendo evidente chi e perché sta paralizzando il lavoro del Senato. Spieghiamo perché: per non paralizzare il Senato, negli anni ’70 si introdusse una norma secondo la quale più di una legge o mozione poteva messere in votazione. Quindi, quando un partito chiama il filibuster, si passa a discutere di altro, ma non si paralizzano i lavori in senso stretto (solo la loro efficacia). Questa norma ha moltiplicato l’uso che si fa di uno strumento che veniva usato solo in casi estremi.
Torniamo alle eleggi elettorali. Joe Biden e i democratici avevano promesso una legge che rendesse più facile votare: registrazione automatica al voto, national holiday nel giorno elettorale e cose simili. Il For the people Act è la prima legge approvata dalla nuova Camera nel 2021 ed è una riforma che aggredisce molte delle cose assurde del sistema elettorale americano: dai finanziamenti, al disegno dei distretti elettorali la legge rende il processo elettorale più equo e simile a quel che in Europa considereremmo normale. Problema: con il filibuster la legge non passerà mai in Senato, perché dovrebbe ottenere 10 voti dallo stesso partito che nel frattempo si affretta a votare leggi per impedire il voto.
Che fare allora? Il Presidente Biden si è sempre detto contrario all’abolizione del filibuster, che rimane una norma a tutela delle minoranze. Il Presidente è anche un fan della bipartisanship, della collaborazione tra partiti. Ma il clima politico a Washington gli sta facendo cambiare lentamente idea. A convincerlo sono state proprio le leggi elettorali come quelle della Georgia. L’offensiva repubblicana contro il diritto di voto non è infatti una divergenza programmatica, ma un braccio di ferro sul funzionamento stesso della democrazia. I repubblicani sanno di perdere se le minoranze partecipano in massa alle elezioni e quindi anziché tentare di conquistarne il voto, cambiano le regole. Per questo Biden ha aperto all’idea di modificare il filibuster e, almeno, farlo tornare a quel che era, una tattica parlamentare difficile da usare. I repubblicani già gridano al colpo di Stato mentre la sinistra del partito chiede a gran voce un cambiamento delle regole per poter proseguire sulla spinta riformatrice avviata con il pacchetto da 1900 miliardi.
E qui entra in gioco Joe Manchin, senatore della West Virginia che ha bloccato l’innalzamento del salario minimo a 15 dollari l’ora. Il moderato democratico, che viene rieletto senza problemi in uno Stato vinto da Trump con 20 punti di vantaggio, ha praticamente diritto di veto su tutto. Ed è contrario a cambiare il filibuster, così come vorrebbe che la legge di riforma elettorale fosse votata almeno da qualche repubblicano. Se, come e quanto Biden saprà convincerlo a votare con il resto del suo gruppo, non lo sa nessuno. Ma c’è da scommettere che nel pacchetto per le infrastrutture, una super legge (o più d’una) destinata a diventare la cosa più importante fatta da Biden, ci saranno molti progetti per lo Stato devastato dalla chiusura delle miniere di carbone e dagli oppiacei.
Omicidio Khashoggi: Riad ha minacciato la rappresentante Onu
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