I dossier in agenda erano molti, dall’Iran al clima fino alla tassa globale sulle multinazionali. Cosa è riuscito a portare a casa il Presidente degli Stati Uniti?
Joe Biden e gli Stati Uniti avevano bisogno di qualcosa che somigliasse a un successo internazionale. L’amministrazione ne aveva bisogno per mostrare agli americani che la propria agenda internazionale ha una direzione e che gli Stati Uniti sono ancora capaci di avere un ruolo preminente.
Il G20 di Roma era il luogo in cui portare a casa il risultato, riparare a dei danni fatti e provare a instradare la complicatissima discussione in vista del Cop26 di Glasgow. I temi in agenda erano davvero molti e i dossier da affrontare per il Dipartimento di Stato erano molti e ciascuno aveva e avrà anche ricadute sulla politica nazionale, dalla comunione del Presidente, all’Iran, al clima e alla necessità di far approvare al Congresso misure che consentano agli Stati Uniti di rispettare gli impegni presi, alla tassa globale sulle multinazionali.
Come è andata? Gli americani possono dirsi relativamente soddisfatti. Uno degli obiettivi era relativamente semplice: far dimenticare i quattro anni di tragiche relazioni transatlantiche dovute ai capricci di Donald Trump. Invece che giocare da soli o imporre scelte attraverso ricatti, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato sono tornati a lavorare assieme agli altri. Europa in primis. Per farlo hanno dovuto fare pubblica ammenda con la Francia per il caso dei sottomarini nucleari venduti all’Australia e dialogare seriamente con Bruxelles, ad esempio sulle tariffe imposta da Trump su acciaio e alluminio.
L’accordo raggiunto in materia di import-export siderurgico supera un dissidio serio e segnala la volontà di mantenere legami stretti in futuro: l’idea di non scambiarsi acciaio prodotto con carbone o prodotto “sottocosto” significa contribuire a ridurre la sovrapproduzione, ridurre la competitività cinese, inquinare meno. Come e se l’accordo possa venire implementato escludendo quei Paesi dove le produzioni sono più inquinanti e senza violare le regole del Wto, è una sfida da verificare. Il passo è comunque interessante: anche le regole sui costi (e quindi il costo del lavoro) o sull’inquinamento entrano a far parte dei negoziati sul commercio. Naturalmente non è bontà d’animo, ma un tentativo di rendere competitiva la propria produzione con quella cinese.
Un successo è pure la tassa internazionale sulle multinazionali. Si tratta di un’aliquota equiparabile a quelle vigenti in alcuni Paesi considerati dei simil paradisi fiscali come Irlanda o Olanda (il 15%), ma è comunque l’introduzione di un principio importante. Per gli Stati Uniti è un successo anche perché neutralizza le web tax introdotte o in via di introduzione in Europa (e in Italia), che avrebbero colpito soprattutto i colossi americani Big Tech.
Anche sull’Iran – ma questa, come per tutto il resto, è tutta da vedere – ci sono passi in avanti e la possibilità di un ritorno a trattative per il ritorno (o il ripensamento) dell’accordo sul nucleare.
Il punto più debole rimane quello anche più importante: il clima. Si tratta del più importante sia per ragioni strutturali (il destino del genere umano, tanto per non essere enfatici) ma anche politiche. Biden ha puntato su quello come lascito da Presidente, ma per adesso non è riuscito a imporre la propria volontà al Congresso. I suoi grandi piani sono naufragati di fronte alle istanze dei due senatori democratici Sinema e Manchin e alla assoluta e totale sordità dei repubblicani.
Il piano B è contenuto nella mediazione trovata con i due senatori “moderati”: 555 miliardi di dollari in crediti d’imposta e incentivi per l’energia pulita. Si tratterebbe del più grande investimento federale Usa in questa direzione, ma comunque non basterebbe minimamente a far rispettare alla prima potenza mondiale e secondo inquinatore gli accordi destinati a uscire da Glasgow, anche qualora fossero al ribasso. L’altra arma è quella dell’introduzione di regole e limiti alle emissioni che costringano le imprese e gli individui a ridurre il proprio impatto ambientale. Non granché ma qualcosa. Tra l’altro Biden non è neppure certo di portare a casa quella proposta: alla Camera su questo c’è una ribellione della sinistra che minaccia di non votare le leggi.
È così che Biden arriva a Glasgow: sapendo di voler fare molto ma non essendo certo di portare a casa nulla. Questa è una debolezza. Anche perché se si vogliono costringere i Paese emergenti e grandi contributori di CO2 come India, Cina, Russia a fare il loro occorre avere qualcosa da mettere sul piatto. Nell’amministrazione permangono poi divisioni sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Pechino: il plenipotenziario per il clima insiste sui toni morbidi per convincere la Cina a imbarcarsi nella lotta al cambiamento climatico in maniera multilaterale, altri sono restii perché osservano l’assertività cinese su tutti gli altri fronti (Taiwan è l’esempio perfetto).
L’offensiva diplomatica statunitense è appena cominciata e proseguirà durante e dopo Glasgow. Per avere successo Biden, Blinken e compagnia hanno bisogno di successi in casa. E viceversa.